“Lettere morali a Lucilio” di Seneca: evitare la folla, l’apátheia ed il debito con Epicuro

Le “Lettere morali a Lucilio” (“Epistulae morales ad Lucilium”) sono una raccolta di Lucio Anneo Seneca (Corduba, 4 a.C. – Roma, 65) di circa 124 lettere. Un’opera che, purtroppo, ci è giunta incompleta.

Lettere morali a Lucilio di Lucio Anneo Seneca - evitare la folla
Lettere morali a Lucilio di Lucio Anneo Seneca – evitare la folla

Le lettere morali sono state scritte al termine della sua vita tra il 62 ed il 65. Si ipotizza che Seneca abbia tratto l’idea dalle precedenti opere di Platone ed Epicuro e, per questo motivo, non si può distinguere tra finzione letteraria o reale epistolario. Anche se varie lettere morali presentano la risposta di Lucilio non è da escludere che le stesse risposte siano state scritte dallo stesso Seneca per operare con maggiore dissimulazione.

Non si può dunque aver alcuna certezza su questo particolare ma d’altronde in quale campo l’essere umano può aver certezza? Che siano frutto di un’opera letteraria-filosofica o lettere vere e proprie con un destinatario in carne ed ossa a noi, lettori postumi, non cambia l’approccio di lettura.

Ogni lettera è uno scalino che vuole portare il lettore alla riflessione per, poi, giungere ad un piano meditativo che porta giovamento a coloro che cercano con cuore puro.

Si è scelto di presentare tre lettere morali del primo libro (la lettera sette, otto e nove) che trattano del problema della folla per il saggio, che tanto più vuole restare nella sua dimensione tanto deve preservare la solitudine così da non subire il contagio delle esagerazioni della folla. Seneca precisa che il saggio può avere anche degli amici, ma con loro instaura una pura amicizia lontana dall’inganno del bisogno. Il saggio, però, può anche vivere senza alcun amico perché basta a se stesso.

Si sottolinea la riflessione sull’apátheia (in greco antico: απάθεια, composto da privativo e παϑος) tradotta in italiano con “impassibilità”, l’essere distante dalle passioni/affezioni. Similmente all’atarassia (ἀταραξία, composto di  privativo e ταράσσω con significato di imperturbabilità), l’apátheia è una virtù per lo stoico e designa una pace interna che può essere comparata alla quiete perpetua che non viene disturbata dagli eventi esterni, perché anche se negativi per lo scorrere della vita dell’individuo sono sempre diretti verso il bene. Questa convinzione dello stoico porta ad una devota obbedienza verso se stessi ed alla riflessione sui bisogni dei mortali.

Si evidenzia in ultimo, prima di lasciare alla lettura delle fruttuose parole del filosofo latino, quanto egli sia onesto e lontano dalla corruzione dei più nel citare le frasi di altri autori – pagando il suo debito –  che lo hanno aiutato nelle riflessioni che poi ha proposto a Lucilio ed a noi, come ad esempio del filosofo greco Epicuro (Samo, 10 febbraio 341 a.C. – Atene, 270 a.C.).

Da millenni (e forse più) le questioni di reale importanza per i mortali – come la felicità, il conoscere se stessi, il rapporto con la verità – sono centrali e si aggirano intorno a parole molto simili fra loro, come se ogni “saggio” di ogni epoca fosse arrivato alla medesima conclusione. È affascinante constatare quanto le parole di Seneca, che cita un autore greco antico, siano attuali ancora oggi, e lo saranno anche fra mille, duemila secoli perché il mortale può anche modificare le abitudini abitative, di svago, di vestiario ma pur sempre resterà un bipede implume alla ricerca dell’eterno di cui sente di fare parte.

Lettere morali: lettera 7

Mi chiedi che cosa secondo me dovresti soprattutto evitare? La folla. Non puoi ancora affidarti a essa tranquillamente. Quanto a me, ti confesserò la mia debolezza: quando rientro non sono mai lo stesso di prima; l’ordine interiore che mi ero dato, in parte si scompone. Qualche difetto che avevo eliminato, ritorna. Capita agli ammalati che una prolungata infermità li indebolisca al punto di non poter uscire senza danno: così è per me, reduce da una lunga malattia spirituale.

