“Aida” di Verdi diretta da Riccardo Chailly: l’esecuzione di una versione dell’opera abbandonata dall’autore
L’esecuzione di Aida di Verdi diretta da Riccardo Chailly nell’ottobre del 2020 alla Scala di Milano sarà senza dubbio ricordata tra gli eventi musicali di grande rilievo.

Il maestro milanese, va notato, non è solo alla testa delle maggiori orchestre, ma sempre più spesso anche di ricerche musicali e di studi raffinati. I quali oltre a ricostruire i processi compositivi di vari autori, mirano anche a riproporre l’esecuzione di opere nella forma accantonata dagli autori stessi, o di brani espunti dalla versione definitiva.
L’intento è di portare a conoscenza di ignari amanti del melodramma (che a quanto pare non aspettano altro) quel che di inaudito è stato loro per più di un secolo nascosto.
La novità di questa Aida sta nel recupero di un centinaio di battute all’inizio del terzo atto – tirate fuori da un baule custodito nella villa di Verdi a Sant’Agata – che vanno a sostituire i “cieli azzurri” sospirati dalla schiava etiope sulle rive del Nilo.
Battute che in realtà tanto inaudite non sono, in quanto già ascoltate all’interno della Messa da Requiem (il passo «Te decet hymnus») che Verdi compose tre anni dopo Aida.
Oltre che direttore d’orchestra d’intensa e brillante carriera, il maestro Chailly è uomo di cultura e di complesse vedute, i cui intenti filologici non ci si sente tuttavia di approvare sempre e comunque.
Da più anni, pensando forse che il pubblico dei teatri d’opera sia costituito prevalentemente da esperti musicologi che siedono in platea con partiture alla mano, Chailly propone, dunque, esecuzioni “colte” col ripescaggio di parti o versioni di opere accantonate dai loro compositori.
Trascura però, a quel che sembra, il fatto che i teatri d’opera sono frequentati anche da gente di varia e non sempre eccelsa cultura, gente desiderosa soprattutto di ascoltare e di capire. E c’è anche una parte non marginale di spettatori che all’opera in programma assistono per la prima volta.
A rigore, a costoro si dovrebbe spiegare che per il momento hanno diritto solo alla versione dell’opera ripudiata dall’autore, e che quella definitiva potranno conoscerla se, o chissà quando, ne avranno l’occasione. A questo particolare riguardo, la responsabilità di che cosa mandare in scena, e come farlo, appare grandissima, e non priva di conseguenze.

Agli spettatori cui invece l’opera sia nota al punto di coglierne le varianti proposte dalla diversa versione cui hanno assistito, si dovrebbe chiedere quanto abbiano essi gradito la sostituzione. A questo tipo di inchieste, che costerebbero in fondo assai poco, però non si procede, come se non interessassero nessuno.
Molti pucciniani ricorderanno una Madama Butterfly di qualche anno fa realizzata al Teatro alla Scala sempre dal solerte Chailly, che per l’occasione ne aveva ripristinato la prima versione, quella in due atti del 1904, che come noto fu un fiasco clamoroso.
Puccini, ripresosi dal trauma dell’unico insuccesso della sua vita, d’accordo con l’editore, rimise mano alla partitura e la rielaborò profondamente; col risultato di mandare in scena solo tre mesi dopo una nuova Madama Batterfly in tre atti al Teatro Grande di Brescia.
Così modificata, l’opera ottenne un successo trionfale, e a trionfare in quella forma continua tuttora sulle scene di tutti i teatri del mondo.
Fino a quando il raffinato Chailly, spinto dalla sua passione filologica, non ha rispolverato la prima versione. C’era tuttavia da notare quanto meno convincente fosse l’impianto di quella Butterfly “originale” dal punto di vista drammaturgico, quanta minor forza tragica avesse in particolare l’ultima scena rispetto alla versione definitiva.
Madama Butterfly non è stata la sola opera di Puccini a esser riproposta in altra forma da Chailly, avendo i suoi ripristini interessato anche Tosca, Manon Lescaut e il Trittico (con l’eliminazione tra l’altro dell’aria “Nulla, silenzio” nel Tabarro, la più potente dell’opera).
E poco mancò, nel 2016, che andasse in scena anche una Fanciulla del West sovraccarica di pesi e lungaggini che Puccini tagliò con l’aiuto di Toscanini nei giorni antecedenti la prima assoluta al Metropolitan di New York nel 1910.
Va precisato che di quella Fanciulla sovrappeso si ricorda solo chi ebbe la ventura di assistere alla prova generale milanese. In quella circostanza qualcosa dovette accadere, o qualcuno capire, o magari riflettere, per far sì che alla fine al pubblico della Scala fosse riproposta la nota e più agile Fanciulla, quella amata dai suoi fan pucciniani.
Per quanto riguarda quest’ultima esecuzione scaligera, l’intervento di recupero è stato decisamente più modesto, e tuttavia una domanda qualcuno deve essersela posta: che ci fa un coro a cappella «uso Palestrina» con gli struggimenti di un’Aida alle prese col dilemma di scegliere se tradire la patria o il suo amato?

