“Amori diplomatici” di Maurizio Serra: relazioni instabili fra anime dolenti
“O lettore (o lettrice) che non esisti…” – frase che raccolgo a pagina 55, e che rileggerò fra non molto. È impossibile non convenire con l’autore, io non esistevo, nessun altro esisteva, mentre egli era intento alla scrittura. Ora io sono qui a dire la mia. La conversazione, amabile o accigliata che sia, non si svolge sul medesimo piano, ma nel medesimo campo gravitazionale.
Perché essa avvenga, ho l’urgenza di produrre un personaggio, che chiamerò Maurizio tout court (il cognome c’è, ma lo taccio).
E ora vediamo cosa succede, fra noi due.
Il primo ospite è un tale che di nome fa… non importa come sia stato battezzato. Si tratta di un ambasciatore in esilio, proveniente da una terra così sperduta che risulta arduo pronunciarne il nome, al quale ogni evento è stato compromesso dalla Storia (sua, nel senso di nazionale e individuale), se non la mera sopravvivenza.
Egli espone in prima persona i suoi problemi, le idee, i sogni caduchi. Questo gli è rimasto ormai: l’io, e una terra straniera e non del tutto inospitale, in cui poter rimanere in gioco.
“Il mio nome che ti ho taciuto, o lettore (o lettrice) che non esisti…” – non importa, dicevo. Potresti chiamarti in qualunque modo. Cosa cambierebbe? In me? in Te? Nella Storia? Quel poco, quel quasi nulla che incide nella nostra Storia.
Ricevi una lettera da parte di un tipo che ha il nome più lungo della sua Anima: “Il testo, del resto, è piuttosto breve. In poche frasi ispirate (se non lo sono, danno comunque l’impressione di esserlo ed è poi quel che conta)…” – il tuo testo, finora, amico mio sconosciuto, possiede un senso, ispirato da un quid, e ti (per)seguirà ovunque esso ti condurrà.
Ti svelo un segreto assai scontato: qualsiasi nostro discorso ci recherà da qualche parte.
“Dal momento che non mi è possibile ringraziare il Dio a cui non credo, ho almeno…” – esempio di preghiera sui generis, che anch’io condivido con quel Nume che non fa Lume. Gli dico: qualora tu esistessi, perdona questo miscredente; diversamente dimenticami! – come vedi non ci somigliamo in tutto, ma in qualcosa sì: lasciamo aperta ogni sorta di porta e poi ci lamentiamo del conseguente raffreddamento.
Mi hai fatto sorgere un dubbio: “A proposito dottore, come tradurrebbe: ginocchia o ginocchi?” – te lo ripeti così sovente che mi sento in obbligo di darti una risposta, probabilmente fallace: ginocchia, a meno che i proprietari di quelle ossa siano di scarso valore umano.
Cosa significa tutto questo? È soltanto la domanda successiva.
Ora rivolgiamo la nostra attenzione al signor Hitachi, addetto culturale giapponese che “amava la moglie del Grande Poeta sin dalle prime volte, anzi dalla prima che l’aveva vista, di un sentimento puro come: un crisantemo, luminoso come…” – etc etc… (N.B.: i crisantemi non sono fiori mortiferi all’ombra del Sol Levante).
Frase shock: “Ogni uomo è un abisso, e a guardarlo fino in fondo c’è da perdere la testa.” – come a dire che ogni coscienza umana è caotica. Equivale alla scoperta che in America l’acqua è a volte tiepida.
Si fa presto a dire uomo, ma esso è un groviglio inestricabile al cui paragone la foresta d’acqua di Kenzaburō è un vile acquitrino.
Il cosiddetto Grande Poeta “era forse una delle ultime, paradossali incarnazioni della libertà individuale in una società ormai avviata…” e “il signor Hitaki non poteva fare a meno di ammirare, con quel fondo di compassione che la vera ammirazione suscita sempre, la dedizione del Maestro a…” – nulla emoziona di più del conato idealistico con cui convive quel perdente della Storia (in generale e sua in particolare).
