Life After Death: l’intervista notturna a Diego Armando Maradona
E poi bisogna fare i conti anche con quello che è andato di sghembo, che ti ha lasciato l’amaro in bocca.

Sono giorni complicati, anzi notti, perché l’alba è ancora molto lontana. E la notte è sempre un contenitore vuoto di pensieri. Quello che è stato va bene, ma il sogno era ben diverso, come dire, un po’ più alto. Così la notte diventa un silenzioso spazio aperto, attraversato dai rimpianti come da uccelli notturni.
Il rumore dei miei passi sul marmo della stazione Centrale di Napoli, a quest’ora assolutamente deserta, è ovattato come l‘incedere stentato di un bambino sulla sabbia. Passo, ciaff delle suole leggere, passo, silenzio.
Forse sto solo sognando perché questa stazione non può essere così vuota e silenziosa, neppure a quest’ora. Sarà che per la pandemia c’è il divieto di uscire la notte, o sarà che i pendolari ancora non hanno aperto le porte al buio, e i nottambuli sono già scivolati silenziosi nelle loro tane.
Potrei godermi questo silenzio che invita alla quiete, che invita a non pensare. Mi fermo su una panchina ai piedi di uno di questi enormi treppiedi rovesciati che sorreggono sdegnosi il soffitto. Geometrie contro la volta, pesante eppure slanciata in linee di fuga intrecciate.
Razionalità di cemento armato contro la mia irrazionalità emotiva.
Ma in fondo, poi, perché questo senso d’amaro? Forse è solo la stanchezza, o la notte profonda. Poche ore fa ero al Festival della Letteratura di Salerno, dove la Marlin Editore aveva organizzato la presentazione del mio ultimo libro. Il presentatore è stato fantastico: ha saputo creare la magia col pubblico e con le mie pagine. Mi girano ancora intorno grandi parole, perfettamente centrate, sull’anatomia del mio romanzo. Scheletro, cuore, figure retoriche. Svolazzano come un’aria profumata di primavera. E poi le domande, sempre acute, quindi due parole con la gente lì, le firme con dedica, l’incontro con altri scrittori, e col mio editore, perché lui è uno che ci crede davvero; ed era lì, come se fosse facile.
Col pensiero rivedo la grande sala, mezzo piena nonostante l’ora tarda. Ecco, capisco quel senso d’amaro: la sala è stata mezzo piena per tutta la presentazione, ma ora che è finita e che sono in questo deserto di marmo, mi accorgo la sala era solo mezzo vuota. È il mio minuto zero, come una sfumatura di tristezza.
La notte è facile restare impigliati a sé stessi, e anche una bella serata ti lascia sempre nelle mani quell’amaro, appiccicoso come la resina delle pigne che hai raccolto sulla spiaggia, e fatto volare solo perché era bello farlo. Penso che sia così sempre, anche per i grandi artisti, gli sportivi e le loro imprese. La soddisfazione non è mai piena, anche quando va bene, hai sempre un’ombra che appare dopo che l’impresa è finita. È il tuo prezzo da pagare.
Hai ottenuto un risultato eccezionale, che ti è costato magari mesi di durissimo lavoro, e poi devi fare i conti con quella resina che ti ha macchiato le mani, e qualche volta l’anima.
Un gol che ti fa conquistare un titolo mondiale? Una medaglia olimpica di una nuotatrice? Bisogna chiedersi cosa tutto c’è dietro, e quale macchia poi rimanga dentro.
All’improvviso, oltre il cartellone pubblicitario di un profumo fresco, appare un ragazzo che urla ossessivamente: «Maledetti treni in ritardo, maledetti treni maledetti…». Compare prima la voce e poi il suo sguardo fisso in avanti che guarda senza vedere niente. Penso che magari lui abbia solo le macchie di resina da scontare, forse macchie senza imprese. Oppure sì, ma i suoi occhi non le hanno registrate. In un attimo arrivano due agenti di polizia, come spuntati lì dal nulla, e lo trascinano via cercando spiccioli di comprensione che quello non ricambia. «Maledetti treni, dovete prendervela coi coi treni, non sempre con me…».
