iSole aMare: Emma Fenu intervista Elisa Pistis, immersa nella fluidità dell’arte

La rubrica “iSole aMare si propone di intervistare isolani che della propria condizione reale e metaforica abbiano fatto cultura, arte e storia ponendosi in comunicazione con il mondo: nessun uomo è un’isola o forse lo siamo tutti, usando ponti levatoi?

Elisa Pistis
Elisa Pistis

Sono l’Isola. Ma sono magica e infinita: non mi puoi cingere tutta.

Non mi puoi spostare, non mi puoi unire alla terraferma, non puoi possedermi. Puoi solo essere accolto, sederti alla mensa del mio corpo di sabbia e granito, mangiare dalla mia bocca le bacche del piacere e della nostalgia, fino a inebriarti, fino ad essere anche tu me. Ed allora ti fermerai per sempre, mi guarderai nelle pupille di basalto immerse nel cielo degli occhi e diverrai pietra.

Sarò la tua Medusa, con filamenti trasparenti danzerò per te negli abissi, ti brucerò di passione e non sarai più libero, nemmeno quando te ne sarai andato lontano, remando fino allo sfinimento, e il mare fra noi sarà un siero diluito con sangue di memoria e con lacrime di speranza.

Tu mi hai toccato, ora ti tendo le mani io.

Tu mi hai baciato, ora cerco il tuo sapore su di me.

Tu mi hai guardato: ora scruto l’orizzonte come una Didone abbandonata.

Tu mi hai annusato: ora raccolgo dalle fauci del maestrale il tuo polline per i miei favi.

Tu mi hai seguito: ora calo un ponte levatoio solo per te.

Tu mi hai atteso, ora ti attendo io.”  Emma Fenu ‒ “L’isola della passione”

Isole Amare.

Terre Femmine dispensatrici di miele e fiele, con un cuore di granito e basalto e capelli bianchi di sabbia che si spandono nel mare come le serpi di Medusa che, secondo la leggenda, un tempo della Sardegna fu sovrana.

Isole da Amare.

Terre Madri e Spose che squarciano il cuore di nostalgia, tirando il ventre dei propri figli con un cordone ombelicale intrecciato di mito, memoria e identità.

iSole aMare.

Sole che scalda e dà vita oppure che brucia e secca, negando l’acqua.

Mare che culla e nutre oppure che disperde e inghiotte, imponendo l’acqua.

La rubrica “iSole aMare” si propone di intervistare isolani che della propria condizione reale e metaforica abbiano fatto cultura, arte e storia ponendosi in comunicazione con il mondo: nessun uomo è un’isola o forse lo siamo tutti, usando ponti levatoi? A questa domanda implicita i nostri ospiti, attraverso parole, note e colori, saranno invitati a rispondere.

La rubrica è stata inaugurata da Paolo Fresu, hanno seguito Claudia Zedda, le fondatrici di LibriamociPier Bruno CossoGrazia FresuCristina Caboni, Maria Antonietta Macciocu, le sorelle Francesca e Marcella BongiornoFranca Adelaide Amico, Anna MarcedduSilvestra Sorbera, Nadia ImperioAnna SantoroSalvina VilardiMarina Litrico, Tatiana PaganoGavino PuggioniGabriella Raimondi, Giuseppina Torregrossa, Francesca Mereu, Francesca Guerrini, Claudia Musio, Paola Cassano, Giulia Baita, Olimpia Grussu, Cristina Muntoni, Valeria Pecora, Graziella Pinna ArconteCarla Mura, Alessandra Derriu, Claudia SarritzuGian Mario VirdisLaura CongiaPaolo MontaldoGiovanna Uccheddu, i fondatori di Sicci Creations (Andrea Mureddu ed Emanuela Carboni), Alessandro CoccoPatrizia Boi, Enzo MugoniFrancesca ColombinoMarco FarinaEleonora GrussuGiovanni CherchiDaniela Orrù, Manuela Congiu ed Anna Fresu.

Oggi è il turno di Elisa Pistis, attrice e drammaturga sarda nata e resa celebre dalla sua interpretazione al femminile di Mistero Buffo di Dario Fo e Franca Rame.

