“Il mistero sotto i nostri piedi” di Richard Panek: l’enigma della gravità
Il concetto di terra e di cielo, un’immensità che sta sopra e una, probabilmente minore, che sta sotto, ha da sempre affascinato l’uomo.

Perché il cielo non precipita su di noi? Perché, se qualcosa mi scivola di mano, va a finire a terra?
Qualunque cosa sia la cosiddetta forza di gravità, mi ha sempre arrecato infiniti dispiaceri, collegati all’entropia, che mi pare la sua eterna nemica, per cui un bicchiere rotto non potrà mai essere perfettamente ricomposto, anche usando le più efficaci colle adesive: per quanto ben raffazzonato, sarà sempre un oggetto diverso dall’originale. Di sicuro, la gravitazione ha la pellaccia dura, perché chissà quante miliardi di volte qualcuno ha imprecato contro di lei.
Da tempo ho in mente una teoria che ispirata da diversi libri di fisica divulgativa letti negli anni. È impossibile non farsene una, dopo aver letto libri come il saggio di Panek, che identifica in Aristotele il primo vero pensatore scientifico della questione, che usava i sensi per investigare la natura e usava, a posteriori, la logica, corretta o fallace a seconda del caso, per interpretarne gli effetti, abbandonando le premesse mitologiche e introducendo la metodologia dell’indagine.
La questione è tuttora irrisolta; ma fa un passo in avanti (giusto o errato che sia) con il cristiano Filopono, che si dedica a risolvere la questione se il mondo ha avuto un inizio o se è sempre esistito, propendendo per la prima ipotesi, che presuppone un Nulla che precede il Tutto. Insomma, Dio.
La faccenda non è a tutt’oggi risolta.
Il secondo capitolo parte da Aristotele e conduce a Galileo, passando per Tolomeo, il suddetto Filopono e il suo pagano detrattore Simplicio di Silicia, grazie alla cui critica negativa si sono salvate le idee del rivale, che altrimenti sarebbero andate perse dopo la sua condanna per eresia; e soprattutto Keplero, la cui matematica, insieme a quella di Copernico, presuppone le scoperte che il grande pisano compì all’inizio del XVII secolo.
La Terra non è più al centro dell’universo e le montagne della Luna assomigliano a quelle che svettano sulla terra. Le si vedono, e sembra quasi toccarle con la mano, grazie al binocolo.
La novità della sua ricerca, oltre che per il metodo sperimentale, risiede nella fiducia che l’universo “è scritto in linguaggio matematico”.
Newton è colui che sa più di ogni altro utilizzare questa intuizione e, grazie alle sue conoscenza matematiche, è in grado di rappresentare un mondo coerente, per quanto difficile da comprendere, anzi, assai incomprensibile.
Si serve di un neologismo: “moto centripeto”, cioè chiamato verso il centro e non verso l’esterno; e la mette in accordo con quello inerziale, cioè in avanti. In tal modo riesce a produrre calcoli che collimano con le esperienze dirette, che valgono sia qui che altrove.
Newton è però consapevole che le sue teorie siano sì comprovabili, ma inesplicabili.
L’autore sottolinea che è più difficile credere in tale teoria scientifica, che in quella religiosa. Nel secondo caso l’atto in fede è sufficiente, nel primo lascia aperto l’interrogativo principale. Perché tutto questo?
Il quesito, quattro secoli dopo, risulta inevaso.
Il quarto capitolo s’intitola Gravità come narrazione, e più degli altri offre la possibilità all’autore d’interpretare anche psicologicamente i personaggi, che sono in questo caso fisici, astronomi e filosofi.
Un esempio della drammatizzazione:

“La risposta non è: non puoi.”
“La risposta è: non lo fai.”
O più precisamente: non lo fai perché non puoi.
Non introduci una causa per gli effetti della gravità perché non puoi introdurre una causa per gli effetti della gravità, almeno secondo l’attuale comprensione del funzionamento dell’universo. Dunque, piuttosto che sforzarsi, fare congetture, tirare a indovinare e distorcere le cose per descriverle, scrive Newton, limitiamoci a ciò che sappiamo: “l’accordo tra matematica e moti.”
Parla Isaac per voce di Richard.