Va via la voce, scemando piano, mentre il trio scompare nel nulla dietro lo stesso tabellone di prima, quasi fosse un sipario che li inghiottisce. Forse lì c’è un teletrasporto fatato che fa apparire e scomparire le persone. Sarei curioso di andare a vedere, ma a quest’ora di notte, sarebbe rischioso. Meglio stare seduti dentro il mio minuto zero.
Mi guardo in giro stupefatto. Il deserto della stazione ha ristabilito il suo profondo silenzio. È il senso di solitudine, di solitudine e pensieri passati che prevalgono ora. Tante persone sono transitate su questo stesso lastricato di marmo con le valige piene di sogni, o con lo zaino pesante di delusioni. La folla che è passata ha fatto sicuramente un gran rumore. Che però ora si è cancellato al progredire della notte, e adesso silenzio. Profondo, che va rispettato. Ma no! Dura pochissimo: di là un deficiente palleggia in solitario. Tarchiato, coi capelli ricci e ribelli, ma grigi come il tempo sprecato, gioca con un pallone da calcio. Lo lancia contro un muro e lo riprende al volo, lo alza solo un pochino e lo fa rimbalzare con l’altro piede senza fargli toccare terra. Fa così, da un calcio all’altro; poi lo sfiora con la testa e ancora tanti rimpalli senza perderlo mai.
Quel rumore tamburellante è più di un disturbo, è un attentato alla sacralità del silenzio.
Il piccoletto, con la barba come se fosse trascurata, e troppi orecchini, seppure discreti, si avvicina con la faccia soddisfatta di chi sarebbe capace di palleggiare all’infinito, e pensa che questo si possa svendere come ammirazione.
Quando è a un passo da me, per evitare il suo sguardo, cerco di fissare il tabellone nero delle partenze, tristemente vuoto con una sola riga compilata.
Serve a poco, perché come se le parole fossero proiettili di mitra, fa partire una raffica.

Maradona: Sei tu della redazione di Oubliette Magazine? Sei quello venuto per intervistare Maradona per la rubrica Life After Death? Non trovavo nessuno, pensavo già che era un imbroglio.
P.B.C.: Eh, cosa? Sì, cioè no. Nel senso: sono della redazione di Oubliette Magazine, ma non sapevo di dover intervistare nessun Maradona. Scusa, ma con chi ho il piacere di parlare?
Maradona: Ecco, andiamo bene! Mi sembri di quelli che non vogliono riconoscere la nostra terra, la nostra Argentina! Scommetto che sei il solito tifoso della Roma, che mi vogliono vedere morto. Bé, quello lo sono già, ma ora non importa. Mannaggia a voi, la direttrice in persona, Alessia Mocci, mi aveva garantito che avrebbe mandato qualcuno bravo a intervistarmi. Invece trovo te, che mi sembri perso e non sai neppure chi sono io. Oh, sveglia, io sono Maradona, Diego Armando Maradona, in persona.
P.B.C.: Capirai…
Maradona: Cosa? Non ci credo, ma guarda questo! E pensare che per essere qui stanotte ho imbrogliato. Ho saltato la fila. C’erano tante persone prima di me, smaniose di farsi intervistare per la rubrica Life After Death e li ho fregati tutti. Pensavo ne valesse la pena. Credevo di trovare qualcuno competente, che so, Filomena Gagliardi, che di calcio ne capisce veramente, più di tanti giornalisti maschi. E invece chi trovo? Uno che… Basta, me ne vado.
P.B.C.: Uno che, cosa? Non trascendere come al solito, altrimenti sono io che me ne vado. Sappi per quella rubrica della nostra rivista ho già intervistato gente come Dorando Pietri, un grandissimo maratoneta, e poi personaggi importanti come Pirandello e Grazia Deledda.
