“Pasolini – L’uomo che conosceva il futuro” di Marco Trevisan: il genio che crea distruggendo
Ogni libro (e quell’ogni mi fa un po’ fremere), sì, ogni libro contiene una dose più o meno grande di magia. Il bello del discorso è che tu, per quanto ne possa comprare, rubare, prendere a prestito, rinvenire su qualche bancarella dell’usato, rigirare tra le mani, indeciso se portarli con te o no, quella loro magia non la puoi cogliere se non li leggi.
Alla fine ne pigli uno, lo introduci in casa e lo riponi prudentemente su uno scaffale. Non metterlo mai in un contenitore chiuso perché deve prendere aria.
Una volta mi capitò di incontrare un signore che affermava che il suo appartamento era privo di libri perché erano ancora in cantina, rinchiusi in un infame scatolone, in cui li aveva messi al momento della partenza dal paese natio. Infame era lui, non quel cartone cuboidale. Lo scoprii perché spesso mi capita di chiedere agli amici: dov’è la vostra libreria? Lo so, qualche problema ce l’ho anch’io.
Dopo averli riposti, ogni tanto, passando, dai loro un’occhiata e, se sei psico-strano, dentro di te
gli dici: su, che prima o poi arrivo. E lui rimane silente, ad aspettarti. Senza manco abbaiare. Perché ho scritto tutto questo off topic?
Per tre ragioni. PPP, come mi va di chiamarlo, è l’autore italiano più fuori tema. In secondo luogo perché nessun letterato è stato letterariamente e letteralmente più completo e imprevedibile di lui. In terzo luogo perché è un autore che ho sempre ammirato, e schivato. Ultima questione, prima di terminare quest’assurda premessa, è che io adoro PPP, ma di lui ho letto solo Scritti corsari, acquistato pochi giorni dopo la sua morte. Su una mensola del corridoio, da una vita, sporgono altri sei libri suoi che ogni tanto adocchio con un inspiegabile senso di colpa, ma proseguo poi dritto per i fatti miei.
Intuisco, ma non ne sono certo: essendo lui per me un mito, ho paura che, leggendolo, egli si banalizzi. Compito del presente volume Pasolini – L’uomo che conosceva il futuro di Marco Trevisan è di svegliarmi da quel sonno che definirei mistico.
“Costruita come un docufilm, questa biografia corale si avvale delle voci in presa diretta dei protagonisti, da Moravia ai fratelli Citti, da Maria Callas allo stesso Pasolini, che racconta di se stesso come mai prima d’ora, quasi in una sorta di autobiografia ideale.” – così recita la quarta di copertina.
La prima reazione ce l’ho a pagina 31, della Scena Due, per due versi di una poesia dedicata da PPP alla mamma: “Sei insostituibile. Per questo è dannata/ alla solitudine la vita che mi hai data.”
L’autobiografia post-mortem (non so definirla con maggiore allegria) è composta da brevi passaggi tra virgolette, seguiti da lunghi periodi senza di esse. Ne deduco che i primi sono parole letterali di PPP, i secondi sono considerazioni di PPP riportate in forma libera da Marco. Sono anche riportati, con carattere più piccolo, alcuni passi tratti dai suoi libri.
“Solo che, vedete, ‘la mia sofferenza è dovuta al fatto che per me una disgrazia non è mai quella disgrazia lì, ma una disgrazia cosmica, che mette in me forse tutto me stesso. Ogni scacco per me è uno scacco totale.’”
Ricordo certe espressioni del suo viso che non erano di certo gaie e votate all’ottimismo.
Qualcuno parlò dell’universo orrendo di Pasolini. Non so se sia un’espressione dello stesso PPP o l’interpretazione di qualcuno, ma dà in modo atroce l’idea.
Universo orrendo. Quelle due parole rimbalzarono nella mia mente di diciassettenne quando, quell’immonda domenica del 2 novembre 1975, sentii un giornalista di Rai1 aprire il telegiornale delle 13,30 dicendo, con voce emozionata: Forze oscure…
… avevano portato alla morte il noto scrittore e regista PPP.