Il Grande Poeta “non beveva e non fumava, pranzava una volta al dì, alle quindici in punto, rigorosamente solo, servito dalla fedele sguattera Gudrun, originaria di un antico villaggio alpestre dove da sempre si era persa l’uso della favella, sostituita da tetri ululati.” – ma non della ragione, questione non solo umana, ma bestiale. La parola è tipica di noialtri bipedi implumi, ed è essenziale in alcuni casi, ad esempio nella scrittura, ma non rende necessariamente felici.
Povero Grande Poeta: “Si era rovinato per l’arte e ne era fiero…” – che miserevole e ammirevole orgoglio…
Ora qualcuno è giunto a dire: “Non scrivo più, ricopio.” – che non è una cattiva sorte, perché significa che si è trovato, forse per caso, o per necessità, un modello a cui riferirsi.
Dell’altro (contro) personaggio, l’Uccisore di nonne, attesto l’esistenza e stop! Mi è troppo insulso.
“Quell’angolo dello studio, difeso dal paravento era un po’ il simbolo della sua modesta esistenza; lì si sentiva tranquillo, se non appagato.” – come ti capisco, caro Hitachi! La solitudine casalinga è l’unico paradiso che non richieda di assumere impegni con la Divinità.
“… non si sentiva vecchio, anche se giovane non era più. Ne era lieto, in fondo, perché la sua gioventù non gli era piaciuta.” – a me non intriga più da anni, da quando ho scoperto che forse non intende tornare. O se cambierà idea, sarà camuffata da quel ragazzino che io non fui mai.
Con Hitachi il refrain che c’erano “diversi samurai tra i suoi avi (sia pur solo dal lato materno)…”.
Il carissimo nipote di cavalieri nipponici “beveva semmai un po’ troppo, anche due o tre bicchierini la sera, non per vincere la disperazione ma per impedire che la speranza lo ricatturasse.” – quell’ignobile seppur graziosissima menzognera.
A pagina 153, l’autore, tu, Maurizio, fai chiedere al primo personaggio che ti capita innanzi: “Conosceva naturalmente la cappella Sansevero a Napoli, con la scultura del Cristo Velato, il capolavoro del Sammartino?” – che non ho mai avuto l’occasione di ammirare, ma che dovrò senz’altro fare mia, in uno dei miei improbabili viaggi.
Vorrei per ultimo segnalare la pinguedine di Hitachi e “quella grave malattia agli occhi” e che l’autore non gli ha consentito, forse per alcune sue incertezze linguistiche, la narrazione in prima persona, diversamente dall’ambasciatore di quel paese quasi innominabile.
Ed ora tocca a te, sventata frequentatrice di crinali.
“Gli uomini dicevano che il mistero era la chiave del suo fascino…” – la soluzione che si attendevano, non capire, ma essere capiti, compresi, conquistati. Chi l’aveva “amata su serio, suo marito, era vissuto e morto serenamente al suo fianco, perché sin dal primo giorno aveva rinunciato a capirla.”
C’è chi afferma che la realtà sia bidimensionale, che i suoi dati siano dispersi in un’entropica superficie, che simula e dissimula eventuali profondità. L’entropia è la misura del disordine cosmico, ma è anche la somma di informazioni che, quando abbondano, creano il caos, l’abisso, la dispersione generale.
Se non si devono far attecchire radici profonde (ché sempre un po’ esse vanno piantate), tanto vale “gettare la zavorra, in tutti i significati del termine.” – e non disseminare nella propria abitazione troppi orpelli: “In fondo non dovevano portarsi dietro granché per godersi il conforto…”, in un luogo “in cui ci si poteva permettere il lusso di restare stranieri a vita…” – in vacanza in quell’angosciante vuoto relativo, anche se si crede di poter sempre prima o poi emergere e fuggire altrove, se l’evento è conveniente.
Tante località erano più attraenti (“in Cornovaglia, in Provenza o sulla costiera amalfitana”), ma quel luogo divenne l’unico che poteva far sopravvivere il loro amore.
“… credevo di conoscerlo bene, ma ora appesantito e intorpidito, mi era conteso dalla malattia…” – ci sei tu, c’è la tua anima adorata, due singolarità per sempre correlate, e in mezzo c’è la vita, col suo sacrosanto disordine.
