“La macchina del tempo” di H.G. Wells: il destino è oltre quella collina
“Può esistere un cubo istantaneo?” – chiede agli amici il “Viaggiatore del Tempo (perché così sarà opportuno definirlo)”.
Chi è quest’arcano individuo, che a definirlo particolare significa sminuire la sua unicità. Egli è, punto. Egli fa, punto. Egli va, punto. E non sempre ritorna.
“Ci sono in realtà quattro dimensioni, tre delle quali definiamo i tre piani dello spazio e la quarta è il tempo.”
Quest’idea, che pare balzana agli occhi dei suoi amici, il Viaggiatore la deriva dagli studi che già a fine ‘800 portavano a considerare inscindibili i concetti di spazio e di tempo e che permetteranno a Einstein di formulare nel 1905 le sue prime teorie relativistiche. L’anno di pubblicazione del romanzo è il 1895.
Del resto, questo prototipo d’inventore pazzo dice: “Se per esempio io ricordo un episodio con molta chiarezza, torno all’istante in cui è avvenuto: mi distraggo, come si suol dire. Per un momento spicco un salto all’indietro” – con la mente e solo all’indietro; no, assicura quest’uomo imprevedibile, è possibile farlo anche in avanti e con la propria fisicità.
Dapprima egli mostra uno strano esperimento con un modello di macchina del tempo e poi chiede: “Vi va di vedere la Macchina del Tempo vera?” – e subito dopo la mostra a quel nugolo di scettici.
L’io narrante non ha un nome, ma s’intuisce che sia uno scrittore (lo stesso Wells?) e che sia amico di vecchia data dell’uomo delle meraviglie.
Una settimana dopo, il Viaggiatore torna, affamato e zoppicante, a casa propria, dove già sono presenti numerosi ospiti venuti sia per ascoltarlo che per desinare piacevolmente.
Prima di raccontare quel che gli è successo, il Viaggiatore non vuole sentire ragioni: “Voglio mangiare qualcosa. Non dirò una parola prima d’essermi messo un po’ di peptoni nelle arterie. Grazie. E anche il sale.”
A chi freme per l’emozione e vuol sapere se ha davvero viaggiato nel tempo, egli risponde “con la bocca piena” semplicemente con un “Sì”.
Lo scrittore segnala ai lettori i propri limiti: “Nello scriverne avverto fin troppa acuta l’inadeguatezza di penna e inchiostro, e soprattutto la mia personale inadeguatezza, nel comunicare la qualità del suo racconto.”
Dal capitolo 3 fin quasi alla fine l’io narrante sarà soltanto lui, il Navigatore del Tempo.
“… ho spinto la prima e poi immediatamente la seconda. Ho avvertito un senso di vertigine e ho avuto la sensazione di precipitare tipica degli incubi…”
La sua velocità temporale è di un anno per minuto. In men che non si dica, giungerà a veleggiare un po’ più avanti rispetto al suo tempo: l’802.701 dopo Cristo.
Uscito dalla macchina, s’imbatte in una strana tribù di esseri alti un metro e poco più, esili, gioviali, tranquilli, amichevoli.
Uno di loro, giuntogli vicino, “rise guardandomi negli occhi. Mi colpì subito l’assenza nel suo comportamento di qualsiasi segno di timore.”
Li guarda esterrefatto: “C’era piuttosto qualcosa in quelle graziose personcine che ispirava fiducia, una garbata cortesia, una infantile semplicità di modi.”
Li vede innocui, ma anche fragili e indifesi. E ingenui, come rivela la loro domanda, fatta coi gesti, se egli venisse dal sole.
“Mentre camminavo con loro mi tornarono alla mente, con irresistibile divertimento, le mie fiduciose anticipazioni di una posterità di infinita solennità ed evoluzione intellettuale.”
Non può fare a meno di notare che “l’arco del portale era sontuosamente scolpito, ma naturalmente non osservai molto bene le incisioni, anche se passando mi parve di intuire richiami di antiche decorazioni fenicie, ma soprattutto mi colpì quanto fossero rovinate e consumate dalle intemperie.”
La manutenzione degli edifici e il restauro dell’antichità non rientravano tra le consuetudini locali.
Pur essendoci “una varietà ipertrofica di lamponi e aranci”, non si vedevano animali, quali “cavalli, bovini, ovini e cani”, da tempo estinti, come scoprirà in seguito.
Una deduzione antropologica: i due sessi sono sostanzialmente simili, pur non uguali, e di analoghe dimensioni.
Considerazioni varie: “… la forza di un uomo e la cedevolezza di una donna, l’istituto della famiglia e la differenziazione tra occupazioni sono la necessità contingente di un’epoca dominata dalla forza fisica”; inoltre: “dove la popolazione è bilanciata e abbondante, un eccesso di procreazione per uno stato diventa un male invece di una benedizione, mentre laddove gli atti di violenza sono rari e la prole è al sicuro, c’è meno bisogno, posto che ce ne sia, di una famiglia funzionale e scompare la necessità di specializzazioni in base ai sessi in riferimento ai figli.”