 

Identità

È un concetto molto affascinante, che apre una serie di immagini anche molto diverse tra loro. L’identità personale, caratteristica di ciascun individuo, che in qualche modo ci rende unici e rende unica la nostra storia di vita; l’identità collettiva, per la quale un gruppo di persone si riconosce in un insieme di valori, modelli, convenzioni, modus vivendi. È interessante scoprire come ci possano essere tantissime identità diverse, come si possa avere un rapporto profondo e anche molto conflittuale.

Per non generalizzare e rigirare invece su di me la questione, quindi per esprimere cosa evoca per me, è quasi impossibile per me non collegarmi subito al mio lavoro. L’identità per me ha a che fare con il ruolo dell’artista, personale e sociale.

La mia identità è intrinsecamente legata alla mia scelta professionale. Il Teatro, oltre che un lavoro, è anche una scelta di vita, un modo di essere. Intanto ci si confronta ogni giorno con una instabilità del domani: oggi lavori, hai un progetto, vai in scena, ma sai già che per quanto possa andare avanti, quel progetto si esaurirà e bisognerà trovarne un altro. Il che ha anche degli aspetti positivi: è richiesto continuamente un atto creativo e le giornate raramente diventano uguali o routinarie. Quindi se penso all’identità per me, collego questo concetto a un’immagine fluida, qualcosa che non è fisso, non è cristallizzato, ma può cambiare e cambia continuamente.

Ho a lungo pensato all’identità come alcuni punti fermi che mi facessero dire: io sono così, io mi rapporto così al mondo;  più vado avanti e più mi rendo conto che quella che ero dieci anni fa ora non sono più, le varie “persone” che ho la fortuna di interpretare sul palco richiedono uno sforzo per trovare un punto di contatto con noi stessi, per il quale ci rendiamo conto che in ognuno di noi ci sono moltissimi colori diversi, sfumature, stati, moltissime identità, a volte prevale una ma non significa che l’opposto sia assente.

Perciò negli ultimi anni non vedo una sola identità, se non, come dicevo, quella del ruolo dell’artista. Il resto è un’identità che forse ogni giorno vado cercando e definendo. Un’identità fluida.

Con questo non intendo affatto parlare di genio e sregolatezza, queste sono caratteristiche che non mi appartengono e che sono proprie di altri grandi personaggi che hanno fatto la Storia; paradossalmente nel mio concetto di identità ci sono in effetti dei punti fermi o comunque fondanti: una forte disciplina, fisica e mentale, la preparazione e lo studio che sono costanti, e il riuscire ad organizzarsi da soli, perché spesso non avere un orario, un ufficio, o un superiore, significa che il tuo capo sei tu, significa che devi metterti al lavoro per un tuo atto di volontà.
Ecco in questo senso considero la mia identità con la figura dell’artista.

Parlo di artista in senso ampio, perché mi occupo del Teatro in vari suoi aspetti, per esempio anche come autrice, ma indubbiamente dedico al mio lavoro la maggior parte delle mie energie, inclinazioni e attenzioni: non si stacca mai veramente da questo lavoro, gli occhi sono sempre aperti verso il mondo, anche quando non si sta propriamente lavorando.

Inoltre la bellezza di questo lavoro è anche quella di potersi reinventare continuamente, cambiano le condizioni, cambia la situazione esterna, ed ecco che la ricerca artistica cerca di indagare nuovi strumenti, nuove possibilità, nuovi modi espressivi, e quindi forse anche una nuova identità.

Mi sono molto interrogata negli anni passati sul fare l’attore/fare l’artista o essere un’artista.

Vedi cambia pure l’articolo: l’artista o un’artista. Articolo determinativo o articolo indeterminativo. C’è differenza. Non è questione di unicità. Non sono io l’artista, ma sono una dei tanti , come tanti miei colleghi, che dedicano impegno e ostinazione al loro lavoro, siamo una categoria, siamo tante persone.
Non solo fare, è importante essere, fa parte della propria identità, e penso che se non fosse così radicata come identità, forse non sarebbe pensabile andare avanti ancora con una vita di precariato, di rinunce, di autodeterminazione continua di un ruolo che è ancora considerato inutile, che ancora molti considerano non un lavoro vero.