I rapporti con una grande quantità di persone sono deleteri: c’è sempre qualcuno che ci suggerisce un vizio o ce lo trasmette o ce lo attacca a nostra insaputa. Più è la gente con cui ci mescoliamo, tanto maggiore è il rischio. Ma non c’è niente di più dannoso alla morale che l’assistere oziosi a qualche spettacolo: i vizi si insinuano più facilmente attraverso i piaceri. Capisci che cosa intendo dire? Ritorno più avaro, più ambizioso, più dissoluto, anzi addirittura più crudele e disumano, poiché sono stato in mezzo agli uomini.

Verso mezzogiorno sono capitato per caso a uno spettacolo; mi attendevo qualche scenetta comica, qualche battuta spiritosa, un momento di distensione che desse pace agli occhi dopo tanto sangue. Tutto al contrario: di fronte a questi i combattimenti precedenti erano atti di pietà; ora niente più scherzi, ma veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi; tutto il corpo è esposto ai colpi e questi non vanno mai a vuoto. La gente per lo più preferisce tali spettacoli alle coppie normali di gladiatori o a quelle su richiesta del popolo. E perché no? Non hanno elmo né scudo contro la lama. Perché schermi protettivi? Perché virtuosismi? Tutto ciò ritarda la morte. Al mattino gli uomini sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi, al pomeriggio ai loro spettatori. Chiedono che gli assassini siano gettati in pasto ad altri assassini e tengono in serbo il vincitore per un’altra strage; il risultato ultimo per chi combatte è la morte; i mezzi con cui si procede sono il ferro e il fuoco. E questo avviene mentre l’arena è vuota.

Ma costui ha rubato, ha ammazzato“. E allora? Ha ucciso e perciò merita di subire questa punizione: ma tu, povero diavolo, di che cosa sei colpevole per meritare di assistere a questo spettacolo?

Uccidi, frusta, brucia! Perché ha tanta paura a slanciarsi contro la spada? Perché colpisce con poca audacia? Perché va incontro alla morte poco volentieri? Lo si faccia combattere a sferzate, che si feriscano a vicenda affrontandosi a petto nudo.” C’è l’intervallo: “Si scanni qualcuno, intanto, per far passare il tempo.”

Non capite nemmeno questo, che i cattivi esempi si ritorcono su chi li dà? Ringraziate gli dèi perché insegnate a essere crudele a uno che non può imparare.

Bisogna sottrarre alla folla gli animi deboli e poco saldi nel bene: è molto facile subire l’influsso della maggioranza. Frequentare una massa di gente diversa da loro avrebbe potuto cambiare i costumi persino di Socrate, Catone, Lelio; nessuno di noi, soprattutto quando il nostro carattere è in formazione, può resistere alla pressione di tanti vizi tutti insieme. Un solo esempio di mollezza o di avarizia produce gravi danni: un commensale raffinato a poco a poco ti guasta, ti infiacchisce, un vicino ricco scatena la tua avidità, un compagno malvagio contamina anche un uomo semplice e puro: che cosa pensi che succeda alle nostre convinzioni morali quando vengono attaccate in massa dai vizi?

Due sono i casi: o li imiti o li odi. Ma sono da evitare l’uno e l’altro estremo: non devi assimilarti ai malvagi, perché sono molti, né essere nemico di molti, perché sono dissimili. Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore e accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché mentre s’insegna si impara.

Non c’è ragione per cui il desiderio di gloria debba spingerti a esibire a tutti il tuo ingegno con declamazioni o discussioni pubbliche; ti consiglierei di agire così, se tu avessi merce adatta alla massa, ma non c’è nessuno in grado di capirti. Capiterà forse qualcuno, uno o due al massimo, e tu dovrai formarlo ed educarlo perché ti possa capire.