In altre parole, qui maschio e femmina sono sostanzialmente assimilabili e nessuno sembra preoccuparsene.
L’ambiente abitativo non prevedeva “edifici di grandi dimensioni” e “tutto il pianeta era diventato un giardino”, senza però siepi, perché non c’era alcun bisogno di dividere gli spazi fra le diverse famiglie, ché non pareva essercene.
Lo spazio era di tutti. Probabilmente quest’urbanistica solidale non sarebbe dispiaciuta ad Andrea Staid, autore di La casa vivente.
Ulteriore ragionamento: la nostra civiltà prevede “migliorie che avvengono gradualmente, perché la nostra cognizione è molta limitata e procediamo per tentativi, non avendo bel chiaro quale sia il nostro obiettivo.”
Ma un giorno “il mondo intero sarò dominato da intelligenza, istruzione e collaborazione, le cose si muoveranno sempre più velocemente in direzione della sottomissione della natura. Alla fine ricostituiremo con saggezza e consapevolezza il giusto equilibrio tra mondo animale e mondo vegetale perché si adattino alle nostre necessità di esseri umani.”
Sarà…
“Nell’aria non c’erano moscerini, la terra era libera da erbe infestanti e funghi, dappertutto c’erano fiori e frutti bellissimi e profumati, qua e là svolazzavano farfalle dai colori brillanti.”
Al Viaggiatore pare che nessuno sia “occupato in mansioni faticose. Non c’era traccia di lotta, né sociale né economica.”. Non c’erano manco “negozi, pubblicità, traffico…”.
Quel luogo, apparentemente privo di conflitti, ma anche d’iniziative d’alcuna specie, indicava una specie di cessazione della Storia per raggiunti limiti d’età.
“Tale è sempre stato il destino dell’energia in condizioni di sicurezza: scivola nell’arte e nell’erotismo e da lì nel languore e nella decadenza.” – si trasforma in materia e poi in energia, ma prima o poi qualcosa decade e sfocia nell’entropico quasi nulla.
Il Viaggiatore si accorge che qualcuno ha nascosto l’astronave e la cosa lo terrorizza. Dovrà sempre rimanere in quel microscopico paradiso?
Non è che sia facile parlare con quella gente: “… il loro linguaggio era eccessivamente semplice, composto quasi esclusivamente di sostantivi concreti e di verbi. Sembrava quasi del tutto privo di termini astratti, e quelle creature facevano un uso sporadico del linguaggio figurativo.” – mancava ogni forma di antifrasi: l’ironia serve dove si vuole prevalere sul prossimo e qui nessuno pare aver voglia di primeggiare.
Il Viaggiatore s’imbatte in Weena, una deliziosa gnometta che più tenera non si può, che le farà un po’ da Venerdì. La quale gli mostra che la paura esiste ancora, ma solo di notte: “temeva le ombre, temeva tutto ciò che era nero.”
Questi esseri squisiti sono gli Eloi. Il Viaggiatore scopre che, nelle profondità, esistono i Morlock, assai più arcigni e meno belli da vedere.
Egli pare essere un novello Gulliver che in un Altrove che più Altrove non si può, ritrova a poco a poco le contraddizioni e le atrocità dell’umano genere.
Eloi richiama il nome ebraico di Dio: Ĕlōhīm.
Morlock fa pensare a Moloch, che è il nome di un Dio egiziano, cananeo e fenicio, che indica anche un tipo di sacrificio che si associa al fuoco.
Fra il Viaggiatore e i Morlock è una lotta senza quartiere. Egli scopre, tra l’altro, che questi mostriciattoli utilizzano gli Eloi come bestiame da allevamento al fine di produrre carne fresca per le loro atroci libagioni, e la cosa lo inorridisce.
Ormai il Navigatore è solo, anche se Weena continua a danzare felice accanto a lui, deliziandolo.
Avendo perso un tacco in una scarpa, egli sente male alla caviglia: “… mi tolsi le scarpe e le gettai via.” – gesto che pare quasi catartico.
“Quegli Eloi non erano che bestiame ingrassato che i Morlock, quegli esseri simili a formiche, proteggevano per farne loro prede, occupandosi probabilmente anche per la loro riproduzione. E accanto a me c’era Weena che danzava!”
Questa ragazza, chiamiamola così, gli pare “più umana di quanto fosse in realtà”, perché gli pareva “profondamente umano il suo affetto.”
Il solito, buon vecchio Kam’a, il moto della passione, che non scorge le differenze e che sempre esalta le affinità psicologiche.