In questa tua opera, quel che più attira e respinge, per cui ci si avvicina e ci si allontana senza tregua, è la quantità di informazioni esposte, che si fatica a seguire, come capita non appena si esce dal proprio io e ci si getta in strada, o si accende un monitor, oppure si legge un libro.
A pagina 226, l’autore (chi se non te?) si sente di dover specificare che “l’ambasciatore era stato designato quale segretario generale della conferenza, dacché nessun altro collega voleva assumersi quella rogna.” – d’accordo, è un fatto assai significativo, che attesta tra l’altro l’animo generoso del tipo, ma l’ulteriore dato immesso in basso, come nota, a chi può interessare? “Era stato buon amico di un collega michoumistano…” – finalmente sono stato capace di scriverlo!
A chi interessa? A me, che non riuscivo proprio a ricordare quel termine geografico!
Ancora: “Il bar si riempiva di tecnocrati sfiniti, di finanzieri avvitati a…”,
Ma anche “… di emiri arabi dall’occhio…”, e “di principi del sangue che…” – bestie sofferenti anche loro;
“… per non parlare dei russi, uomini di affari o uomini d’azione, che avrebbero…”;
Con un’infinità di “… leprotti, tortorelle, colombe o leoni, sussurrati nella lingua di…” – la nota a piè di pagina specifica che “l’ambasciatore desiderava da tempo rinfrescare le sue nozioni di russo.”
Infinite particelle che consumano la loro limitata esistenza.
Il fortunoso (ma esiste la fortuna in un cosmo così efficiente?) “incontro con lei gli risparmiava la spesa di un corso…” – una provvidenziale tirata di borsa, ma nulla più.
“L’ambasciatore (chiedo scusa, lo spigliato segretario d’ambasciata)…” – certamente ti scuso, ma spiegami, con la necessaria chiarezza, il perché ti sei sbagliato a scrivere e non hai corretto prima di rendere pubblico il testo.
Tra l’altro, ora nel cosmo esistono due diverse informazioni: “ambasciatore” e “spigliato segretario d’ambasciata” collegate a quest’unica particella. Dipenderà forse dal punto di vista?
“Gli eccessi di Syb” – pur regolarmente attestati – “gli facevano ora l’effetto di quegli utensili di cucina o giardinaggio che vengono buttati via…” – che assumono altre forme – “perché altri più perfezionati sono apparsi nel frattempo sul…”.
Frase meravigliosa, che però quasi s’annega in un oceano di discorsi interessanti: “… esitava, era (e sarebbe sempre rimasto) un professionista dell’esitazione e un dilettante della realtà”. Aut-Aut, ma quasi, e soprattutto forse.
Per fortuna che c’è l’autore, che ci sei tu: “Cercò gli occhiali da lettura, che smarriva regolarmente, ma no, eccoli, a lato dell’abat-jour.” – come diceva mia mamma a volte, per trovare le cose, basta posarci le mani sopra. E la cosa vale anche in questo cosmo incasinato.
“Tout passe, tout lasse, tout se remplace…”, ma l’autore, tu, perfido, aggiungi: “Non sempre.”
Secondo me (l’ho letto da qualche parte, in terza di copertina, mi pare), tu, autore, di mestiere fai colui che deve rapportarsi con l’Altro, fingendo di essere solidale: “da (buon) diplomatico, mentiva solo per le cause nobili, senza riuscire per questo a essere sempre convincente.”
Oltretutto: “Lui esitò (detestava esitare).” – aut-aut, quasi, forse!
“… disse lei, allagando le froge, come un batrace in attesa…” – io avrei pensato a una giumenta…
“Lei sorrise, leccandosi i baffi (sì, aveva anche quelli, ho dimenticato di precisarlo)…” – appena in tempo, ché mancano tre pagine alla fine!
Non vorrei esagerare, ma questa è l’informazione che dà la balla finale, la ciucca. Come dite voi ubriachezza nell’area michoumistana?
“… drey aun tsvantsig, drey aun tsvantsig” è il tormentone di questo terzo romanzo breve (poi aggiungerò una sciocchezza a tal proposito).