Maradona: Grazia Chi? Ma non importa, perché tutti loro insieme non sono certo Maradona! E tu mi sembra che proprio non lo capisci. Chiuso, me ne torno lassù.
P.B.C.: Fermati, non fare il ragazzino. Vediamo invece se hai il coraggio di farti intervistare da uno che non ti considera certo un idolo. E poi, facciamo un passo indietro, dimmi, cosa vuol dire che hai salato la fila, che hai imbrogliato… A parte che da te non mi meraviglia affatto…
Maradona: Vedi, bisogna farsi furbi, saper approfittare, altrimenti sei fuori. Se non sei il primo, il più in vista, sei fuori, e non sei nessuno. E che dire, erano tutti lì in fila, aspettando il loro turno per farsi intervistare da voi. Io stavo palleggiando per ingannare la lunga attesa, e ho fatto finta di farmi scivolare la palla molto più avanti, proprio nel momento in cui veniva chiamato “il prossimo”, e zac, mi sono fiondato. Si impara nel calcio, quel po’ di malizia che serve a farti vincere…
P.B.C.: A me sembra slealtà, solo slealtà. Come vincere i Mondiali di Calcio con un gol fatto con la mano…
Maradona: No, quel gol contro l’Inghilterra nei Mondiali dell’Ottantasei è stato qualcosa di sovrannaturale, come un’ispirazione divina. Come avevo detto allora, era un po’ con la testa di Maradona, e un altro po’ con la mano di Dio. Vedi, devi capire, nel calcio, in una partita importantissima, ma anche in qualunque altra partita, devi dare l’anima. Sul campo di gioco conta l’entusiasmo, la convinzione e la determinazione. Non faccio freddi calcoli del tipo che mi metto lì, vicino alla porta, e appena posso insacco la palla con la mano. No, si gioca per dare tutto, per dare un’occasione alla tua squadra, all’Argentina, che ne ha avute così poche… Senti l’emozione, il brivido di potercela fare, contro tutte le ingiustizie, le umiliazioni, che abbiamo subito. E allora butti il pallone come puoi, con tutta l’anima, appunto, come un’ispirazione divina. Ancora oggi sono convinto che non fosse la mia mano. Ora, dopo tanti anni e tutto quello che passato, lo so per certo: era la mano di Dio.
P.B.C.: Scusa, ma io sinceramente lo trovo irriguardoso verso lo spirito stesso dello sport. Verso tutti quei ragazzi che ti considerano un idolo. Un imbroglio, non una divinazione. E poi spacciarla per un gesto eroico, sovrannaturale, è stato peggio del fatto in sé.
Maradona: No, tu proprio non capisci il calcio, ma chi ti ha mandato? Farò pressioni su Alessia Mocci perché tu non lavori più per Oubliette Magazine.
P.B.C.: Ecco l’arroganza di chi si crede arrivato tanto in alto. A parte che la nostra direttrice, di bulli come te, se mangia una a colazione e uno a cena. Quello che trovo urticante è la convinzione di essere più in alto di tutti gli altri, sempre al di sopra delle leggi. È uno schiaffo in faccia a tutti. È insopportabile, come quelle corse sfrenate sulle tue Ferrari, che tu e tuo fratello facevate per sfidare il codice della strada, in occasione dei Mondiali di Calcio del Novanta. Erano finite sui giornali quelle bravate senza la patente, senza il rispetto delle regole, del senso della misura, che poi era anche terminata in rissa da strada… E alla fine tutto a posto, dimenticato, con una piccola multa. Ma dai…

Maradona: Quando si deve vivere al massimo, sempre esposti alle critiche di tutti, si deve schiacciare l’acceleratore e basta, quasi senza pensarci su. Proprio nella vita. Maradona è un idolo? Tutti addosso a Maradona, a coglierlo in fallo, a giudicare… A giudicare solo noi. Perché nel nostro ritiro (della Nazionale Argentina), proprio in occasione di quei Mondiali in Italia, ci hanno sbattuto in un feudo della Roma, e ci hanno boicottato in tutti modi. Prova tu a resistere quando insultano e stracciano la tua bandiera, è successo anche questo. Provaci, quando arriva la rabbia, perché l’Argentina viene sempre calpestata.