Due analogie fra PPP e me: dopo aver letto i libri di Salgari, passammo d’improvviso alla lettura de L’idiota di Dostoevskij, anche se, quando mi capitò, avevo una decina d’anni più di quelli che aveva, a suo tempo, lui. Per entrambi, quel principe ingenuo rappresentò “la rivelazione”. E pensare che prima di quel libro che lessi per un tardivo amor filiale (mio padre da anni mi scongiurava di farlo) io rifiutavo di perdere il mio tempo con la finzione letteraria, limitando il mio interesse a saggi, a poesie e ad autobiografie. Questa era un’ulteriore ragione per cui non avevo letto i romanzi di PPP.
Egli passava i suoi più bei momenti presso “le bancarelle del metà prezzo sotto il portico della Libreria Nanni, a pochi passi da piazza Maggiore”, a Bologna. Io mi rivolgevo invece al negozio Remainders di via Emilia San Pietro, a Reggio Emilia.
Nella mia città, PPP c’era stato nel biennio del ginnasio. Risiedeva però a Scandiano: “Ricordo che ogni mattina dovevo prendere il treno per Reggio Emilia, per recarmi a scuola.”
Inquieta la sua frase che apre la Scena tre: “Ciò che si vive istintivamente è sempre enormemente più avanzato di ciò che si vive consapevolmente.”
Risulta evidente la tendenza di PPP di cercare la verità nel mistero di sé e del mondo attraversato da quel sé, che poi doveva essere analizzato razionalmente e trasmesso alla scrittura o alla regia di film: un riportare dal basso quel che poi dovrà essere prima interpretato e poi sublimato.
Freud parlava di istinti, Jung di inconscio razziale e collettivo. Christopher Bollas nel suo recente Le forze del destino, dice: “quanto di questa conoscenza, più complessa dell’istinto animale, che è un’altra manifestazione di una conoscenza non pensata, verrà utilizzato e inserito nell’essere del soggetto dipende dalla natura dell’esperienza che il bambino fa della madre e del padre”.
PPP dice di aver adorato il padre fino all’età di tre anni, poi di averlo considerato una specie di antagonista non solo di sé, ma soprattutto della madre, con cui PPP ha sempre condiviso la propria sorte. Entrambi i genitori, a detta dello psicoanalista inglese, hanno determinato l’inconoscibile imprinting nella mente del poeta.
Il padre, di famiglia nobile e ricca, era innamoratissimo della consorte, d’origine contadina, ma non si sentiva contraccambiato, per cui per anni la maltrattò, riprendendola per la minima imprecisione casalinga. Portò inoltre la famiglia alla rovina a causa del vizio del gioco e della sua eccessiva dedizione all’alcool. A causa del suo impiego quale ufficiale di fanteria, lui e la sua famiglia erano costretti a girare l’Italia.
La poesia riportata all’inizio della mia reazione dà l’idea del rapporto passionale che PPP aveva instaurato con la mamma, che ovunque le stette vicina, fino al giorno che precedette la sua tragica morte.
Egli parla della propria omosessualità, dicendo che: “me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro.” – quasi fosse un corpo estraneo con cui doveva convivere, e che talvolta finiva per tormentarlo, e quasi violentarlo.
Era diversa da quella dell’amico e grande poeta Sandro Penna: “Le differenze umane tra me e lui?” Sandro era un uomo quieto e amichevole, PPP un uomo inquieto e provocatore. In tutto, non solo nel suo stato sessuale.
PPP, dopo aver frequentato il Liceo Classico, si laureò in Lettere col massimo dei voti. Intanto la situazione economica della sua famiglia diventò così disastrosa, che la mamma fu costretta a servire a casa d’altri. Espulso dalla scuola pubblica a causa di una condanna penale, a Roma riuscì a entrare in quella privata.
La specificità di PPP, che rappresentò per tutta la sua vita il suo tormento, e alcuni suoi versi dialettali, gli permisero di farsi notare e apprezzare da eminenti personaggi della cultura, quali Montale, Calvino, Ungaretti e Fortini.
Dopo la pubblicazione e il successo del romanzo Ragazzi di vita, il quasi nullatenente PPP divenne quasi benestante, nonché ricercato da case editrici e riviste: “… ormai ero un personaggio popolare, quasi da rotocalco.” – e la sua opera cominciò a dividere la cultura ufficiale in ammiratori e detrattori.
Divenne amico di scrittori quali la Morante, Moravia, Bassani e Caproni.
“Poi quando però gli amici andavano a dormire, per me cominciava una seconda vita, quella profonda, notturna…” – che ispirò la sua opera successiva, nonché l’ultimo suo capolavoro: la propria morte.