L’autore, tu, avvisi che dovrebbe essere yiddish. Ho controllato su Google traduttore: confermo. Chiunque può controllare (sperando di aver trascritto correttamente): come dire 3 e 20.
Qualcuno chiede a qualcun altro “E dove ha deciso di andare a stabilirsi?” – la domanda è legittima, ma a poco serve, se: “la risposta le importava poco; ma l’abitudine d’informarsi dei fatti altrui restava un tratto saliente del suo carattere, il cervello elettronico era già pronto a immagazzinare dati che potevano prima o poi rivelarsi utili.” – un giorno, cioè nel capoverso seguente, sintetizzerò a chi vorrà leggermi le idee di Frank J. Tipler.
Il cosmologo yankee ci ha donato un’opera scientifica dal titolo assurdo La fisica dell’immortalità. Dopo una serie arcana di cabale relativistiche, egli arriva a considerare che, se ad ogni stato quantico di ogni particella del cosmo, dall’inizio alla fine, s’intende, non quello di poco fa e di far poco, ma di tutti i poco fa e fra poco immaginabili, fosse abbinata l’informazione di sé, ecco che potrebbe essere riprodotta da un divino lettore che potrebbe creare e ricreare, ad libitum, in eterno, l’esistenza del tutto.
A questo serve la scrittura?
Sì.
Dopo aver scoperto l’ultimo altarino, lei “scomparve, trionfante.” – ma fra un attimo riapparirà, tranquilli.
“Il ragazzo in estasi faceva il giro dell’Alfa…” – ammirandola, no, “come venerasse una divinità antica…” – ognuno ha il mito che si merita.
Quel tapino esaminava tutto “dal motore al telaio, dal parabrezza ai fari, si metteva in ginocchio, rasoterra, per esaminare il carburatore, le sospensioni, l’albero motore, gli pneumatici, i paraurti, il tubo di scarico…” – l’insieme delle informazioni entravano in lui, che mai avrebbe posseduto un veicolo tanto rinomato.
Non voglio fare lo spoiler, ma il romanzo (il suo mondo) finirà là, dove era previsto da te, l’autore. In quel punto spazio-temporale preciso e non oltre.
Ma continua qui, dopo che l’informazione è passato in un hole un po’ scuretto, emergendo da un altro più candido: come nuovo!
“Amori diplomatici è il suo primo romanzo.” – così l’editore garantisce nella terza di copertina. Come dargli torto. La classificazione dei generi lascia sempre il tempo che trova. Ho questa teoria campata in aria: quando il protagonista va a letto e una pagina dopo, altrove, perché nel frattempo è cambiato lo scenario cosmico, si alza, beh, quello per me è un romanzo.
Qui c’è un’ulteriore questione: un personaggio della terza, chiamiamola così, sezione, conosce di persona il protagonista della prima.
Ora devo però decidermi.
È un solo romanzo.
Il tuo stile è unico e ugualmente bello, e il tuo discorso scorre senza intoppi, frammento dopo frammento, scheggia dopo scheggia, pagina dopo pagina.
In tutte e tre le sezioni tu non cessi di porgere al lettore non nudi dati, bensì descrizioni precise e puntuali su un grandissimo numero di argomenti e di vicende umane e sociali.
Alla fine, come in tutti gli altri romanzi (un migliaio?, di più) che ho letto, l’unità esiste quando unicum è lo scrittore.
E anche il lettore.
Io sono certo che Fedor (inutile che riporti il suo cognome, vero?), mi correggo: Fëdor, in qualche anticamera del suo prodigioso cervello, avesse ipotizzato un team-up fra il Principe Miškin e Aleksej detto Alëša. Non fece in tempo a realizzare l’arduo progetto, o forse vi rinunciò.
Non fa nulla. Basta leggere dietro fila le due opere (2 tomi la prima, 3 la seconda, sînch quadrèll in tótt, ma come si dice cinque mattoncini dalle tue bande?) e la storia di quell’anima russa è completata.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Maurizio Serra, Amori diplomatici, Marsilio, 2021