P.B.C.: E basta con questo tormentone che chi non ti esalta vuole boicottare te e l’Argentina. Invece, parliamo dei Mondiali di Italia Novanta, di quando l’innamoramento dei tifosi italiani sì è spezzato. Della pioggia di fischi che ti hanno accompagnato allo stadio Olimpico. Delle tue lacrime in diretta, sul grande schermo, che hanno fatto esaltare tutti i tuoi detrattori. Non pensi che potesse essere il giusto prezzo per la tua arroganza? Avevi anche urlato insulti al pubblico italiano.
Maradona: No, mai fatto. Non è vero che avevo urlato al pubblico italiano “figli di…”. Lo avevo bisbigliato, quando durante l’esecuzione degli inni nazionali ci avevano assordato di fischi. Ci avevano letteralmente sommerso. Allora io, è vero, l’ho bisbigliato tra me e me: “Figli di…”. In quel momento ho immaginato di dirlo ad ogni singolo spettatore, e di prenderli tutti a cazzotti, uno per uno. Era giusto arrivare a questo? Forse avevamo perso tutti.
P.B.C.: Fato sta che intorno a te c’è sempre tensione. In ogni tappa della tua vita una diatriba tremenda. In campo ti sei anche fatto amare, ma in molti hanno detto che fuori del campo sei una brutta persona.
Maradona: Ma che diavolo di domanda è questa? Cosa vuoi che ti risponda? Che no? Che sì? Ma tu chi sei? Mi sembra di essere intervistato da uno frustrato e inacidito. Ma tu che cosa fai?
P.B.C.: Io faccio lo scrittore!
Maradona: Ecco, appunto, quindi frustrato e inacidito.
P.B.C.: Torniamo sul campo di gioco, per favore. Il grande Nereo Rocco diceva che come sei nella vita sei nel calcio. E forse tu portavi nel rettangolo verde anche i tuoi tormenti; lasciavi vivere lì i tuoi demoni.
Maradona: Al contrario! Li domavo, lì li domavo. Perché il calcio mette tutti sullo stesso piano: poveri come i ricchi, spiriti liberi come quelli terribilmente tormentati. Tutti sullo stesso piano, tutti sulla stessa linea di partenza, e poi ognuno col pallone a far vedere quello che può, quello che vale veramente. Il calcio è una livella, come diceva qualcuno…
P.B.C.: Come diceva il nostro grandissimo…
Maradona: Sì, come diceva il nostro grandissimo Totò!
P.B.C.: Allora almeno Totò lo sai chi è?
Maradona: Bé, Totò è Napoli, anche per me. E poi i film li guardo volentieri, mica come i libri della Deledda…
P.B.C.: Quindi conosci anche Grazia Deledda, mentre prima dicevi…
Maradona: Ma dai, ormai lo hai capito che faccio finta di essere più stupido di quello che sono veramente.
P.B.C.: Sì, come quando nel 2014 un giornalista di Rai 3 ti ha chiesto conto della tua famigerata evasione fiscale… L’ho vista la tua intervista con Paolo Mondani, di Report, che ti chiedeva se sapevi che una parte del tuo ricco compenso passava attraverso una società straniera di comodo per non pagare le tasse in Italia, e tu rispondevi che non ne sapevi niente, che erano accordi tra Ferlaino e il tuo agente. E avevi detto che tutti questi passaggi così complessi non li potevi certo organizzare tu, e neppure capire. «Non sono mica così intelligente», avevi dichiarato testualmente sgranando i tuoi occhi così vispi, ma sempre con quel qualcosa di ombroso.