“… Newton conclude che non c’è necessità di sapere come funzioni la gravità. Sappiamo che funziona perché possiamo vedere i suoi effetti, possiamo derivare la sua matematica, possiamo giungere a leggi che possiamo generalizzare all’intero universo.”
Questo è il succo del capitolo e della teoria newtoniana, non dissimile da quelle odierne: si sa che funziona, ma del perché ancora non si ha contezza. Sono possibili soltanto ipotesi.
Ma sono proprio esse che Newton rifugge: “siano esse fisiche o metafisiche, oppure basate su qualità nascoste o meccaniche, non hanno posto nella filosofia sperimentale.”
Panek è onesto, anche se si vede che parteggia per il fisico inglese, poiché lascia la scena anche ai suoi oppositori, quali, ad esempio, Christiaan Huygens e il suo allievo Gottfried Wilhelm Leibniz, che “negano l’azione immediata di un corpo su un altro distante da esso.”
La simpatia va però più a chi accetta le idee dell’inglese, come ad esempio Voltaire che “agisce da battitore per la diffusione delle nuove idee newtoniane”.
L’opera è l’appassionata storia delle vicende legate alle diatribe fra queste menti eccelse. Che continua nel capitolo seguente: Gravità come fatto. E come tale va narrata, per come si interseca nella vita di chi la studia, come si fa con un essere quasi demoniaco, un It misterioso e, anche se non clownesco, sicuramente emozionante.
Non è chiaro a chi appartenga l’asserzione dell’autore, quando dice: “Possiamo rendere il lato Ciò che sappiamo sulla natura dell’equazione uguale al lato Ciò che c’è da sapere sulla natura, semplicemente inserendo una variabile, una x. Questa x rappresenta tutto ciò che non c’è. Qualsiasi sia il suo valore, questa x bilancia i due membri dell’equazione dell’universo.”
Si tratta di una frase positivista che è falsificabile grazie a Popper, per cui tutto quello che si sa lo è, falsificabile, in quanto teoria scientifica. La x esiste (o è meglio dire che c’è?) sicuramente, ma essa può invalidare la y, se a questa variabile attribuiamo il valore di quel che crediamo di sapere. Se la verità, qualunque essa sia, è uguale a z, ecco allora si può dire che x+y = z che è un’equazione che non dice nulla e dice tutto, ma alla fine non concede altro che lo stimolo a continuare la ricerca.
Questa è stata la mia reazione alla frase, ma non è da considerarsi un’obiezione all’idea (finale) dell’autore, perché ci sarà (se ci sarà) all’ultima pagina, ultima riga e forse ultima sillaba dell’ultima parola. Il libro mi dà esattamente l’impressione di un thriller.
Il capitolo è incentrato sul problema di Dio. L’idea di Newton e dei suoi seguaci va contro le teorie catastrofiche dell’evangelico metodista John Wesley, che sembra quasi augurare ogni sciagura cosmica a quest’umanità farneticante, che crede di scoprire il mistero dell’ineffabile Dio.
Ma essa si scontra anche con lo scetticismo di chi afferma la pochezza dello scienziato rispetto al poeta: “Ci vorrebbero le anime di cinquecento Sir Isaac Newton”, scrive il poeta Samuel Coleridge, “per fare un singolo Shakespeare o un singolo Milton”. Quest’ultimo, ben posteriore a Copernico e Galileo, utilizza le idee tolemaiche e Aristotele per descrivere (cantare) i suoi mondi ultraterreni.
Interessante il commento di John Keats:
“La filosofia taglierà le ali degli Angeli,
Soggiogherà ogni mistero con regole e norme,
Svuoterà l’aria di magia e le miniere di gnomi –
Sfilaccerò gli arcobaleni.”

O come scrive Blake con schietta semplicità: “l’arte è l’albero della vita, la scienza è l’albero della morte”.
E come si fa ora non ricordare il disegno di questo immenso poeta-pittore che ritrae un Newton ignudo e col compasso? Ovvio che l’autore non ce la fa proprio a non ricordarlo.
Intanto, però, “… i filosofi naturali iniziano a sospettare di non stare ponendo la domanda giusta. Non è tanto Fin dove si estende l’ampio campo di scoperte gravitazionali?, quanto invece Dov’è che non si estende”
In L’Età della ragione… “Paine utilizza l’argomento di Bacon: lo studio della natura non sfida Dio ma ne rivela la gloria”. E arriva ad affermare che “Il Creatore dell’uomo è il Creatore della scienza ed è attraverso tale mezzo che l’uomo può vedere Dio, come se si trovassero faccia a faccia.”
