“La danza del mulino” di Winston Graham: e poi si festeggia tutti insieme
Ecco un’opera a cui c’è d’aggiungere poco, dove tutto pare descritto con esattezza e limitato al punto giusto, dove l’accertamento che ne segue non consente di verificare alcunché, se non forse banalità che non vale la pena di rilevare. In casi siffatti non rimane al commentatore che iniziare un’illustrazione non della storia, ma di talune vicende narrate.

Si tratta del nono capitolo di una saga che Graham ha raccontato dal 1945 al 2002, l’anno che precedette la sua morte, occorsa alla non verdissima età di 95 anni. Ed è il primo che leggo.
A pagina 6 e 7 sbircio con un molto relativo interesse la genealogia degli antenati dei protagonisti del presente volume dal 1667 al 1802, che invece consulterò svariate volte durante la lettura. La scena attuale accade intorno al 1812.
Ecco un capoverso significativo: “… fu tra i primi ad affrontare le mine, le granate, i barili di polvere da sparo e il fuoco nemico che avrebbero decimato le truppe. Cinquemila uomini caddero quella notte, ma a Nampara il fuoco scoppiettava allegramente e gli uomini, sazi, sorseggiavano bicchieri di porto, mentre le signore chiacchieravano e spettegolavano…”
Il soggetto della prima frase è Geoffrey Charles Poldark, nato nel 1784. Più avanti si dice che: “Non c’era alcun legame psichico e sovrannaturale che potesse annullare la distanza e avvertirli che qualcuno del suo stesso sangue stava correndo un terribile pericolo. Forse la campana stava suonando, ma nessuno riusciva a sentirla.”
La Storia, con le sue grandi battaglie e amene sventure, non di rado echeggia, ma da lontano.
Si tratta di una narrazione non del tutto eterogenea rispetto a quelle concepite dalle materne Charlotte Brontë o di Jane Austen, dove gli intrighi sentimentali sembrano dominare gli altri accadimenti e determinare le azioni dei vari personaggi.
L’opera è divisa in tre libri, nella migliore tradizione romanzesca anglosassone del XIX secolo.
Quando Jeremy Poldark dichiara il suo amore, che allora parve eterno, alla sua adorata Cuby, la pelle di quest’ultima, color avorio “parve scurirsi, invece di arrossire.”
Dopo un ragionamento un po’ cinico espresso dallo spasimante, lei “cominciò a piangere senza emettere alcun suono. Solo lacrime che le sgorgavano dagli occhi e le scorrevano sul viso. Per qualche istante non provò nemmeno ad asciugarle.”
Da tale situazione, lei se ne uscì, gridando a quel bel e appassionato tomo: “Andate all’inferno e lasciatemi in pace.”
Altro rapporto difficile fra la signorina Clowance Poldark e l’ex corsaro Stephen, due aspiranti coniugi: “Quando gli stava vicino faticava a pensare lucidamente.”
Lui mi pare meno problematico, quando le dice: “… è nella mia natura correre rischi. È così che sono cresciuto, lo sai. La vita per me è sempre stata… una lotta. Una specie di lotta. Se un gatto cresce selvatico, è difficile addomesticarlo. Vuoi davvero addomesticarmi?” Al che lei esprime la sua incertezza a proposito.
Graham ha una penna molto felice quando tratteggia le piccolezze psicologiche: “Ross provava una forte avversione per le persone che gli stavano troppo vicine quando parlavano e lo seguivano quando arretrava.”
Intanto Stephen cerca di avvinghiare sempre di più l’amata alla sua burrascosa esistenza: “Tuberemo tutto il tempo, come due piccioncini. Ma se mai dovesse capitarci di litigare… beh amare, litigare, bere, mangiare, respirare a pieni polmoni e vivere la vita al massimo, ecco qual è il compito di ogni essere umano. La vita è già anche troppo corta, la gioventù è ancora più breve. Dormo sempre poco per paura di perdermi qualcosa.”