Maradona: Ma certo, è davvero così. E che cavolo! Ma ti pare? Il fisco italiano mi chiedeva quaranta milioni di euro, tra arretrati, ammenda e interessi. Lo sai, mi ha fatto veramente male. Mi è dispiaciuto così tanto che non volevo più tornare in Italia.
P.B.C.: Non “potevi”, più tornare in Italia, non che “non volevi”! Se permetti è diverso. Tanto che a un giornalista di Rai 3 che ti chiedeva questo avevi risposto col gesto dell’ombrello.
Maradona: Sì, e mi son pentito di avergli fatto il gesto dell’ombrello; perché, come poi mi hanno detto in tanti, avrei dovuto farne non uno, ma almeno tre!

P.B.C.: Era comunque un altro scivolone di Maradona. Mentre un vero idolo non dovrebbe cadere così in basso. Oltretutto altri due tuoi compagni di squadra, Alemao e Careca, con lo stesso problema di evasione fiscale avevano fatto ricorso ed ottenuto un “condono tombale”, che se vogliamo anche questo è uno schiaffo in faccia dei soliti privilegiati alle persone oneste. Ma tu, comunque, non te ne eri proprio occupato, come se non ti riguardasse.
Maradona: Ma io poi ero stato quattro anni a Cuba, lontano. Non ne sapevo niente, o non avevo capito, ero a Cuba e…
P.B.C.: E… avevi grossi problemi con la… lo diciamo?
Maradona: Sì con la droga. È vero con la droga, tanto questo lo sanno tutti…
P.B.C.: No, Diego, non può essere in nessun modo una scusante. Semmai una colpa ulteriore. Lo vedi che per i guai sei una calamita?
Maradona: Io? Dici a me? Mi sono venuti sempre tutti contro perché dico la verità, perché Maradona è uno scomodo. È più facile farla pagare a Maradona che indagare su tutta la corruzione che c’è nel calcio. Sì, anche nella FIFA.
P.B.C.: Quindi anche nei Mondiali di Calcio.
Maradona: Certo, nei Mondiali di Calcio c’è corruzione! E potrei farti tanti nomi, ma te ne faccio uno fra tutti: Michel Platini!
P.B.C.: Bum! Se permetti rimane qualche dubbio. Sei molto bravo a dribblare le domande come lo eri sul campo. Come la storia di tuo figlio, riconosciuto solo dopo trent’anni, avuto da Cristiana Sinagra nel 1986. Per anni hai continuato a dire che non era tuo, poi che era di tuo fratello. Dai… Non ti giudico per questo perché è strettamente personale, ma è davvero molto triste.
Maradona: Ecco, non giudicare. Ma lo sai nel corso della mia vita quante donne hanno detto di aver avuto un figlio con me? Mi pare dodici…
P.B.C.: Sì, ma si dice che sette fossero davvero i tuoi. E intorno a te rimane tutto sempre così nebuloso, come con nessun altro calciatore. Perché? Molti giornalisti sportivi, di quelli bravi, non come me, spesso hanno parlato di un campione fragile. Io mi faccio l’idea di un uomo affamato che si è buttato a capofitto nella vita, per morderla. Trascurando di affrontare i suoi demoni. Eppure ti riconosco che in campo eri un genio. Come vorresti essere ricordato? Come uomo o come calciatore?
Maradona: Ormai che siamo in confidenza te lo confesso: ho avuto spessissimo la sensazione che il calciatore che è in me abbia soffocato l’uomo. E per prevalere, per il solo senso del gol, ne abbia fatto scempio. E la mia vita, come uomo… non lo so… Forse adesso non mi assolvo neppure io. Lo so questo pensiero non è da Maradona. Ma il successo, i grandi risultati, le soddisfazioni più forti si pagano sempre care. Si pagano un prezzo molto alto, e il resto te lo danno sempre in monetine di amarezza. La soddisfazione è uno stato di grazia di un minuto, poi rimani molto più a lungo con te stesso, e allora lo vedi che qualcosa è andata sempre di sghembo.