La quale pare una frase a effetto priva di significato certo, e non ce l’ha infatti, ma la sua disgraziata fine è quello che ricorderò maggiormente di lui. Il presente libro dovrà servire da viatico che mi consentirà di giungere alla lettura dei suoi capolavori.
“Roma non sarebbe così bella, se non ci fossero i ragazzi, sono essi che le danno tono. Precoci, sensuali, belli, maleducati, avidi, spiritosi…” – vivi.
Caro PPP, dici che guadagnavi bene e che “coi soldi che cominciavano a entrarmi con una certa facilità regalavo vestiti di grande sartoria a mia madre: volevo fosse elegante, distinta, felice.”
Non si capisce dove Marco Trevisan abbia raccolto questa tua frase, di certo non se l’è inventata. Essa ti descrive come un piccolo borghese che vuole rendere non solo presentabile, ma anche chic la più amata delle consanguinee. E tu? Di notte “… io me uscivo in strada, in cerca di incontri, avventure, vita vera.”
Come definiresti la tua vita quando, ripreso dalle telecamere, esponi le tue acute considerazioni sul mondo degli umani?
Anna Magnani recita nel film “Mamma Roma”, eppure non rientra, a detta di tutti, anche di te, nel personaggio. Tu le avevi chiesto l’impossibile, di non recitare.
“Io cercavo ‘la plasticità, soprattutto la plasticità dell’immagine, sulla strada mai dimenticato di Masaccio…’” – qualcosa di realmente irreale e dovrai ammettere anche tu che non è facile intendere quello che talvolta richiedi, seppur con gentilezza, a chi ti è accanto.
Sembra quasi che ti interessi la fisicità e l’anima dell’attore, più che quella del personaggio, che deve rimanere immaginario, fantastico. Per questo dici di non sentirti neo-realista; semmai, dico io, neo-irrealista, fenomenico, terreno e, al contempo, concettuale, significante, aereo.
Parli della morte non come di una liberazione, quanto di un fine a cui occorre aspirare vivendo.
“È dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi, manchiamo di senso” – e queste sono le effettive parole che hai pronunciato, oppure scritto da qualche disgraziata parte.
Alla Scena Diciotto, che parla del film Teorema e del Sessantotto, vorrei aggiungervi una reazione legata ai miei personali ricordi. Prima mi urge commentare il ragionamento riportato: “Il ‘teorema’ era semplice: nel momento in cui una famiglia borghese si trova di fronte a una forza liberatrice (anche sessuale), che svela i falsi valori su cui si fonda la sua esistenza, rivelandone la vuotezza e inautenticità, questa famiglia si disgrega con conseguenze imprevedibili.”
Ricordo un film di quegli anni successivi al ‘68: Il fantasma della libertà di Luis Buñuel, di cui m’impressionò, restandomi nella memoria, la scena della defecazione collettiva in sala del pranzo e quella bambina che dice alla mamma che ha fame, ma è subito censurata, perché quelle cose non si dicono a tavola. Infatti quell’ambiente non è un refettorio, bensì un sontuoso cesso. Nel pur elegante bagno ci si reca solo per mangiare, in perfetta intimità con se stessi.
Il mondo, così rovesciato, appare specularmente identico a quello abituale. Del regista aragonese amo la spettacolare antifrasi che rende ridicolo ma reale il mondo, descrivendolo come l’esatto contrario di quel che appare normalmente. A memoria non ricordo nulla di simile nei tuoi film.
Scena di Teorema: “… Un telegramma comunica l’imminente arrivo di un ospite. L’ospite sopraggiunge e ha rapporti sessuali con tutti, donne e uomini di casa, sconvolgendo l’ordine delle cose. ‘In origine avrei voluto fare di questo visitatore un dio della fecondità, il dio tipico della religione preindustriale, il dio solare, il dio biblico.’” – il Dio del Destino, se non addirittura del Fato ineluttabile.
“‘Naturalmente, messo di fronte alla situazione reale, ho dovuto abbandonare l’idea di partenza, e ho fatto di Terence Stamp un’apparizione genericamente ultraterrena e metafisica: potrebbe essere il Diavolo, o una mescolanza di Dio e il Diavolo. Quello che importa è tuttavia il fatto che risulta qualcosa di autentico e inarrestabile.’”