Ed ancora: “Dobbiamo considerare il presente stato dell’universo come effetto del suo stato antecedente e come causa dello stato che seguirà – scrive Laplace”
Darwin stesso afferma: “le specie non solo si sono evolute e si stanno evolvendo, ma lo hanno fatto e lo fanno ‘mentre il pianeta continua a girare secondo le leggi immutabili della gravità.’”
Pare davvero un coro polifonico: “dice l’astronomo canadese-americano Simon Newcombe: ‘Siamo vicini al limite di ciò che possiamo conoscere’”. Per cui “tutte le forze di natura si riducono alla stessa cosa: materia in movimento”.
Che l’autore stia giocando coi birilli, di cui uno non può che essere il lettore, lo si deduce dalla seguente affermazione: “Grazie alla gravità la scienza ha portato la x nell’equazione dell’universo quasi all’estinzione. Eppure.”
Due considerazioni:
La prima è che l’affermazione che Dio è nella natura, porta a ricordare quel che nel 1870 Pio IX sancirà quando dirò, in senso traslato: “Credete che Dio esiste. Altrimenti vi scomunico. La Prova che ho Ragione è Mia, per cui non ve La comunico.”[1]
La seconda è che dire che x si riduce sempre di più, rammenta quanto comologi e fisici moderni come Hawking affermavano dicendo che la Teoria del Tutto era lì lì per essere scodellata al cospetto del genere umano. Anche ai tempi di Rutherford si credeva la stessa cosa, poi intervennero Planck, Einstein; Bohr, Heisemberg, Pauli e Dirac e migliaia di altri fisici a discutere se la visione della realtà reca incertezza, oppure doxa relativistica, per cui ognuno la vede dal suo punto di vista.
Se, in altre parole, ha senso parlare di verità.
Ripeto noiosamente l’eterna diatriba, anch’essa posta in senso traslato:
Einstein: Dio non gioca a dadi col cosmo.
Bohr: Nessuno può attribuire a Dio delle intenzioni.
Bell: Dio gioca a dadi, ma bara.
Nessuno dei tre era un comico, tutti e tre furono gli attori principali della famosa commedia del XX secolo, intitolata: “Chissà chi lo sa?!?”
Il sesto capitolo è ovviamente il più difficile da commentare, perché è ovviamente il più difficile da leggere, essendo quello che è stato ovviamente il più difficile da scrivere e il cui significato è ovviamente sfuggito allo stesso autore, non solo a lui, ma a tutta l’umanità passata e presente. Anche Einstein non lo capirebbe del tutto, ovviamente.
Sto un po’ imitando l’autore che ama questi rimandi di parole, che riescono a dare l’idea del problema che sta affrontando. Ovviamente.
Il capitolo inizia con la morte di Einstein “in una stanza privata dell’ospedale di Princetown”. L’infermiera non conosce il tedesco, ovviamente, e quel noto fisico borbotta rimarrà per sempre un mistero, ovviamente.
Einstein deriva dal filosofo austriaco Mach l’idea della distinzione “tra incomprensibilità ordinaria e incomprensibilità non ordinaria.” Certe assurdità servono a comprendere la natura, ma restano tali. Non credo quia absurdum. Ma credo absurdum, quod laborat.
James Clerk Maxwell stabilisce senza stabilire, ma dando per scontato che sia, che la velocità della luce è costante. Nel vuoto, si potrebbe aggiungere. Einstein parte da questo assunto, mai assunto esplicitamente.
Tale costanza permette di individuare l’altrui incostanza. Tutto è relativo, nel senso che nulla è assoluto, se non la suddetta costanza luminale.
“Tutto ciò che sappiamo dell’universo è tutto ciò che sappiamo qui e ora. – Qui in questo punto dello spazio e ora in quest’istante temporale. E tutto ciò che sappiamo qui e ora è l’informazione che ci raggiunge. E l’informazione ci raggiunge attraverso la luce.”
Devo ammettere che questo assurdo concetto non è stato mai spiegato in un modo così luminoso.
