“L’albero della vergogna” di Ramiro Pinilla: i silenzi della guerra e la paura per l’incerto futuro
“La bambina piange già da un po’. Un momento fa, il bambino non piangeva. Perché no? No, non avrà più di dieci anni, solo tre più della sorella. Per verificare se è scoppiato in lacrime anche lui, lo guardo un’altra volta. Continua a non piangere. E di nuovo non riesco a sfuggire a quegli occhi. Perché un moccioso di dieci anni ha quegli occhi freddi che non piangono per quello che sta succedendo qui?”

Spagna. Franco è al potere e i falangisti terrorizzano la popolazione.
In un piccolo paesino dei Paesi Baschi le cose non sono differenti e gli uomini sono meno: chi perché partito e morto in guerra, chi perché portato via dalla propria casa e fucilato fra le grida dei familiari.
Rogelio Cerón è tra coloro che ammazzano i repubblicani e quando a morire è il maestro del paese deve fare i conti con gli occhi del figlio di dieci anni.
Occhi senza lacrime che non smettono di fissarlo neppure la notte, occhi che promettono vendetta. Rogelio non sarà più lo stesso, il timore che quegli occhi portino a compimento quanto promesso lo portano davanti ad un albero di fico conducendo una vita da eremita.
Ma perché sta sempre lì? E cosa c’è sotto quel fico?
In tanti se lo chiedono, in tanti resteranno senza risposte ma altri, Rogelio per primo e il bambino, ne comprenderanno il reale e profondo significato.
“L’albero della vergogna” (Fazi Editore, febbraio 2020, traduzione di Raul Schenardi) è la voce dolorosa di una Spagna martoriata dalla guerra, una storia che ne racconta tante, una confessione a cuore aperto difficile da scordare.
Ramiro Pinilla, autore di questo romanzo, considerato uno dei migliori narratori in lingua spagnola del Novecento, paragonato a Faulkner e García Márquez è tornato alla ribalta ormai ottantenne dopo che il suo lavoro venne consigliato all’editore spagnolo Tusquets da Fernando Aramburu divenendo subito un caso letterario.
“L’albero della vergogna” è pregno di quel dolore che portano sempre con loro le guerre, ci racconta di persone spezzate a causa della perdita di propri cari, di luoghi dimenticati e di corpi che non ricevettero mai una degna sepoltura.
È anche il racconto di un uomo e di un bambino: il primo coinvolto in faccende che crede lo rendano uomo ma che nemmeno lui comprende; l’altro obbligato a crescere anzitempo a causa di un padre e di un fratello portati via di casa senza alcun preavviso.
Ad accomunare i due il silenzio molto più rumoroso di tante parole che sarebbero state inutili.
“Con il bambino ci scambiavamo i pensieri più reconditi. Chi o che cosa ha compiuto un simile miracolo? Le parole, la loro assenza. Dovrò ammettere che le parole sporcano. Qualcuno potrebbe cercare di idealizzare il nostro rapporto paragonandolo alla purezza e alla semplicità con cui comunicano tutte le altre specie animali… ma fra me e il bambino non ci sono stati gesti, grugniti né niente del genere! Come potrei arrischiarmi a mettere fine a una cosa tanto speciale?”

Un romanzo unico non tanto per la storia che racconta quando per il modo e lo stile con cui lo fa.
Tutto si svolge davanti ad un albero ma in nessun momento risulta pesante o si sente la voglia di abbandonare la lettura, anzi. Si attende che qualcosa accada, che qualcuno parli, che qualcuno ci metta a conoscenza del finale che purtroppo arriva con forza, coraggio e crudeltà.
È molto più semplice nascondere che affrontare la realtà e quando qualcuno ci prova in pochi si rendono conto di cosa realmente accade nel presente ed è accaduto in un passato non così remoto e purtroppo ancora molto attuale.
Written by Rebecca Mais