Ma allora, per chi ho imparato tutto questo?” Non temere di aver perso il tuo tempo, se hai imparato per te. Ma per evitare di aver imparato solo per me oggi, ti scriverò tre belle massime che mi è capitato di leggere all’incirca sullo stesso argomento: di queste una salda il mio debito per questa lettera, le altre due prendile come anticipo.

Scrive Democrito:Secondo me, una sola persona vale quanto tutto il popolo e il popolo quanto una sola persona.”

Dice bene anche quell’altro, chiunque sia stato (è incerto, infatti, di chi si tratti); gli chiedevano perché si applicasse con tanto impegno a una materia che pochissimi avrebbero compreso, rispose: “A me bastano poche persone, anzi anche una sola o addirittura nessuna.

Eccellente anche questa terza affermazione, di Epicuro; in una sua lettera a un compagno di studi: “Io parlo non per molti, ma per te;” scrive, “noi siamo l’uno per l’altro un teatro sufficientemente grande.”

Devi, caro Lucilio, serbare in te queste massime, per disprezzare il piacere che deriva dal consenso generale. Molti ti lodano; ma perché dovresti rallegrarti se sono in tanti a capirti? I tuoi meriti ricerchino l’approvazione della tua coscienza. Stammi bene.

Lettere morali: lettera 8

Il suicidio di Seneca - Painting by Manuel Domínguez Sánchez - 1871
Il suicidio di Seneca – Painting by Manuel Domínguez Sánchez – 1871

Mi esorti a evitare la folla,” scrivi, “e a starmene per conto mio, pago della mia coscienza? Che fine hanno fatto dunque i precetti della vostra filosofia che impongono di essere attivi fino alla morte?”

Ma come? Credi che io ti inviti all’inerzia? Io mi sono appartato e ho sbarrato le porte per essere utile a molta gente. Non trascorro mai la giornata in ozio: parte della notte la dedico allo studio; non mi abbandono al sonno, vi soccombo e costringo al lavoro gli occhi che si chiudono stanchi per la veglia.

Mi sono allontanato non tanto dagli uomini quanto dagli impegni e prima di tutto dai miei impegni personali: sono al servizio dei posteri. Scrivo cose che possano servire loro; affido alle mie pagine consigli salutari, come se fossero ricette di medicamenti utili; ne ho sperimentata l’efficacia sulle mie ferite che non sono guarite completamente, ma almeno non si sono diffuse.

Mostro agli altri la via giusta: io l’ho conosciuta tardi e stanco del lungo errare.

Grido: “Evitate tutto ciò che piace al volgo e che viene dal caso; fermatevi sospettosi e pavidi di fronte ad ogni bene fortuito: l’esca alletta fiere e pesci e li inganna. Li credete doni della fortuna? Sono trappole. Chi di voi vuole vivere una vita sicura, eviti il più possibile questi beni vischiosi, che tradiscono, noi, poveri infelici, anche in questo: pensiamo di tenerli in pugno e, invece, ci siamo attaccati. Questa strada ci porta alla rovina; il destino di una persona salita tanto in alto è precipitare. E dopo non si può resistere, quando la prosperità comincia a farci deviare: o si prosegue diritti o si precipita una volta per tutte; la sorte non solo ci travolge, ma ci abbatte e ci cola a picco. Seguite questa sana e salutare regola di vita: concedete al corpo solo quanto basta a mantenerlo in salute. Bisogna trattarlo con una certa durezza perché non disobbedisca alla mente: il cibo deve estinguere la fame, il bere la sete, le vesti devono proteggere dal freddo, la casa difendere dalle intemperie. Non importa se è stata costruita con zolle o con marmo variegato di importazione: sappiate che un tetto di foglie copre bene quanto uno d’oro. Ornamenti e fregi ottenuti grazie a inutili fatiche, disprezzateli tutti; pensate che nulla è straordinario tranne l’anima e per un’anima grande nulla è grande.”

Dico queste cose a me stesso, le dico ai posteri; e non mi rendo più utile secondo te che se mi presentassi come difensore in giudizio o imprimessi il sigillo ai testamenti o mettessi gesto e voce a servizio di un candidato senatoriale? Credimi, fa di più chi sembra che non faccia niente: si cura nello stesso tempo delle faccende divine e di quelle umane.