È dura, e non tutti i giorni sono semplici, ma insomma: se fa parte della tua identità mica ci puoi fare molto no? Chissà magari un domani mi passerà e sentirò di essere diventata qualcos’altro… non so se succederà, non credo, forse, in fondo spero proprio di no!

 

Tradizione

Elisa Pistis
Elisa Pistis

Questa parola mi richiama una serie di immaginari differenti.

Penso alla tradizione del mio luogo di origine: alcune “tradizioni” in Sardegna sono ancora molto forti, radicate e si sono mantenute nel tempo. In questo senso questa parola mi piace, trovo che abbia un’accezione positiva: la tradizione come connessione del presene con il nostro passato, con qualcosa che per forza di cose è mutato ma che conserva alcuni caratteri che sono arrivati fino a noi e ci raccontano come eravamo.

Oppure penso alla tradizione dei nuclei familiari: ogni famiglia ha delle sue “proprie” tradizioni, dei gesti, dei rituali, un lessico, dei momenti che appartengono a quel nucleo familiare, quindi che sono propri di un ristretto lasso di tempo, ma che caratterizzano il vissuto di quelle persone, le quali si riconoscono appunto in quella tradizione.

Per esempio mi viene in mente la frase di un amico: a casa nostra per Natale è tradizione ormai da anni mangiare baccalà! Effettivamente è una tradizione che riguarda una decina di persone tra nonni, genitori, fratelli e sorelle, ma è comunque una caratteristica di quella famiglia e della tradizione che si è costruita.

Oppure la tradizione in termini artistici: l’idea di potersi inserire all’interno di un tracciato, che hanno iniziato a  disegnare gli artisti venuti prima di noi, che ci hanno lasciato qualcosa che noi possiamo afferrare, prendere, fare nostro e rielaborarlo secondo i nostri tempi, proponendo qualcosa di “nuovo”, che poi a sua volta diventerà tradizione e sarà messo a disposizione delle generazioni future, come un filo rosso che unisce tutta l’umanità dalla notte dei tempi.

Allo stesso tempo la parola tradizione mi fa pensare anche a dei risvolti negativi, nel momento in cui la tradizione si trasforma in un’àncora che ci impedisce di staccarci dal passato e andare avanti ed evolverci in una prospettiva di miglioramento. Non sono affatto legata al rispetto della tradizione quando questa comporta una limitazione della libertà di scelta, di autodeterminazione delle persone o diventa un pretesto per scardinare certe dinamiche di potere o di controllo.

Un esempio per tutti: il matrimonio tradizionale che deve rispettare certi parametri, oppure “è tradizione che la donna rimanga in casa e l’uomo lavori”; consuetudini oggi per fortuna superate, anche grazie a chi ha avuto il coraggio di rompere con la tradizione. Fermo restando che ognuno è libero di aderire alla tradizione se è una cosa che sente vicina e in linea con il proprio carattere, ma sapendo che una persona che si voglia distaccare dalla propria tradizione, non debba sentirsi dire “Ehi tu, così facendo non rispetti la tradizione”. Mi piace, dunque, intendere la tradizione come legame con il proprio passato che muta e si arricchisce con il passare degli anni, come filo che unisce ai propri “avi” e non come gabbia, come imposizione, cristallizzata e ferma.