Nessuno lo sa, forse neppure Verdi lo sapeva, visto che decise di accantonare quel coro in attesa di scrivere partiture più consone ad accoglierlo. Come fu appunto la Messa da Requiem.
Con quanto fin qui detto non si vogliono negare i meriti del direttore d’orchestra milanese.
E tuttavia… tuttavia si preferirebbe che i frutti delle sue colte ricerche non fossero scaraventati direttamente sulla scena, a uso di spettatori ignari, e per gran parte impreparati ad apprezzarli, ma che di volta in volta si promuovessero appositi convegni cui invitare chi è specificamente interessato ad ascoltarli. E, quel che più conta, a discuterne. E cioè musicologi, studiosi, docenti, insomma esperti, coloro che – si sospetta – agli spettacoli dei teatri d’opera sono raramente presenti.
Infine, per i giudizi sull’interpretazione di questa Aida, si rinvia ai commenti che l’hanno accolta come una pura meraviglia. Come del resto viene solitamente salutato tutto quello che fa o dirige Riccardo Chailly.
Ed è a questo riguardo che un sospetto potrebbe sorgere, sul coro unanime di elogi sperticati che ogni volta egli dappertutto raccoglie. In effetti, i termini con cui lo si giudica sembrano essere più o meno gli stessi che in passato sono stati riservati a maestri del livello di Karajan, Bernstein o Solti… Ai quali, con tutto il rispetto per il maestro milanese, un confronto sembra comunque azzardato.
Written by Riccardo Garbetta
Complimenti per il suo interessante articolo. Io purtroppo non ho le conoscenze artistiche sufficienti per poter ribattere alle sue affermazioni su un opera maestosa l’Aida di Giuseppe Verdi e non ho avuto le possibilità economiche per poter andare a teatro da giovane. Quindi il mio commento è da leggere come un puro arricchimento biografico riguardante Giuseppe Verdi, Gioachino Rossini e senza dimenticare due grandi compositori come Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti.
Ognuno di loro arrivò abbastanza precocemente al lavoro operistico: Rossini a diciotto anni, Donizetti a ventun anni, Bellini a ventiquattro anni, Verdi a ventisei anni. Essi mirano in un primo tempo a conquistare le principali piazze teatrali italiani (Milano, Venezia, Roma e Napoli) per poi consolidare il proprio prestigio in campo internazionale, soprattutto in Francia e in Inghilterra. Il contatto con le scene parigine influì poi notevolmente sul loro linguaggio musicale, specialmente per quanto riguarda il sapiente sfruttamento dei colori orchestrali. Le partiture francesi di Rossini, per esempio, sono molto più ricche per struttura e varietà di orchestrazione di quelle composte in Italia.
L’inizio della trionfale carriera operistica di Verdi ebbe luogo a Milano, dove esordì alla Scala nel 1839 con Oberto, conte di San Bonifacio, dopo aver svolto a Bussetto (1836 – 1839) l’attività di maestro di musica presso la locale Società filarmonica.
Nel decennio 1861 – 1871 Verdi poté scrivere con molto più aggio e permettersi più lunghe pause di riflessione, per scegliere i soggetti e per rifinire i suoi lavori nei minimi dettagli.
Destinò le sue nuove opere prevalentemente a grandi teatri stranieri: per San Pietroburgo compose La forza del destino, per Parigi il Don Carlos e per Il Cairo l’Aida (1871), commissionata dal Khedivé d’Egitto per celerare l’apertura del nuovo Teatro dell’Opera in quella città costruito in seguito all’inaugurazione del canale di Suez (1869). Dopo Aida Verdi per sedici anni non accettò più commissioni da parte di teatri Italiani e d’Europa; si limitò a sorvegliare i numerosissimi allestimenti delle sue opere e a comporre un Quartetto per Archi in Mi minore (1874).
Una nota di merito va alla struttura del libretto.
Il crescente prestigio sociale dell’operista avvenuto nell’Ottocento favorì il rovesciamento di ruoli tra il librettista e musicista. A partire del 1820 – 1830 circa, il compositore impone sempre più la propria autonomia alla realizzazione alla realizzazione del discorso drammatico. Questo compito nel Settecento era di pertinenza del librettista.
Gli epistolari di Bellini, Donizetti e di Verdi soprattutto, e altri documenti d’epoca ci offrono in merito una messe molto abbondante di testimonianze. Verdi appare sotto questo profilo come una personalità radicalmente innovativa nei rapporti con i suoi librettisti. La ricchezza del suo patrimonio culturale e la raffinatezza della sua sensibilità letteraria, gli permisero di avere i mezzi per controllare l’attività dei suoi collaboratori in merito alle strutture poetiche e alla distribuzione della materia drammatica del libretto. In molti casi Verdi si cimentò personalmente alla prima stesura dei versi poetici che poi inviò al librettista. Questo suo modo di operare merge dai documenti epistolari relativi alla nascita delle opere quali Il Trovatore e Aida.