Ma ormai è tempo di concludere e, come stabilito, devo pagare il mio tributo per questa lettera. Non è farina del mio sacco: ancora una volta saccheggio Epicuro; oggi ho letto queste sue parole:

Consacrati alla filosofia, se vuoi essere veramente libero.”

Chi si sottomette e si affida a essa, non deve attendere: è libero subito; infatti questo stesso servire la filosofia è libertà.

Probabilmente mi chiederai perché io riporti tante belle frasi di Epicuro, invece che quelle degli Stoici: ma perché ritieni di Epicuro queste massime e non patrimonio comune? Quanti poeti esprimono concetti già formulati o che dovrebbero essere formulati dai filosofi! Non menzionerò i tragici e nemmeno le nostre commedie togate, che per la loro gravità sono una via di mezzo fra tragedia e commedia: quanti versi eloquentissimi ci sono nei mimi! Quante frasi di Publilio dovrebbero essere recitate in una tragedia, non in un mimo.

Ti citerò un unico suo verso che riguarda la filosofia e l’argomento or ora discusso. Egli sostiene che non dobbiamo considerare nostri i beni fortuiti:

Non ci appartiene quanto accade secondo i nostri desideri”.

Ricordo che anche tu hai espresso lo stesso concetto assai meglio e con maggiore concisione:

Non è tuo ciò che la fortuna ha fatto tuo”.

Ma voglio citare quest’altra tua massima ancora migliore:

Un bene che può essere dato, può anche essere tolto”.

Questo non lo calcolo come pagamento: ti restituisco un bene già tuo. Stammi bene.

Lettere morali: lettera 9

Epicuro
Epicuro

Tu vuoi sapere se Epicuro ha ragione a criticare in una sua lettera quanti dicono che il saggio basta a se stesso e che perciò non ha bisogno di amici. È un rimprovero che Epicuro rivolge a Stilbone e a chi è convinto che il sommo bene sia un animo che non patisce. È inevitabile cadere nell’equivoco se si vuole sbrigativamente tradurre apátheia con una sola parola e precisamente: impatientia. Può infatti, intendersi il contrario di quello che vogliamo sottolineare. Per noi si tratta dell’uomo che rifiuta la sensazione di qualsiasi male: c’è il rischio di interpretarlo, invece, come uno che non può sopportare nessun male. Vedi, dunque, se non è preferibile parlare o di un animo invulnerabile o di un animo al di là di ogni sofferenza.

Questa è la differenza tra noi e loro: il nostro saggio vince ogni avversità, ma l’avverte; il loro neppure l’avverte. In comune abbiamo l’opinione che il saggio è autosufficiente; e tuttavia, egli vuole avere un amico, un vicino di casa, un compagno di vita. E guarda quanto è autosufficiente: certe volte di sé gli basta una sola parte. Se una malattia o un nemico lo hanno privato di una mano, se per sventura ha perso uno o tutt’e due gli occhi, anche così ridotto, sarà soddisfatto, e il corpo sconciato e mutilato gli andrà bene non meno di quando era integro. Ma se non rimpiange ciò che gli è venuto a mancare, questo non significa che preferisce la menomazione.

Il saggio è autosufficiente non nel senso che vuole essere senza amici, ma che può stare senza amici; e questo “può” significa che, se perde un amico, sopporta con animo sereno. Ma non sarà mai senza amici: può crearsene altri in breve tempo.

Come Fidia, persa una statua, ne avrebbe fatta subito un’altra, così questo artefice di amicizie, perduto un amico, lo sostituirà con un altro. Mi chiedi come si possa stringere presto un’amicizia? Te lo dirò se stabiliamo che io ti paghi subito il mio debito e per questa lettera facciamo pari.

Dice Ecatone: “Ti indicherò un filtro amoroso, senza pozioni, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere amato, ama.”

Non solo dalle amicizie sicure e di vecchia data si ricava grande piacere, ma anche dal cominciarne e dal procurarsene di nuove. Tra chi ha un amico e chi lo cerca c’è differenza, come tra il contadino che miete e quello che semina.