Per Einstein “la massa inerziale e la massa gravitazionale misurano la stessa cosa.”
Inerzia è “la resistenza di un oggetto di un oggetto a cambiare il suo stato di moto”.
Gravità è “la predisposizione di un oggetto a cambiare il suo stato di moto”.
Si tratta della stessa misura di due fenomeni apparentemente e ovviamente opposti.
Nonostante la riuscita dell’esperimento di Eddington, l’unico, come si evince da un aneddoto riportato dall’autore (un must di ogni descrizione della relatività), dei soli tre umani in grado di capire la teoria della relatività (l’altro era Einstein e il terzo non è ancora pervenuto), si può dire che: “L’universo di Aristotele è durato duemila anni. L’universo di Newton duecento anni. Quello di Einstein meno di dieci anni.”

Nel 1909, lo stesso Einstein, riprendendo un’idea di Planck, “ipotizza che la luce si propaghi in onde e in quanti, ovvero unità discrete”, dando la stura agli studi quantistici.
Il capitolo sintetizza la serie di scoperte avvenute nel secolo scorso: l’indeterminazione quantistica, l’espansione dell’universo, che elimina (almeno pare farlo) la necessità della variabile Lambda (altrimenti nota come costante cosmologica), che lo stesso Einstein definì il più grande errore teorico della sua vita (che è però rivalutato dalla cosmologia attuale). Infine i buchi neri.
Ovviamente il punto dolente e pregnante del capitolo.
Se guardiamo un anello di Saturno, che lo attraversa a livello dell’equatore, ovviamente vediamo questo lato dell’anello; un osservatore situato nella posizione opposta ovviamente vede l’altro alto.
Fermo restando che nessuno ha mai scorto dal vero un buco nero, che altrimenti non si chiamerebbe così, matematicamente e ovviamente si può vedere ciò che è in entrambi i suoi possedimenti, questi che sono di qua e quelli, niente affatto arcani (o meglio: non di più) che sono di là.
Solo matematicamente (e ovviamente).
Tutto questo grazie alla distorsione della lente gravitazionale. Che non è affatto un concetto ovvio. E che l’autore si guarda bene dal descrivere.
Sa però descrivere una descrizione descritta da quell’ottimo descrittore che già la descrisse nel suo libro più descrittivo: Stephen Hawking.
Si parla ovviamente dell’“immagine di una persona che rallenta fino a congelare sul bordo dell’orizzonte degli eventi” di un buco nero, ovviamente.
“Mentre l’osservatore esterno vede il tempo dell’astronauta rallentare, l’astronauta vede il tempo dell’universo accelerare. Più si avvicina al disco di accrescimento, più il tempo passa velocemente, nel momento in cui l’osservatore esterno vede il tempo dell’astronauta arrestarsi, l’astronauta sarebbe testimone dell’intero futuro dell’universo.
Ovvio!”
E qui l’autore mi ha rubacchiato la battuta.
E va oltre.
“Ovvio perché ha un senso logico.”
Non solo perché è giusto sottolineare che: “Il problema è tutto il resto”.
Poi Panek mi cita, allisciandomi leggermente: “Forse la mia immaginazione umana non è fervida come quella del lettore. O forse c’era qualcosa di sbagliato nella matematica. O forse c’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui pensiamo e non siamo ancora stati in gardo di capire cosa.”
Ovviamente!
Il settimo capitolo si rivela subito per quello che non è: un lento e irrimediabile ripiegarsi della storia dopo gli ultimi appassionanti avvenimenti. Un po’ come quando in It di Stephen King i ragazzi si ritirano ognuno per conto suo, dimenticando quanto gli è successo, ognuno a suo modo e coi tempi suoi.
Ma non è poi così perché, dopo un’amena analisi di come i vari bipedi, tripedi e quadrupedi gestiscono i loro rapporti col suolo, cioè con la forza di gravità, ecco che l’autore riparte col suo (e ormai nostro) dramma, ricordando una volta di più che “la gravità non è una forza che ‘tira’ gli oggetti verso la Terra, ma una deformazione del continuo spazio-temporale”.
Lambda si risolve eguagliandolo la sua misura a zero, e così cessa di far danni. Purtroppo, si scopre oggi che ce n’è ancora bisogno, per non capire l’universo, ma per risolvere (leggi: celare, ma dà più l’idea il termine cilentano ammucciare) ad hoc il mistero.