Il film di Buñuel rimarrà nella mia memoria, il tuo l’ho scordato, oppure non l’ho mai visto, e non sono pertanto in grado di rapportarne i rispettivi valori artistici. Dalle tue parole credo di aver capito che quel Dio erotico sia stato rivoluzionario, mentre non ricordo pensieri religiosi in relazione ai film del maestro spagnolo.
Di quel periodo, intorno al 1972, ricordo un lungo servizio sul settimanale Espresso, basato su un tuo intervento, dal titolo: è nato un bambino, c’è un borghese in più. Era stato richiesto a vari intellettuali un commento su un articolo in cui tu dichiaravi che ormai i miti degli operai erano di tipo (piccolo) borghese. Ricordo il titolo di un intervento di non so chi: smettila di dire che la Storia non esiste più.
Quel settimanale era celebre per la titolazione particolarmente espressiva e a volte eccessiva. Non mi pare di ricordare che nessuno dei partecipanti al dibattito abbia in un qualche modo condiviso il tuo parere.
“… attraverso il capitalismo, la borghesia sta diventando la condizione umana. Chi è nato in questa entropia, non può in nessun modo, metafisicamente, esserne fuori. È finita.”
Entropia: disordine cosmico che è conseguente del secondo principio della termodinamica. Il mondo pare destinato (fatalmente condannato?) all’estrema dispersione della materia, fino a che la temperatura di ciascuna particella sarà ridotta allo zero assoluto. L’unica speranza è che l’energia oscura che costringe le galassie ad allontanarsi l’una dall’altra, cambi rotta e riconduca alla singolarità iniziale.
Nel frattempo che il Dio Cosmico si decida, vorrei parlare di Porcile, film che vidi e che m’angustiò.
Julian è: “… un personaggio che nutre una inconfessabile passione per i maiali, coi quali ama accoppiarsi, e finisce per esserne divorato. Barbarie ‘è la parola al mondo che amo di più’, dichiarai, ‘perché la barbarie è lo stato che precede la civiltà, la nostra civiltà.’”
Tutto quel che nasce fu a suo tempo morto e quel che muore un giorno risorgerà, col nome del nonno magari, poiché tutto si agita e si trasforma. Chi fu barbaro è ora greco, e chi è ora greco tornerà barbaro. Non credo che ciò sia dubitabile. Fino alla fine dei tempi sarà così.
“Per capire il film bisogna avere più cuore che testa (certo se c’è la testa, meglio): perché c’è da capire la disperata storia di un peccatore che fa del peccato la sua santità…” – quanta anima tua c’è in questa frase?
Ad alcuni studenti dicesti: “… Mentre prima ero tentato di semplificare i miei problemi, le mie problematiche, di dare loro un andamento epico in modo che fossero consumabili, adesso punto sulla inconsumabilità.”
Antonioni creava capolavori sull’incomunicabilità tra le persone, tu punti su una comunicazione che non possa servire a saziare i gusti del pubblico. Per cui definisci il tuo “cinema aristocratico, inconsumabile”.
Il messaggio è avvolto dal velo della religione, e dai suoi misteri. Come, in Medea, “il Centauro spiega a Giasone: ‘Tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito e comincerà qualcos’altro.’. ‘Ma la santità è anche una maledizione. Gli dei che amano al tempo stesso odiano.’”
La spontaneità diventa peccato. Quel che occorre è raggiungere la consapevolezza del processo che è in atto, comprenderlo almeno quel poco o nulla che è concesso. Da chi? Dalla Storia, questa dea zoppa e inconsulta? O da Qualcun Altro?
La Scena Ventuno è intitolata Un amore impossibile, quello che separa e unisce te a Maria Callas, per cui tu provi (cito un paio di versi di una poesia che le hai dedicato) “… un affetto più grande di qualsiasi amore su cui esporre inutilizzabili deduzioni…”.
Ricordo una foto pubblicata da una rivista: te e lei su una vespa (o era una lambretta?, chi potrà dirmelo più?). Sembravate giovani e felici.
Posso parlare di Ninetto Davoli? Era il tuo ragazzo, a cui eri legato da un amore di tipo platonico. Da amore, punto.
“Quando a Bath Ninetto mi annunciò il suo matrimonio, mi sfogai con Volponi: ‘Sono quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire. Tutto mi è crollato intorno…”
Quel ragazzo, così magico con le sue improvvise risate infantili, era il figlio che non avevi mai avuto. E ne eri gelosissimo.