Il Viaggiatore trova di tutto, “spoglie decomposte di libri”, “fiammiferi”, “canfora”, “un cefalopode che doveva essere morto ed essersi fossilizzato milioni di anni prima”, che potrebbe servirgli ora come candela, e anche “un ampio assortimento di idoli: polinesiani, messicani, greci, fenici, di ogni paese possibile e immaginabile.”
Si accorge che Weena è sparita. Intanto scopre anche che i Morlock, sembrano essere quasi impazziti a causa della luce violenta che sprigiona il fuoco: “Tre volte vidi dei Morlock abbassare la testa e precipitarsi in mezzo alle fiamme come spinti da un dolore insopportabile.”
Dopo un ultimo scontro con quegli odiosi residui di umanoidi, egli cerca Weena, o almeno il suo cadavere, ma non la trova, né viva né morta. E il fatto lo turba parecchio.
“Mi angosciava pensare a quanto breve fosse stato il sogno dell’intelletto umano. Si era suicidato…” – la scomparsa della sua affezionata compagna non gli impedisce di filosofare sul destino dell’umano genere, e sulla necessità del conflitto perché si mantenga l’intelligenza e la capacità umana.
Queste qualità erano rimaste solo nel popolo dei Morlock, i quali “avevano probabilmente conservato un grado di iniziativa superiore a quella del popolo in superficie, pur nell’assenza di qualunque altra caratteristica umana.” – e il merito di questo era dovuto al fatto “che erano ancora in contatto con macchine che per quanto perfette avevano ancora bisogno di un minimo di attenzione al di là dell’abitudine.”
In altre parole, dove restano le macchine, lì rimane una pur perversa forma di civiltà.
Al Viaggiatore non resta che scappare. Rinvenuta per miracolo l’astronave, respinto l’ultimo attacco del nemico, egli parte per l’ulteriore futuro, in cui si accorgerà che gli esseri umani sono finalmente estinti, e dove incontrerà degli inquietanti crostacei, e anche “un essere simile a un enorme farfalla bianca”, che dopo aver svolazzato un po’ obliquamente, scompare “dietro una collina bassa di colline”.
Il capitolo 12 inizia con il suo bizzarro io narrante, che dopo pochi capoversi è ceduto al legittimo titolare, colui che sta ha iniziato le prime pagine del romanzo e che ora si appresta a terminarlo.
Nessuno crede alla veridicità della sua narrazione e anche lui si chiede se ha “mai veramente costruito una Macchina del Tempo…” – e il dubbio non lascerà forse mai.
L’autore dirà poi che un giorno si presenta a casa del Viaggiatore e scopre che quello era partito, per dove non si sa: “È scomparso tre anni fa. E, come ormai sanno tutti, non è più tornato.”
Se un giorno mi capitasse d’incontrarlo gli chiederei lumi su un arcano a cui non so rispondere.
Einstein disse che nulla è più veloce della luce nel vuoto, ma che, casomai essa fosse superata, tornerebbe indietro nel tempo. Da anni si stanno studiando i tachioni, i principali candidati a tale incredibile impresa. Pochi mesi fa, il 14 luglio 2021, è morto il famoso fisico Erasmo Recami, che dedicò gran parte del suo tempo a cercare queste misteriose particelle super-luminali.
Se un giorno t’incontrerò, Viaggiatore, vorrò sapere da te quale diavoleria ti ha permesso di recarti nel futuro, perché che tu lo abbia davvero fatto è per me un atto di fede.
Cos’hai utilizzato per tale astrusa impresa? Forse qualcosa che va più lento di qualunque altra? Nessuno sa cosa possa essere. Come nessuno sa quel che (non) esiste al di sotto di un certo spazio di Planck, di cui il tacere è bello, perché non si può fare altro che sognare. E tu sei il Principe dei Sognatori, caro mio. Grazie a te, anch’io ci sono riuscito, a sognare.
Azzardo un’ipotesi: in questo momento stai cercando Weena, perché intendi salvarla dal suo infame destino.
Non mi sorprenderei se un giorno, dopo averla individuata nella folla degli Eloi, in un tempo precedente a quel rovinoso e inutile conflitto con i Morlock, tu la portassi con te da qualche parte.
E dove la condurresti, se non nel migliore dei mondi possibili?
È vero, il più sarà trovarlo, ma vedrai che, prima o poi, quell’Eden spunterà dietro una collinetta, l’ultima che ti sarà dato di sorvolare con la tua strepitosa Macchina del Tempo.
Finché c’è pace, c’è speranza di tornare a essere uomini.
Purtroppo solo questo il nostro egoismo ci consente, di salvare quel che ci è più caro.
Di tutto il resto, qualcun altro, forse, si occuperà.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
H.G. Wells, La macchina del tempo, Newton, 2017