“Gli scienziati chiamano questa misteriosa forza ‘antigravitazionale’ energia oscura…”
La gravità, che causa le maree proveniendo dalla luna, è debolissima: non riporto la proporzione fra la sua intensità rispetto a quella della forza nucleare forte perché è assurda, per quanto reale. Non solo, ma “è anche l’unica a non possedere una formulazione quantistica”, a differenza delle altre tre forze: quindi è come le altre.
Per questo, la relatività einsteniana corre su binari paralleli, ma inconciliabili con l’altra fisica, quella dell’infinitamente piccolo. Grazie ad entrambe, però, l’uomo è andato sulla Luna. Arlecchino era servito di due padroni. Ora i due padroni servono Arlecchino.
Temo che non l’avrebbe più fatto, ma sbagliavo a dubitarlo, perché l’autore parla delle particelle virtuali, un qualcosa che abita ed agisce nel vuoto, che tale, grazie ad esso, non è: “quel qualcosa acquista esistenza”, lasciando “una traccia energetica”. Che vuol dire una cosa importante: “… le particele virtuali – frammenti di vuoto che sono riusciti a diventare qualcosa – interagiscono con la gravità”.
Pertanto “se l’universo proviene da una fluttuazione quantistica – un vuoto che diventa qualcosa – quella fluttuazione ha quasi necessariamente generato altre fluttuazioni.”
E questo conduce al multiverso, argomento che bene fa l’autore a lasciare un po’ sospeso nel discorso, che, di carne a cuocere ce n’è già fin troppa, quai tutta di “incomprensibilità ordinaria”.
Poi passa alla disamina del principio antropico, anche qui fingendo di ignorare, molto saggiamente, che esso può esprimersi nelle due forme forte e debole, esaminando quest’ultimo, che è lapalissiano “il motivo per cui siamo in grado di studiare l’universo è che viviamo in un universo che siamo in grado di esaminare”. Più che altro, è tautologico (così non lo definisce l’autore, preferendo usare il termine logico). A Reggio diremmo da cór’r a scapêr…: il borseggiatore, quando è scoperto, non corre, scappa correndo.
Delle due coincidenze riportate nel libro discorrerò alla fine.
La scoperta delle onde gravitazionali, ancora avvolta nel mistero, apre uno spiraglio che è quasi uno squarcio enorme in cui lo scienziato potrà forse, ovviamente, infilare i suoi ponderosi piedi al fine di scoprire parte di quell’x, che separa l’ignoranza dalla cosiddetta sapienza.
Riporto con ammirazione la descrizione che l’autore fa del processo creativo avvenuto nel corso dell’esistenza dell’homo sapiens sapiens: “Per migliaia di anni, abbiamo studiato il cielo solo coi nostri occhi. A partire da Galileo, studiamo il cielo con una tecnologia che migliora enormemente il nostro potere visivo. A metà del ventesimo abbiamo iniziato a studiare il cielo in porzioni dello spettro magnetico non visibili ai nostri occhi, con o senza l’aiuto di un telescopio ottico. Ora iniziamo a studiare il cielo senza alcun tipo di luce. Usiamo invece distorsioni dello spaziotempo – onde gravitazionali che provengono non solo da buchi neri o da stelle di neutroni, ma anche dal Big Bang. Questo genere di progressi suscita negli scienziati la loro domanda preferita: che succederà ora?”

Caro amico (io giudico tale ogni autore che leggo), già nel sesto capitolo citasti la costa di Amalfi. Ora che ci stiamo per separare, mi parli di Positano e delle colline tipiche della Divina Costiera. Se passi da quelle parti, saprò alloggiarti in qualche modo. Ovviamente ti stresserò l’anima facendo migliaia di domande, a cui non saprai rispondere, quindi forse non ti conviene.
E né più saggio, né più immoto e atarassico sarei a Pisciotta, ridente, pur con qualche dentino cariato, cittadina a dieci miglia a sud di Elea, dove pure esiste la costumanza, un po’ greca e un po’ saracena, di alloggiare gli ospiti. Ti aspetto, ma nel frattempo ti sciorino una mia mezza idea (fa’ conto che io sia un allievo della scuola aristotelica-newtoniana, finalmente in sintonia, una specie di incrocio fra Tom Sawyer e il Franti del romanzo Cuore).
