“L’agnello”, film di Mario Piredda: un racconto sulle scorie radioattive in Sardegna
I primi fotogrammi sono duri, disturbanti.

Un agnellino viene al mondo: taglio della telecamera sul dramma. Vita che nasce, con qualcosa di disperato. Vita che nasce, nell’angolo più difficile della Sardegna, dove si nasce con dolore, sangue, morte.
Un agnellino viene al mondo, ma è andato tutto male. Un altro è nato deforme. Solitudine dentro un ovile, silenzio, morte. Vita che pulsa spegnendosi, e la pecora che doveva dare la vita, che la perde lì, sulla paglia sporca dove la sopravvivenza è solo una durissima possibilità.
L’agnellino, appena arrivato al mondo se la gioca, da solo. Con uno sguardo oltre il confine della vita, che la macchina presa coglie sfidando ogni pudore.
Luci tenui, da alba piatta, metallica. Quasi un bianco e nero interiore. Sguardo severo dell’anziano pastore che scopre il dramma. Sguardo arrabbiato, perché è colpa di questa maledetta vita, se la vita lì non attecchisce mai. Primo piano sugli occhi dell’agnello che sembra non volerci credere.
Le immagini raccolgono tutto lo strazio e sembra che te lo vogliano buttare in faccia. Così, perché forse è anche colpa tua se sei comodo sulla poltrona mentre la fuori non si riesce a sopravvivere.
Posso dire basta e spegnere la pellicola. Credo.
Ancora non mi accorgo che la storia è già dentro di me. Maledetto regista, vorrei mollare, ma mi ha fatto prigioniero. Stringo più forte la cintura di sicurezza che ora in questo volo iniziano i vuoti d’aria. Si balla.
Salto di scena, adesso fuori, senza nessuna continuità, perché la vita ti porta dentro o fuori in meno di secondo. Sempre. O forse no, ma è quello che ti puoi aspettare.
Ancora le tonalità di grigio che dipingono i fotogrammi, di cielo scuro, di profili collinari infiniti che hanno spento tutti i colori, forse da un tempo dimenticato. Dettagli di paesaggi: reti di fildiferro spinato con cartelli di divieto perché quella è zona militare, e non è più zona del tuo mondo. Però ti sembra che sia tu dentro il recinto di una rete invalicabile. Il mondo è tutto via, e tu chiuso dentro spazi limitati.
Ti sommergono altri dettagli, cancellate, poi ripetitori radio enormi, sicuramente potentissimi. Rocce antichissime e mostruosità moderne che si odiano, piantate lì insieme, per dispetto, nella stessa valle dimenticata da tutto ciò che non contrasta.

Ancora schiacciato dall’uso coinvolgente dei grigi, l’immagine si arresta sui dettagli dei grossi proiettili abbandonati e arrugginiti. Una pozza d’acqua stagnante tra questi residui toglie di mezzo l’ideale della vita.
L’avevi intuito che il punto centrale del film fosse in quella pozza guasta contaminata dalla morte, ma adesso ti è chiaro, e fa male. Scorie radioattive della follia umana forse hanno contaminato terreno e vita di persone e animali di un’intera valle.
Ecco il tema che da anni affligge certe zone della nostra isola: la preoccupazione che i poligoni militari possano aver devastato la salute delle persone e degli animali.
Mario Piredda lo racconta senza retorica, non denuncia, ma ferisce. Mostra le ferite, aperte, anche quando fa male.
Infatti subito dopo gli animali e la terra entrano in gioco gli uomini. Jacopo affronta insieme alla figlia diciassettenne, Anita, la sua forma grave di leucemia, dopo che la moglie è morta per la stessa malattia.
Occorre trovare rapidamente un donatore per salvarlo, ma né la ragazza né il padre, nonno Tonino, risultano compatibili per il trapianto che lo salverebbe.
L’unica speranza è riposta nel fratello Gaetano, ma i due hanno interrotto i rapporti e non si parlano più da anni. Quel silenzio ottuso tra parenti, tra persone e paesaggi muti, come una digressione in una nostra deformazione ancestrale.
Il silenzio di parole, il silenzio, contamina, e ci vuole tutta la disperata caparbietà di Anita che le prova tutte per cercare di ricucire.

A questo punto non sveliamo il finale, ma possiamo confessare che il finale ha un peso relativo nell’economia del racconto. Nel senso che con qualunque finale si rimarrebbe soddisfatti, tale è l’intensità, la lucentezza della storia, la poesia delle immagini, il coinvolgimento delle emozioni.
È vero, l’ho confessato, che all’inizio stavo per mollare, prima di accorgermi che il regista mi aveva già catturato. Forse ci vuole solo un po’ tempo e di fotogrammi come per capire il gusto di un buon vino. Appena lo assaggi ti sorprende, perché è diverso dal vino di tutti i giorni, e non te lo aspettavi, perché il buon vino deve avere un carattere deciso. Ti devi tu abituare a lui, e non viceversa. Devi sentirne l’aroma, insieme al gusto, e comprenderne il linguaggio. Per stare a sentire quello che vuole comunicare, lui a te.
Così il fraseggio di questo film lo capisci bevendolo. Non ti coccola al primo sorso, non sminuzza la macchina narrativa. Va avanti per quadri. Talvolta il taglio di scena è rapidissimo, da un ambiente all’altro in battito d’ali. Giocato sulle emozioni più che sulle spiegazioni. Vedi, leggi, interpreti, senti. Senti col tuo sentire.
Se ci pensiamo è un po’ come la poesia. La poesia infatti non spiega tutta la dinamica della struttura, te la fa immaginare con i quadri che si succedono. Vedi, leggi, interpreti, ed è già dentro di te.
Soprattutto mano a mano che la storia va avanti prendi confidenza col linguaggio macchina di Piredda. Io sono rimasto dentro quelle scene in cui padre e figlia giocano. Giocano per felicità disperata, giocano a ingannare la vita, giocano che è sempre tutto provvisorio e i brandelli di felicità li devi strappare con le unghie. E quando Anita irrompe nella scena vibra il diapason delle emozioni.
Una grandissima Nora Stassi nei panni della ragazza vive nelle inquadrature di Piredda. Butti via la poltrona comoda su cui sei seduto insieme al tuo ambiente a zero rischio uranio impoverito, e ti proietti dentro quelle scene. Ti comunicano, ti toccano, ti commuovono. Evviva, ti commuovi senza che sia liberatorio.
Anche i paesaggi, montani o marini, sono spesso un’escursione nella poesia. La delicatezza, il rispetto, con cui sono colti certi panorami, ti rimangono dentro anche dopo che il sapore del vino buono è svanito.

Poi arrivano i dialoghi, che da soli scrivono un altro film. Velocità di ripresa e tempi lunghi dei dialoghi sembrano in controcanto. Ma ti accorgi che in quei dialoghi c’è tutto uno studio di caratterizzazione dei personaggi che travalica, o meglio accompagna, lo scorrere incantato del film.
C’è tutta la Sardegna in quei dialoghi, come dentro tutte le inquadrature. Non sappiamo se sia stata facile o sofferta la scelta di dare di far esprimere con la lingua sarda i protagonisti. Certo chi non conosce la nostra tipica parlata può perdere qualche sfumatura, ma è la lingua di quella immagini.
È la lingua di quella terra aspra e selvaggia che scorre in ogni fotogramma. È la coniugazione di sensazioni visive e auditive, forse dure, forse a tratti oscure, ma che danno un’integrità, una autorevolezza indiscutibile alle ferite assurde dell’isola che viene raccontata lì.
Written by Pier Bruno Cosso