Il filosofo Attalo era solito dire che farsi un amico dà più gioia che averlo, “come al pittore procura più gioia l’atto di dipingere che l’opera finita.” L’attendere con zelo a un lavoro dà di per sé un grande piacere: non ne prova, invece, uno uguale chi, finita un’opera, toglie mano. Gode ormai del frutto della sua arte: dipingendo, invece, godeva dell’arte stessa. I figli adolescenti dànno più frutti, ma da piccoli ci dànno una felicità più dolce.

Ritorniamo ora al nostro tema. Il saggio, anche se è autosufficiente, vuole, però avere un amico, se non altro per esercitare l’amicizia, e perché una virtù così nobile non languisca; non lo fa per il motivo dichiarato da Epicuro nella medesima lettera, e cioè “per avere chi lo assista se ammalato, chi lo soccorra in carcere o in miseria“, ma per avere qualcuno da assistere lui stesso, nelle malattie, o da liberare se prigioniero dei nemici. Se uno si preoccupa solo di sé e perciò fa amicizia, sbaglia. L’amicizia finirà, come è cominciata: si è procurato un amico perché lo aiutasse nella prigionia: non appena ci sarà rumore di catene, costui sparirà. Sono le amicizie cosiddette opportunistiche: un’amicizia fatta per interesse sarà gradita finché sarà utile. Così se uno ha successo, lo circonda una folla di amici, mentre rimane solo se cade in disgrazia: gli amici fuggono al momento della prova; per questo ci sono tanti esempi infami di persone che abbandonano l’amico per paura, e di altre che per paura lo tradiscono. L’inizio e la fine fatalmente concordano. Chi è diventato amico per convenienza, per convenienza finirà di esserlo. Se nell’amicizia si ricerca un utile, per ottenerlo si andrà contro l’amicizia stessa.

Perché, dunque, ti fai un amico?” Per avere qualcuno per cui morire, qualcuno da seguire in esilio, da strappare alla morte anche a prezzo della mia vita: quella che tu descrivi non è amicizia, ma traffico, che mira a un profitto e guarda ai possibili vantaggi. L’amore senza dubbio somiglia un po’ all’amicizia; lo si potrebbe definire un’amicizia dissennata. Si ama forse per denaro? Per ambizione o per desiderio di gloria? L’amore di per sé trascura tutto il resto e accende negli animi un desiderio di bellezza e la speranza di un mutuo affetto. Ma come? Da una più onesta causa può nascere un sentimento ignobile?

Ma ora non stiamo discutendo,” potresti ribattere, “se l’amicizia si debba ricercare per se stessa.” E, invece, è questa la prima cosa da dimostrare, poiché, in tal caso, vi si può accostare chi è autosufficiente.

E come, dunque, ci si accosta ad essa?” Come a un sentimento bellissimo, non per lucro, né per timore dell’instabilità della sorte; se uno stringe amicizia per opportunismo le toglie la sua grandezza.

Il saggio è autosufficiente“. I più, caro Lucilio, interpretano male questa espressione: allontanano il saggio da tutto e lo costringono dentro il suo guscio. Bisogna allora chiarire il significato e i limiti di questa frase: il saggio è autosufficiente per vivere felice, non per vivere; a questo scopo gli occorrono, infatti, molti elementi, per vivere felice solo un animo onesto, fiero e noncurante della sorte.

Voglio ora indicarti anche la distinzione fatta da Crisippo. Egli dice che il saggio non sente la mancanza di niente e, tuttavia, ha bisogno di molte cose: “Lo sciocco, invece, non ha bisogno di niente, perché non sa servirsi di niente, ma sente la mancanza di tutto.” Il saggio ha bisogno delle mani, degli occhi e di molte altre cose indispensabili alle attività di ogni giorno, ma di nessuna sente la mancanza; sentire la mancanza di qualcosa deriva dalla necessità, mentre al saggio niente è necessario.

Quindi, per quanto sia autosufficiente, ha bisogno di amici e desidera averne il più possibile, ma non per vivere felice: è felice anche senza amici.