Tu spieghi che “la legge dell’inverso del quadrato si applica sia alla gravitazione che all’elettromagnetismo”; inoltre: “l’elettromagnetismo si propaga per mezzo di onde”.
Come la gravitazione, a quanto pare.
Tu sai meglio di me che ogni particella esiste come tale, ma si muove come onda. Secondo Bohr essa è solo quando viene esaminata. Quando si incontra con l’Altro. Quando si mischia al mondo, insomma.
Non hai citato alcuni autori che ho amato, che di certo non ignori. Primo fra tutti è Julian Barbour, savio britannico per cui il tempo non esiste (The end of time, 2000), che lessi in inglese, capendoci quel tanto che bastò per emozionarmi a vita; né, e questo mi sorprende un po’, Lee Smolin (The life of the cosmos, 1997).
Lasciando perdere al momento l’opera scientifica e al contempo magica di Julian, mi limito al secondo (non meno gigantesco, ma più ad hoc, nel discorso), che si collega a Black Holes and Baby Universes and Other Essays, 1993, di Hawking.
Secondo Lee, ogni universo è un animale che produce uova, buchi neri, che diventano bianchi, Altrove, giungendo a creare altri universi. Arriva anche a dire che, maggiormente un universo è capace di seminare tali uova, più facilmente la sua stirpe sopravvivrà.
In altre parole, la materia che viene inglobata in tale singolarità, produrrà un nuovo essere, che anch’esso s’inflazionerà, come è accaduto al nostro cosmo svariati miliardi di anni fa.
La luce stessa viene catturata dal buco nero (oppure la segue?, chissà, va troppo veloce perché glielo si possa domandare).
La forza nucleare forte tiene uniti i quark; quando essi sono vicini, ha un’intensità bassa; quando si allontanano, essa cresce pericolosamente e si comporta come un elastico, che tirato si spezza.
Questo avvicinamento-allontanamento mi ha sempre affascinato. Perché i quark non se ne stanno fermi? Perché, come bambini riottosi, vogliono uscire dal cortile paterno?
La forza nucleare debole fa cambiare il sapore ai quark (un insieme di numeri quantici, la cui complessità esula non solo dal mio articolo, ma anche dal mio cervello). Perché questa variabilità? Cosa la rende necessaria?
La forza elettromagnetica fa andare su e giù l’elettrone da un livello all’altro, sacrificando o acquisendo ogni volta un fotone. Perché non se ne vuol stare tranquillo al suo primo stato? Perché tutte le particelle devono sempre cambiare stato, come se fossero tanti apolidi in cerca di una mai raggiunta cittadinanza?
La gravitazione attira due corpi. Lambda, o quello che è rimasto di lei (appena il 68,3% di ciò che esiste!), l’energia oscura li allontana. Chi vincerà, il Big Crunch o il secondo principio della termodinamica, con quell’infida smorfiosetta che taluni chiamano entropia, misura e al contempo tendenza al disordine cosmico?
Sempre due opposti che sembrano odiarsi.
No. Non amo questo paragone. Preferisco pensare a Giano bifronte.
Se io ti dessi un pugno, magari dopo aver perso a scala quaranta nella piazzetta di Pisciotta, di fronte al Bar Agorà, ti farei molto male, anche se la maggior parte di te è vuota (anche del mio pugno). Solita allegoria tratta dal soccer (essendo tu uno yankee, non uso il termine football): il pallone-nucleo è nel cerchietto del calcio d’inizio. Gli elettroni girano intorno agli spalti. Tutto il resto è vuoto, cioè pieno di nulla.
Quel che mi permette di produrre sul tuo viso un’ecchimosi è la forza elettromagnetica.
Dio la strabenedica. Fiat Lux!
La stessa che mi permette di non precipitare verso il centro del pianeta.
Grazie ad entrambe, ho scritto queste mie esternazioni.
A presto, caro, di avermi illuminato su tante faccende, soprattutto su quelle che ignori, tu e tutti quanti al mondo.
Written by Stefano Pioli
Note
[1] Citazione tratta da “Io e Dio” di Vito Mancuso
Bibliografia
Richard Panek, Il mistero sotto i nostri piedi, Raffaello Cortina Editore, 2020