Le métier de la critique: libertà e costrizioni della scrittura creatrice
La scrittura crea (e ricrea). Che cosa, se non l’illusione?
Dall’alba dell’uomo, essa ha svolto un ruolo importantissimo, anche se non oscuro. L’opera maggiore di Borges, “Finzioni”, sembra invitare alla comprensione del mistero.
Il destino di ogni uomo, qualunque uomo, buono o cattivo che sia, dotto o ignorante, ricco o povero, si rispecchia nei versi di Salvatore Quasimodo:
“Ognuno sta solo sul cuor della terra
Trafitto da un raggio di sole
Ed è subito sera”
Il primo verso è discutibile e vero solo in parte. Ma è terribilmente espressivo. Dice una parte della verità: che ogni ente è separato dall’altro. Ma sottace l’altro pezzo della questione: che è al contempo unito, l’uno all’altro, al suo prossimo, come i neuroni sono collegati fra loro dalle sinapsi.
Siamo distinti e coinvolti tra di noi al medesimo tempo. Siamo in fuga l’uno dall’altro, e sempre alla sua ricerca. Necessitiamo di libertà e di costrizioni. Non si parla forse delle catene dell’amore, da cui ognuno teme di essere sciolto?
E come potrei qui sottacere il mito di Orfeo, che causò, non si sa quanto inconsciamente, la perdita definitiva di Euridice, per poterla cantare con più libero estro; e quello di Tristano e Isotta, in cui la vicinanza turba gli amanti, quanto la lontananza li fa disperare. E quanta verità e quanta finzione coesistono in “Vita nuova” di Dante e nel “Canzoniere” di Petrarca?
Il secondo narra che la vita è fatta di incidenti, positivi e negativi, che trafiggono, conferendo gioie, dolori, imbarazzi e anche brevi allegrie: causando sempre nuove emozioni. L’alternativa è ancora peggiore, e si tratta del raggio più frequente, che ci avvolge, come un boa costrictor, nella noia d’esistere.
Il terzo tratta del destino finale, chissà?, di ognuno di noi. Si sorge, ci si pone al centro dell’orizzonte, in alto o dove si riesce, e poi fatalmente, si declina. Il tramonto che, a Pixuntum, verso settembre, quando l’aria è tersa e secca, accade per un miracolo continuo e mutabile, attimo dopo attimo, e ogni sera diverso, conferisce una specie di eternità al declino dell’astro più amato: che è il Sé, non il Sole!
Poco fa usai il verbo narrare: in “Lingua di Falce”, Gavino Ledda scrisse che in sardo lo si usa comunemente nel dire: “ita mi narrasa?”, “cosa mi vai dicendo?”
La scrittura, ma vorrei ancor più restringere l’osservazione: la parola narra.
Che essa sia nata, come si narra, dal goffo tentativo da parte degli uomini afarensis di imitare il cinguettio degli uccellini, mi pare una bella parabola, ma da allora sono stati compiuti passi da Titani.
Dai popoli mesopotamici, da quello dell’antico Egitto, dalla nostra comune madre Grecia, dall’opulenta Roma in poi, l’uomo è stato capace di realizzare monumenti verbali che paiono quasi infiniti.
Esiste anche la selva semi sconosciuta delle opere di altre civiltà, come ad esempio la letteratura giapponese. Sto leggendo da due mesi “La storia di Genji” di Murasaki Shikibu, mirabilissima opera del primo decennio del secolo XI, che è una sorta di “Alla ricerca del tempo perduto” scritta mille anni prima.
L’uomo è sempre una meraviglia pressoché incomprensibile, un bieco produttore di entropia che, per qualche alchimia esoterica, ha saputo creare mondi alternativi, in cui è così bello immaginarsi di vivere.
Perché è assurdo essere razzisti? Perché noi sette o otto miliardi di bipedi implumi ci assomigliamo tanto nei nostri difetti più nefandi, quanto nelle qualità più splendide, mentre è nella vita quotidiana che differiamo, nelle nostre effimere micro-abitudini: ma siamo tutti ugualmente, orrendamente e mi(se)rabilmente uomini.
L’uomo ha sentito il bisogno di dipingere, sulle pareti delle caverne, gli animali che avrebbe cacciato. L’arte pittorica nacque da una necessità sociale, e fu fondata da un intento magico-propiziatorio. Ci si illudeva che colpendo con la lancia l’oggetto raffigurato, si prefigurasse la sua cattura.
