“La bambina senza il sorriso” di Antonio Menna: miracolo ed entropia nella vecchia Napoli

Il problema di qualunque scrittore, non solo il napoletano, è sempre lo stesso, conciliare l’esigenza descrittiva con quella comunicativa, restando leggibile per tutti.

La bambina senza il sorriso
La bambina senza il sorriso

Lo stesso problema, finora insoluto, ha riguardato anche i libri di narrativa di Saviano.

L’errore in cui si rischia di cadere è se si lascia il tentativo a metà, per cui mi permetto di suggerire in questi casi di studiare la lezione icastica di Verga, ma anche quella particolare di Camilleri, se non quella totalizzante di Pasolini.

In taluni passi del romanzo, l’uso dell’italiano è immotivato e io sento, da campano acquisito, la necessità di tradurre mentalmente in napoletano gran parte dei discorsi diretti.

La scena più bella, dal punto di vista glottologico, è quando Carletto, il ragazzino che va a lezione dal protagonista, esclama: “Uanema”, che vuol dire, se non erro: “All’anima!”.

Non apprezzo le frasi del tipo: “… prussò. Ho fame.” Non credo che sia mai esistito un partenopeo appetente, chiedo scusa, allàncato, allupàto, muórt è fàmma, che non abbia detto, invece, tengo fame!

Non è una quisquiglia, né un fatto gravissimo, è una cosa su cui ciascuno scrittore d’ambiente popolare deve lavorare sodo al fine di conciliare il mezzo espressivo e quello comunicativo.

Esaurito ‘sto lamiénto, ‘sta siziasìzia, mi occupo ora della storia…

… che inizia dalla dedica: “A mio padre, che non ha fatto in tempo”.

Leggo su Google la presentazione di sé dello scrittore, che dice di vivere a Napoli da quando era bambino. E che a 13 anni decise di diventare giornalista. E che ci sta ancora provando. Iscritto all’Ordine dal 1991, già dal 1988, poco più che maggiorenne, ha scritto sui giornali di un po’ di tutto, cronaca nera, politica, cultura.

Poi, tra l’altro, afferma due cose importanti: a) è sempre a dieta, invano; b) è abbastanza asociale.

Non accenna a matrimoni o convivenze, ma ad altri fatti non attinenti alla storia, almeno in un modo diretto.

Ah, scordavo: il padre era poliziotto, il fratello carabiniere, mentre lui è stato obiettore di coscienza, presso un carcere e poi per la Caritas.

All’inizio del capitolo 7, l’io narrante, Tony Perduto, scrive: “Avevo tredici quando decisi che avrei fatto il giornalista. Mi ricordo perfettamente il momento. Mio padre leggeva il giornale al solito modo. Quella volta lo guardai a lungo. Non alzò mai gli occhi. Seguiva l’articolo con le pupille, muoveva le labbra a scatti. Era totalmente rapito. Pensai: voglio che legga così una cosa scritta da me.”

L’Io narrante è una persona bonaria e ironica al contempo, e, come forse lo stesso autore (e come venni definito io una volta a Paestum), tene ‘na faccia ‘e Pasqua; eppure è sconsolato, eppure è tranquillo, eppure non si sente valorizzato come si deve, eppure è scaltro, eppure vive ogni attimo improvvisando quello successivo, eppure vive una vita troppo fitta di eppure.

E viene sfruttato dal datore di lavoro, che mai una soddisfazione! Mai! Solo critiche!

Il lettore condivide per empatia i suoi sentimenti, senza che ci sia bisogno di verifiche. Quello che legge gli basta. E gli crede. Egli dice le cose come sono, senza fingere, pane al pane e vino al vino.

A proposito, Menna e il sottoscritto non siamo alcolizzati, né allupàti di cibo, ma scommetto che entrambi a volte mangiamo un boccone in più solo al fine di giustificare nu bicchierello e vino in cchiù. Al che urge confessare all’autore che il Vino d’Avola che prediligo e che consiglio è Il principe di Butera.

Alla porta di Tony bussa (per i lombardi non di origine napoletana chiarisco che bussare significa suonare il campanello) una guaglioncella di nome Chiaretta che, senza mai sorridere (del resto non ha motivo per farlo), gli comunica di aver smarrito il padre, all’improvviso, mentre erano tutti e due in una via dei quartieri spagnoli, e lui all’improvviso si è immerso nella folla e, puff!, è sparito, così, d’incanto.