Il sommo bene, cioè la felicità, non cerca al di fuori mezzi per realizzarsi; è un bene interiore e nasce tutto da se stesso; diventa schiavo della sorte se ricerca una parte di sé all’esterno.

“Quale sarà la vita del saggio se, gettato in carcere o relegato in terra straniera o costretto a una lunga navigazione o sbattuto su una spiaggia deserta, rimane senza amici?”

Sarà simile a quella di Giove, quando alla fine del mondo, scomparsi gli dèi in un tutt’uno e cessando per qualche tempo l’ordine naturale delle cose, si riposerà chiuso in sé abbandonandosi ai suoi pensieri. Il saggio fa qualcosa di simile: si ritira in sé, sta solo con se stesso. Finché gli è possibile ordinare le sue faccende a suo piacere, è autosufficiente e prende moglie; è autosufficiente e genera figli; è autosufficiente e tuttavia non potrebbe vivere se dovesse vivere senza nessuno. All’amicizia non lo porta nessun interesse personale, ma una naturale inclinazione; come in altri sentimenti, anche nell’amicizia c’è un’innata attrattiva. Come esiste l’odio per la solitudine e la ricerca di associazione, come la natura lega uomo a uomo, così anche in questo sentimento c’è uno stimolo che ci spinge a ricercare le amicizie. E tuttavia, pur amando molto gli amici, che mette sul suo stesso piano, o che spesso addirittura antepone, il saggio delimiterà in sé ogni bene e ripeterà le parole di quel famoso Stilbone, lo stesso che Epicuro critica nella sua lettera. Costui, dopo la caduta della sua città, in cui aveva perso moglie e figli, uscì da solo, e tuttavia sereno, dall’incendio generale; gli fu chiesto da Demetrio, che ebbe poi il soprannome di Poliorcete per le città da lui distrutte, se avesse perso qualcosa.

Tutti i miei beni,” rispose, “li ho con me.” Ecco un uomo forte e valoroso! Egli vinse il nemico vincitore. “Non ho perso nulla,” disse: e costrinse il nemico a dubitare della propria vittoria. “Tutti i miei beni li ho con me“: senso di giustizia, virtù, saggezza e soprattutto l’intelligenza di non ritenere un bene ciò che può essere tolto. Ci meravigliamo vedendo certi animali che attraversano indenni il fuoco; quanto è più ammirevole quest’uomo che uscì illeso e indenne dalle armi, le rovine, le fiamme!

Vedi quanto è più facile vincere tutto un popolo che un solo uomo? Sono parole uguali a quelle del filosofo stoico: anch’egli porta i suoi beni intatti attraverso la città in fiamme: è autosufficiente e in questi confini delimita la sua felicità.

Non pensare che solo noi pronunciamo nobili parole; lo stesso Epicuro, censore di Stilbone, proferì una frase simile, e tu prendila per buona, anche se per oggi ho già pagato il mio debito:

Se pure è padrone del mondo intero, è un infelice l’uomo che non giudica ingentissimi i propri beni.”

Oppure, se in questo modo ti sembra espresso meglio (bisogna badare più al significato che alle parole):

Chi non si ritiene molto felice, anche se è padrone del mondo, è un poveretto.”

Perché tu sappia poi che questo è un concetto comune, appunto perché dettato dalla natura, leggerai nei versi di un poeta comico:

Non è felice chi non pensa di esserlo.

Che importa qual è il tuo stato, se a te non sembra buono?

E come?” ribatti “se si definirà felice uno vergognosamente ricco e quell’altro, padrone di molti schiavi, ma schiavo di più persone ancora, diventeranno felici per la loro frase?” Non importa quello che dicono, ma quel che pensano, e non quello che pensano un giorno solo, ma quello che pensano sempre. Non temere, poi, che un bene tanto grande tocchi ad un uomo indegno: solo il saggio è contento delle cose sue; gli sciocchi, invece, sono tormentati dal disgusto di se stessi. Stammi bene.

 

Info

Leggi le prime tre lettere del primo libro di Seneca

 

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