Stephen è un tipo pratico, onesto e trasgressivo al contempo.
Una cosa che non rilevavo mai nei romanzi delle due citate madri del romanzo anglosassone, qui lo trovo spesso è l’amore per il bere, durante i pasti: “… un ottimo picnic, innaffiato da un vino altrettanto buono…”
Solo una volta si cita quale nettare degli dèi: un gustosissimo porto.
Graham sorprende sempre per certi dettagli: “Lei si fermò ad esaminare uno dei suoi stivali, staccando tre grosse foglie rimaste incollate al tacco…”
Questo capita anche ai suoi personaggi: “Jeremy le parlò di Clowance e Stephen. Le informazioni più banali, al pari della comunicazione più semplice e superficiale tra loro, diventavano subito importanti.”
In tale occasione Jeremy e Cuby amoreggiano e si baciano senza quasi accorgersene. Anzi, se ne avvedono, eccome!, e la cosa è gradita da entrambi, ma sembra scorrere nell’inevitabilmente rio destino, che prima o poi svanirà nel nulla: “Il fatto che tu mi abbia… Che io… Insomma, l’abbraccio che tu mi hai rubato non vale niente di più di…” Al che il prode aspirante amante le risponde: “Non vale niente di più di un abbraccio. Che potrebbe mai significare?”
Una scena, nel capitolo successivo, rappresenta un’asta in cui è in vendita un cavallo. La riporto perché pare fatta apposta per essere a sua volta ripresa in uno sceneggiato televisivo.
I rapporti fra Harriet e suo marito George sono diversi: “Nelle rare occasioni in cui lui l’accoglieva nella sua camera da letto, non era mai passiva o arrendevole, e George alla fine la lasciava esausto e appagato, con la mente piena di ricordi selvaggi e appassionati che continuavano a riemergere nei giorni successivi.”

In un’eventuale discussione che sfociasse in un litigio, cosa che mai accadde, lei ne sarebbe uscita vincitrice. Così assicura Graham, l’ineffabile autore della loro esistenza. La di lei sicurezza di sé le fa dire senza temere critiche da parte del più quieto marito: “Non avevo mai incontrato il tuo vecchio rivale”, aggiungendo subito dopo: “e ti confesso che, con quell’aria sensuale, mi ha suscitato una strana sensazione in mezzo alla gambe.”
Un dato tecnico che, sia pur rilevato involontariamente, non sarebbe stato trasmesso al lettore né da Dickens, né da alcuna delle sorelle Brontë, per non parlare della Austen.
Si tratta di un libro moderno? Eccome! Basta pensare alcune ad alcune delle problematiche emerse:
“E sarebbe certamente inappropriato accettare un seggio da qualcuno e poi agire in senso contrario alle sue vedute.”
“Giungerà mai un tempo in cui le lezioni saranno davvero un appello al popolo?”
“È un errore, nella vita ma soprattutto in politica, inseguire cose così lontane. Si rischia di dimenticare quelle più vicine e più urgenti.”
Al termine di una danza detta del mulino, “Clowance capì, quasi con terrore, che…” lui “ci sarebbe sempre stato. Era come trovarsi in un periodo di buona salute e, d’un tratto, riconoscere un accenno di dolore, di un dolore che non poteva essere guarito perché troppo profondo, e ricordarsi, in mezzo alla gioia, che non esisteva una cura, per certe malattie.”
Chi sarà alla fine costui?
È Graham uno scrittore minimalista? Sì, anche.
È Graham uno scrittore storicista? Sì, anche.
È Graham uno scrittore grande? Egli è finissimo. E riesce a far affezionare il lettore ai suoi personaggi, soprattutto quando paiono smarrirsi nelle loro scelte esistenziali, e quando ogni tanto sembrano alla fine ritrovarsi, e poi si festeggia tutti insieme.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Winston Graham, La danza del mulino, Sonzogno, 2020