Meditasti persino di suicidarti, d’impiccarti. “Poi mi ripresi. Il tempo guarisce molte cose.” Qualcosa in te tornò allora al punto di partenza.
“Ma senza Ninetto tornai a uscire di notte (avevo diradato), in cerca di avventure erotiche, andando per locali equivoci, in cerca di ragazzi di vita, in vendita, di esperienze sadomaso.” Questo scrive Marco Trevisan, questo riporto.
Marco, il tuo è uno sconfinato romanzo-biografia, con tutte le finzioni tipiche di entrambi i generi letterari.
PPP, tornando a te, chi era il tuo nemico? Ognuno ha il suo. Il tuo era…?
“… il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia.”
Ti attiravi critiche feroci da parte di tutti, anche del tuo amico Moravia, quando proponevi le proposte ‘riformiste’ e ‘swiftiane’: “l’abolizione della scuola dell’obbligo e della televisione.” E poi te la cavi dicendo che “ovviamente era una provocazione. ‘Delle volte io parlo per paradosso e un po’ estremisticamente, ma voi cercate di comprendermi con moderazione’, ammisi durante un dibattito politico.”
Sei antifrastico, ma solo tu riesci a cogliere la tua lancinante ironia. Come quando dicevi che stavi dalla parte dei poliziotti, che erano in torto, ma figli di operai, piuttosto che da quella degli studenti, che avevano ragione, ma erano figli di borghesi.
“Prima del sessantotto, spiegavo, i capelli lunghi erano simbolo di ribellione, rivolta da sinistra. Dopo il Sessantotto, portati da moltissimi giovani, emblema di conformismo, sia di destra che di sinistra.”
Tu accendevi la miccia e poi stavi ad attendere dietro a un cespuglio, assai visibile a tutti, non per nasconderti, ma come a dire: sono qua!, sparatemi pure addosso, violentatemi, di qua io non mi sposto!
Perché?
Sappi che io ho amato le tre opere letterarie che hanno ispirato la tua Trilogia della Vita, mentre ho odiato: Le 120 giornate di Sodoma, che ha ispirato il tuo ultimo, orribile film. Lo definisco così perché è la sua più efficace descrizione.
Non ho mai perdonato il Marchese che ha scritto quello che tu definisci “un raffinato e complesso testo”. Cercai di curare il mio spirito, dopo averlo letto. Assunsi un altro libro al più presto, per spegnere l’incendio distruttivo che esso aveva creato in me. Sento che la sua lettura mi ha cambiato, forse migliorato. Poi, ho proseguito a leggere, e da allora ne ho divorate svariate centinaia. Quel libro demoniaco non mi aveva distrutto del tutto. Ma non fui più lo stesso, dopo averlo letto. Forse mi limitai a scomparire, per riapparire poco dopo. Non so. E tu ne fai un film, ambientandolo nel chiuso di una villa, dove si svolge lo scempio di alcuni ragazzi: “Sevizie, cibo pieni di spilli, frustate a sangue, defecazioni sui corpi…” – e altre mille amenità. Andai a vederlo al cinema, quando tu eri svanito da non molto.
“‘Il rapporto sessuale in Salò’ spiegai alla stampa ‘è il simbolo di qualcos’altro: è il simbolo del possesso da parte di alcune persone dei corpi di altre persone. Cioè quello che Marx chiama la mercificazione: il corpo ridotto a merce.”
Il consumo di quella carne era offerta in olocausto al Dio che stava trionfando nella società in cui ti era toccato di vivere, tu che sognasti un giorno di trasferirti altrove, magari in Africa, per fuggire a quel sadico Nume.
Dicesti alla tua amica Oriana Fallaci che odiavi il suo Lettera a un bambino mai nato: “… Io non voglio sapere che cosa c’è dentro un ventre di donna. Io inorridisco a sapere cosa c’è dentro a un ventre di donna. Una volta anche mia madre cercò di spiegarmi cosa c’è dentro a un ventre di donna. E ci litigai. Io che amo tanto mia madre.”
C’è quell’umano essere che, uscito da quel luogo che è dentro a un ventre di donna, diventerà un mostro, quello che c’è in te, in me, in ognuno.