Che non sia andato via volontariamente la prova è che le altre volte che se n’era andato via da casa, mai aveva cessato di restare in comunicazione con lei.

Fra i due consanguinei c’è una sorta di correlazione che ora sembra essersi spezzata. La bimba affida il caso al giornalista. Una situazione alla Dylan Dog, per intenderci. Il male sta covando sotto le ceneri, e dovrà essere Tony capire che cosa. La principale differenza fra i due investigatori è che a Napoli, rispetto a Londra, non ci sono spettri sumeri che infestano i frigoriferi. C’è molto di peggio.

A pagina 121 del capitolo 23, uno scambio di battute parte-nopee e parte-napoletane:

Prego, signor Perduto, servitivi pure voi”, dice Pasquale.

“Mi date del voi adesso?”, dico.

“Per rispetto della dottoressa”, mormora.

A pagina 127 del capitolo successivo, una frase mescaa Francesca, assurdamente italo-campana:

“È meglio non ammiscarsi con ‘sti cose.”

Quell’È mi pare italiano purissimo, privo del permesso di soggiorno nei quartieri spagnoli, ma anche al Vomero, a Posillipo e in tutta Piazza Plebiscito.

Antonio Menna
Antonio Menna

A pagina 120 del capitolo 25 è come se m’arrivasse na pacca in du musso, nu paccherone, quando leggo una domanda del piccolo e chiattulillo Carletto: “Che ci fate qui, prussò?”.

No!

Ma facite cómme vulite, prussò!

Appunto, facite. Per mia esperienza, Antonio, dalle tue parti, la seconda persona di riguardo non è mai quel lei che abbonda irragionevolmente nel tuo libro, ma sempre il voi, tanto nelle classi basse che in quelle alte.

Queste imperfezioni le colgo dopo trent’anni di esperienze linguistiche in Costiera e nel Cilento, che m’hanno aperto la mente sulla lingua di quelle bande (non fraintendere: dalle mie parti, significa altro).

Chi meno conoscesse la tua lingua, non ci farebbe caso. Anzi, potrebbe perfino criticare certi spunti vernacolari. Sai che ti dico, impipatene. Come raccomandarono al patrono della tua città, quando fu ingloriosamente espunto dal calendario: “Anto’, fottitenne!”

Nella coda del Capitolo 25 la bimba, che pare atarassica, stupisce Io narrante e lettore, dicendo: “Quando rido lo vede solo il mio papà.”

All’inizio del 26, l’Io narrante afferma:Forse è la fissità dell’espressione o la palandrana di ferro della timidezza, che conosco bene, e che ti fa sembrare a volte guerriero e un secondo dopo preda.”

Sei capitoli dopo: Non sono mai stato abile con le donne. In realtà non sono mai stato abile con gli esseri umani. Anzi, allarghiamo la visuale, con la vita.”

È il problema di chi nasce sfigato con un’ombra di genialità, oppure tutto all’incontrario.

Il cognome dell’Io narrante è Perduto, ma gli starebbe senz’altro meglio Perdente, oppure A Stento Pareggiante. Perduto, purtroppo è il padre (come capisco la tua mestizia, Antonio).

In questo romanzo brilla una novità: chi conta davvero sono i genitori maschi; anche le madri rivestono una certa importanza, meno però, e sono a volte assillanti, oppure assenti.

Il dramma della storia è che anche i padri, come tutto il resto, sono vittime del secondo principio della termodinamica, e quindi soggetti all’inevitabile e tragica entropia.

Una certa Federica non solo collabora col nostro eroe alla soluzione del caso, ma è grazie a lei che scopro l’esistenza di Anne Sexton, una scrittrice e poetessa americana, che presto leggerò, lo sento.

Il finale è di quelli che ti lasciano quel sapore dolce e un po’ amarognolo, che ti rimarrà sul gozzo tutta la notte. La storia però termina nel modo migliore: con uno straordinario sorriso.

Tonì, la tua scrittura è un accattivante caso di smart-writing, consona a questo periodo in cui viviamo, così atroce e virulento.

Se passi dalle bande di Amalfi, ci sorbiremo insieme un caffè (ce pigliammo ‘nu caffè) dal figlio di Maotsetung. Vabbuò? T’aspetto.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Antonio Menna, La bambina senza il sorriso, Marsilio, 2020

 

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