Analogo, pur spregevole, intento si collega ai riti della macumba: si maltratta l’immagine della persona da colpire, augurandogli analogo trattamento nella sua esistenza reale.
Lo stesso vale per la scultura e financo nell’architettura. Quando andavo con mia moglie a messa nella chiesa dedicata a “San Prospero”, in Piazza Piccola, a Reggio, durante il rito dell’Eucarestia, verso mezzogiorno, casualmente faceva la sua mistica comparsa un raggio di sole, sbucato all’improvviso da un pertugio posto ad hoc sulla parete alta dietro l’altare.
Che Divino Caso!
Analogamente, io intuisco che la letteratura (come tutte le altre arti) sia nata con un intento propiziatorio. Quando un autore canta la sua amata, crede dentro di sé che quel verso sia un passo essenziale da compiersi nel tragitto che lo condurrà alla sua conquista.
Si dice che il genio sappia sublimare la propria angoscia. Non sempre ci riesce, ma ogni volta ci prova. Da qui nacquero capolavori come “Il processo” di Kafka, “Viaggio al termine della notte” di Celine, “L’uomo senza qualità” di Musil, “L’idiota” di Dostoevskij, “Dissipatio H.G.” di Morselli, e potrei continuare all’infinito.
Esagero, come mi capita spesso: ogni libro, anche quelli scritti da autori che vengono bollati come commerciali, è un crogiolo di fisicità e di meta-fisicità. La finzione scritta diventa fatalmente il prodromo di un presagito miracolo.
La scrittura crea. Ma anche ricrea. Me ne sono reso conto leggendo i due libri di Iroso “Napoli sfregiata” e “Lo sgoverno d’Italia”, che narrano dall’infausta invasione e dell’ancora più tetra dominazione sabauda, e lo fanno con il massimo rigore storico.
Iroso, a dispetto del cognome, è persona assai affabile, ma che non disdegna l’utilizzo di espressioni forti, estremamente realistiche e icastiche, per raccontare (e riprodurre, come se fosse un film) quel che storicamente avvenne. Il suo stile, caratterizzato a tratti da toni alti, è quello più indicato per ri-rappresentare quel che è sepolto nei meandri fumosi della Storia (questa ipocrita fabbrica d’angherie). Una scrittura più blanda non aiuterebbe a capire la nefandezza occorsa in quegli anni vigliacchi e rovinosi.
Sempre recentemente, ho letto le bozze di un libro di Aniello Milo che si intitolerà probabilmente “Cronache da Ferroponte”, e che narra di gente e di fatti avvenuti nella Terra dei Fuochi. I nomi, quello del paese e forse anche delle persone, sono leggermente mutati; i fatti sono stati resi in modo letterario.
Lo scopo di Milo è di salvare il salvabile: la sua pur scomoda e a volte tragica memoria.
Quando scrivo la mia realtà, qualche bugia io ce la infilo, a mo’ di concia, come fa il carnezziere (come dicono a Trapani, e chissà perché non ho detto macellaio, o beccaio, o bucciere, o mucciere, o p’cher, o butcher, o boucher), per insaporire il trancio di carne per arrosto. Scrivere è fingere parzialmente una verità sacrosanta: la propria.
Per questo invito il mio onestissimo amico Silverio, quando scrive, di dimenticare, almeno un po’ la sua correttezza e bontà, qualità che io tanto ammiro in lui. Quando si crea occorre una, pur perigliosa e colpevole, solitudine. Si scrive perché si è soli e, insieme, immersi nel Tutto.
Vorrei infine aggiungere l’ultima verità, o finzione, a dir si voglia: tutti i poemi sacri, su cui si fondano le religioni umane, si basano su una, pur arcana e ormai incontrovertibile, simulazione, che ha attinto nell’imo dell’animo umano.
E per questo, caro Riccardo, che da anni uso l’espressione, così invisa da te, di “religione dell’arte”.
E in essa risiede ogni volontà escatologica: per me, come per Luigi e per Aniello, narrare è salvare dall’oblio. E scrivere è, almeno in modo impercettibile, un mistificare la realtà, al fine di renderla, per qualche misterioso arcano (in cui io credo quia absurdum), magicamente eterna.
Una tiepida sera, in una bettola di Mergellina, il caro John, placidamente assiso su una scranna di legno, davanti a un piatto di ragù, nel sorseggiare, con flemma londinese, il suo Lacryma Christi, mi disse, ammiccando: “A thing of beauty is a joy for ever…”
Prosit!
Written by Stefano Pioli