Così ti ricordò Oriana, dopo la tua assurda fine: “Diventammo subito amici, noi amici impossibili, cioè io donna normale e tu uomo anormale, almeno secondo i canoni ipocriti della cosiddetta civiltà, io innamorata della vita e tu innamorato della morte. Io così dura e tu così dolce.”
In comune avevate questo: il coraggio di esprimere le vostre idee, non soltanto di averle, di esibirle, stavo per dire senza paura, no, anzi, con un’immensa Paura, e con un Coraggio che ogni volta era appena sufficiente a superare quel terribile sentimento.
Nico Naldini disse di te: “Oramai mio cugino cercava solo rapporti sadomaso.”
Se è vero, perché?
La chiusa del libro è molto poetica: “La sua influenza sulla cultura italiana non ha smesso e non smetterà di essere qualcosa con cui si deve fare i conti. Volenti o nolenti.”
Accetto la sfida. Voglio farlo.
Ho cercato d’interpretare tutto quello che Marco Trevisan mi ha proposto in questo libro. Tu però non prevedevi il futuro, perché non credo sia possibile farlo.
Moravia, nel suo elogio funebre, disse: “Con la morte di Pier Paolo Pasolini abbiamo perso prima di tutto un poeta. E di poeti non ce ne sono tanti nel mondo. Ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo.” Mi ricordo quel suo discorso quasi strillato, che ascoltai in parte al telegiornale. Già allora, come anche oggi, non so perché, pensai che poche volte in quel secolo terribile una bomba atomica aveva distrutto una città: soltanto due.
Ancor oggi in televisione trasmettono alcune tue dichiarazioni in cui anticipi quelle che saranno le caratteristiche della società futura e i suoi nuovi comandanti. Non so chi siano i migliori, se i tuoi o i miei. Probabilmente quelli attuali sono più ignoranti e ipocriti, mentre i tuoi avevano una parvenza di cultura e di dignità. Non mi preme ora affrontare questo argomento, quanto capire finalmente il perché non abbia letto i tuoi libri, e visto tutti i tuoi film.
Non è perché ti ho mitizzato, come ho adombrato all’inizio, ma a causa della pericolosità che è congenita alla maggior parte delle tue opere. Leggere i tuoi libri o vedere i tuoi film significa mettere a rischio le mie sicurezze, quei pavidi conati di creare dentro di me l’immagine di una certezza collegata alla mia vita.
Vorrei cominciare a leggerti, partendo dalle recensioni che scrivevi per alcune riviste. Dicesti che Pavese “nella cultura italiana, quella viva e operante, non rappresenta molto; ha il suo posto, è ben catalogato in una storia della letteratura italiana contemporanea perché, ripeto, è uno scrittore medio e mediocre ma assolutamente rigoroso, mai venuto meno alla sua morale letteraria, questo bisogna ammetterlo…” – inquadrato nel partito dei letterati, insomma.
E poi stroncasti La storia di Elsa, la tua cara amica, con la quale i rapporti subito dopo si raffreddarono. Conoscesti e amasti Ginsberg ed Ezra Pound, i cui versi costellarono la mia giovinezza.
Mi piacerebbe sapere cosa pensi di Henry Miller, Gregory Corso, Perec e, se stai ancora leggendo, di Tondelli, Bukowski, Zafón, Messori.
Tu hai trascorso una vita insana subendo le accuse altrui, procedimenti penali e letterari di tutti i tipi. Non mi dispiacerebbe leggerti e giudicarti, per vedere se sei colpevole, o innocente, perché il fatto non sussiste.
Eri una specie di mago nel manipolare un argomento o un testo, al fine di renderlo pirotecnico, facendolo poi scoppiare in una piazza affollata. I soliti, distruttivi e al contempo (ri)costruttivi, Shiva e Visnù. Oppure, volendo: E = mc2.
Era il modo che giudicavi più idoneo al fine di contrastare quella strategia della tensione che tanti morti reali aveva prodotto in quegli anni, e che tanto t’inquietava. Quello che t’interessava non era solo la materia artistica che, tra le tue mani, cessava di essere inerte, bensì l’energia che si sarebbe scatenata una volta innescato il detonatore che custodivi nell’anima. In questo jeu du massacre, il tuo lettore dovrà cercare di sopravvivere e per farlo dovrà mutare la sua anima.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Marco Trevisan, Pasolini – L’uomo che conosceva il futuro, Diarkos, 2021