 

Innovazione

Ecco questa è una parola che trovo molto “energica”: porta con sé il sapore del cambiamento, del rinnovamento, del bisogno che abbiamo come esseri umani di non essere sempre uguali a noi stessi, di cercare sempre nuove soluzioni, nuovi modi di vivere. Il cambiamento è una cosa che spesso fa paura, mentre per me è sempre stata un’opportunità. Difficile certo. Perché cambiare qualcosa di noi stessi, andare verso l’incertezza, uscire dalla cosiddetta nostra “comfort zone”, significa mettersi sempre in gioco e non avere sempre tutto sotto controllo. In questo senso però penso sia una parola molto stimolante, un’occasione di crescita personale e collettiva: pensiamo ai momenti storici in cui ci sono state rivoluzioni, in cui un’innovazione tecnologica ha cambiato completamente il modo di vivere, di pensare, ha cambiato i rapporti sociali. Non è sempre stato indolore questo passaggio, anzi, alcune innovazioni rischiavano di essere controproducenti se non utilizzate con intelligenza e cautela, ma quando questo è avvenuto, siamo stati affascinati e aiutati a stare meglio dalle innovazioni (penso banalmente alle innovazioni tecnologiche).

In ambito artistico, che è un po’ quello al quale non posso fare a meno di pensare, le innovazioni vanno di pari passo con la sperimentazione: mi interessano molto le innovazioni intese come la possibilità di creare nuovi linguaggi, di aprirsi a una ricerca artistica che possa coinvolgere nuovi mezzi espressivi, figure professionali e campi di applicazione che non nascono con finalità artistiche, ma che possono contaminare il mondo dell’arte, arricchirlo, suggerire nuove modalità di parlare al pubblico, nuovi temi da affrontare e che contribuiscono ad alimentare e implementare un’intelligenza collettiva.

 

Isola

Impossibile, penso per la stragrande maggioranza dei sardi, non pensare alla “nostra” terra. Ho vissuto a lungo fuori dalla Sardegna, e ancora oggi vado e vengo, restando lontana da casa per diversi mesi. Mi sono sempre sentita fortunatissima ad aver passato i primi vent’anni della mia vita in Sardegna, in particolare vicino al mare, fonte per me di benessere e di grande ricchezza interiore. Tuttavia ad un certo punto ho sentito il bisogno di andarmene, di oltrepassare il confine, di provare a vivere in un posto diverso da quello che riconoscevo come casa. Inoltre il peso e i limiti dell’isola si sentono, in termini di mobilità, di trasporti, di opportunità che ovviamente non sono paragonabili con quelli delle grandi città. Anche in questo caso, la medaglia rivela la sua doppia faccia: ci sono i pro e i contro di vivere su un’isola.

Quello che ho notato è però che mantengo con l’isola un rapporto ambivalente: non me ne sono mai andata davvero e allo stesso tempo non ho ancora scelto di restare. Mi piace passare lunghi periodi in Sardegna, mi rigenera, mi sento bene all’idea che il fazzoletto di terra su cui mi trovo sia completamente circondato dal mare, ma allo stesso tempo dopo un certo periodo ho bisogno di andare in un posto completamente diverso, meno “isolato”, più affollato e a volte anche più caotico, per poi tornare nuovamente all’isola, e poi riandarmene di nuovo per un periodo.

Quindi forse una situazione alimenta l’altra: l’isola è un luogo di meditazione, di ascolto, ha un’energia più riflessiva, come sensazione intendo, ma ha anche un confine molto preciso, che a volte sento il bisogno di rompere e di oltrepassare. Isola è anche spinta alla scoperta, a quello che c’è oltre. Isola è origine, sono le mie gambe, che hanno voglia però di peregrinare un po’ in lungo e in largo, per crescere, per capire meglio chi sono, e poi per ritornare, come ha fatto Ulisse.

Certo lui ci ha messo vent’anni per tornare e ha dovuto affrontare delle imprese eroiche e disperate, ecco io magari non sarei in grado di avere quella resistenza e forse anche quelle capacità di cavarmela in ogni situazione,  quindi spero di non dovermi trovare a combattere contro un ciclope o di non dover restare così a lungo senza tornare in Sardegna,  ma metaforicamente, in linea di massima, è un po’ così che sto indirizzando la mia vita, un continuo andare alla scoperta di nuovi luoghi. In effetti la natura del mio lavoro mi porta a viaggiare in lungo e in largo, sperando alla fine, magari in tarda età , se ci arriverò, di riuscire a tornare e ricongiungermi con la mia amata isola, finché morte non ci separi.

 

Written by Emma Fenu

 

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