P.B.C.: Sono assolutamente d’accordo con te, e riflettevo proprio su questo immediatamente prima di incontrarti. Perché, nel mio piccolo, anche per me… E probabilmente tu di questo sei il puro esempio vivente!
Maradona: Vivente? Insomma…
P.B.C.: Sì, vivente, perché continui a vivere nei cuori dei tuoi tifosi. Sei vivo nel cuore di Napoli, per quelle emozioni indelebili che hai dato. Quanto ai tuoi demoni, forse ti devi perdonare prima tu. E adesso, forse, è il calciatore Maradona che può salvare l’uomo Maradona. E per salvarsi non è mai tardi.
Maradona: Vedi, io l’ho sentita, l’ho vista, quell’onda di affetto che dagli spalti arrivava dritta al mio cuore. L’ho sentita, l’ho persa e forse, alla fine ritrovata. Non credevo, ma quell’ultima volta che sono tornato in Italia, come pure quando in Argentina allenavo il Gimnasia, l’ho sentita ancora, e non lo credevo più. Quell’affetto palpitava come le onde del mare, e come le onde mi cullava e mi sosteneva, immerso in uno stato liquido. Bisogna provarlo per capirlo. Tutti dicono che ho fatto tanti errori, ma io rifarei tutto quello che ho fatto, rifarei da principio tutto quello che ho fatto solo per ritrovare quelle stesse sensazioni.
P.B.C.: Forse anche io ho sbagliato con te a giudicarti non bene, e troppo in fretta. Forse per quella tua finta ingenuità, che poi diventa malizia affilata, ma che sa già di pericolo… Forse per questo che non…
Maradona: Forse perché io mi son sempre trascinato dietro una scia di ombre, come una cometa al contrario. Lei va con una scia di luce, e io di ombre. Ma io, in fondo, sono quello che sul campo cercava la rivincita. Sono quello che ha contribuito a liberare Napoli da quella enorme suola di scarpe che schiacciava tutti, come pure l’Argentina.
P.B.C.: Questo te lo riconosco.

Maradona: Sai, quando sei lì sul campo, con la palla, le righe bianche e gli avversari, non pensi che devi liberare il mondo. Senti solo un potente palpito di cuore che ti fa andare oltre te stesso. E per tutte quelle volte che ho sofferto la fame, come altri bambini, in Argentina o a Napoli; per tutte quelle volte che abbiamo subito la prepotenza di chi sta in alto; per tutte quelle volte che è andata storta, mi lanciavo oltre gli avversari con tutto l’impeto che potevo. Per tutte quelle volte che la corruzione ha rovinato una città o un intero paese, per tutte le maledette ingiustizie pagate care, lanciavo la palla con foga contro la porta. Abbiamo subito, ingiustamente, e allora tira quel pallone più forte che puoi. La vita è sempre oltre il portiere dell’altra squadra. Superare quel portiere, che sta tra me e la rete, è stato come superare tutti i miei demoni.
P.B.C.: Lo capisco, come per me la pagina bianca: una sfida.
Maradona: Certo, ma una sfida con sé stessi, perché i nemici peggiori difficilmente stanno fuori di te. Ricordalo: i nemici li devi combattere sempre da dentro. Oh, cavolo, di nuovo quei due poliziotti che appaiono dal nulla, devo scappare. Non ho documenti, e non posso spiegare che sono Maradona. Non più ormai. Addio, alla fine mi sei simpatico. Addios!
P.B.C.: Anche tu. Alla fine rivedo il mio giudizio su di te, e ho capito che per perdonarti bisogna sapersi perdonare. Una grande lezione, forse dall’ultimo della classe, ma una grande lezione. Vai Diego, fai buona strada.
Written by Pier Bruno Cosso
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