“Fatti veri” di Ivano Marescotti: il dialetto, la lingua avita
Caro Ivano, ho letto in un giorno solo il tuo libro e, come si suol dire, non mi è uscita l’ernia a farlo (a me mia gnu fora l’ernia), essendo lungo poco più di un centinaio di pagine.
Mi ha molto interessato la parte iniziale, in cui hai affrontato il tema del dialetto, che è la tua lingua avita, che tu conosci, come dici, ancor meglio dell’italiano.
A me non è andata così. I miei parlavano tra loro in reggiano e con me in italiano. Nella scuola media che frequentai, era vietato parlare in vernacolo: c’era anche un cartello che indicava la proibizione. Cinque anni fa morì mia madre e da allora ho cominciato a raccogliere, in un testo che è al momento solo mio, i detti che lei mi diceva spesso, e che erano ricchi di saggezza: il più bello dei quali è “Pianser fa tri e reder fa tri!”, piangere e ridere fanno tre entrambi, quindi è meglio… tornare a parlare del tuo libro.
Era solo per dire che non è sempre vero quello che tu dici, che chi non parla in dialetto con spontaneità, lo fa per snobismo culturale. E che non si può sbagliare nel parlare in dialetto. Si può, se a farlo è chi, come il sottoscritto, è una specie di Ius Soli reggiano, a cui fu inibito nell’infanzia l’uso della madre lingua.
In maniera tardiva, io lo faccio, non perché lo sento come la mia lingua, ma per una misteriosa necessità mia, interna e umana.
Il tuo racconto non mi convince, eppure riesce a divertirmi.
Dai molto l’idea delle cose che vai narrando, ma c’è qualcosa che non va nella tua scrittura.
Innanzitutto i dialoghi: troppo pochi e non sempre memorabili. Le avventure narrate sono snocciolate l’una dopo l’altra secondo un ritmo troppo frettoloso. Però mi arrivano in un qualche modo.
Ad un certo punto mi sento insieme a te e a st’ombrosa silfide, in st’ostile camping turco, a barcamenarmi in certe situazioni stressanti e ambigue. Ripercorro ora con te l’autostrada che, dal Veneto, ti riporta a casa con delle damigiane colme di vino (e me lo immagino biondo come un cherubino), con i penosi inconvenienti che riferisci a quei copertoni raffazzonati e lisi.
Normalmente non sono preso da grandi patemi, quando mi tocca fare qualche centinaio di chilometri per giungere a qualche località, poiché non ho paura di incidenti o di colpi di sonno o di quant’altro. Temo unicamente un guasto meccanico o lo scoppio di un pneumatico. Io temo per lo penumatico, forse sarà che non amo troppo quest’articolo lo, che mi pare assai meno facilmente sostituibile di il!
Finalmente siamo arrivati, spero!, anche se non lo si arguisce troppo dal tuo racconto. C’è però qualcosa che non va, per cui la tua narrazione difetta sempre di qualcosa.
Che sia un problema di stile? Poi credo di capire. Quello che sto divorando, non è né un racconto, né un miniromanzo. Lo sai, no, qual è la differenza, almeno per me, fra i due generi?
Nel primo, il personaggio principale, che può essere, come nel tuo caso, un io narrante, ma non necessariamente, comincia a una qualsiasi ora del giorno a compiere un’azione, ad esempio un viaggio. Alla fine del racconto o è arrivato o è morto. C’è una via di mezzo: rimane a piedi, che è, come ti dissi, la mia eterna fobia. Però, di una cosa si dev’essere certi: alla sera, se non è morto, o ricoverato al pronto soccorso, va a coricarsi, non appena finito il racconto. Insomma, una volta cessata la narrazione, essa non riprende poco dopo, in un altro capitolo, con una semplice svoltata di pagina.
Ricordati quello che scrisse Charlotte Brontë (anzi, Jane Eyre): “Un nuovo capitolo in un romanzo è come un nuovo atto in una commedia; e nel momento in cui io alzo il sipario…”
Si assiste in tal caso a una soluzione di continuità che manca nel racconto, breve o lungo che sia.
Questo per dirti che quanto ti sto dicendo può essere oggetto di critica, perché la classificazione dei generi lascia sempre il tempo che trova.
Ma quando il protagonista va a letto e una pagina dopo, altrove, si alza, beh, quello per me è un romanzo. Ecco che, se voglio essere coerente con quanto finora detto, il tuo è dunque un romanzo!
Poche balle! Lo è e basta. No. Non lo è affatto.
Ho talvolta sorriso, talvolta riso, talvolta mi son grattato la testa, talvolta mi sono commosso. Ma il tuo libro non appartiene al genere romanzo. Perché “Fatti veri” non è del tipo narrativo.
Cos’è allora? Tu cosa sei?
Da quando hai recitato, un po’ farfugliando, ma assai meglio del tuo predecessore, in quella commediola per bimbi?
Da allora, cosa sei? Sei uno che agisce. Sei uno che compie atti. Sei un attore.
Quello che ora sto fissando, tenuto aperto su questa scrivania, dove sto tessendo le tue lodi (lodi strane, in effetti), non è un’opera di narrativa. È un copione teatrale. È una scrittura scenica, direbbe il mio amato Carmelo. Fa conto che a me è interessato un tot, ha divertito un tot, ha emozionato un tot, ha coinvolto un tot. Se un giorno, magari riadattandolo un tot, dipende da te quanto tot, lo porterai a teatro, io non verrò a vederti.
Io correrò per essere certo di accaparrarmi un posto in prima fila e da lì ammirarti.
E sono certo che il nuovo tot sarà molto più tot di quello che è entrato dentro di me, oggi, leggendoti.
Un’ultima cosa: anch’io reputo “Se questo è un uomo” un libro che può cambiare la vita al lettore.
Un corto, ma immenso romanzo. Un capolavoro, per cui, a mio parere, Primo Levi meritava il premio Nobel.
Ma quell’opera meravigliosa deve rimanere racchiusa in quell’esserino ricco di cellulosa, che, ogni tanto, teneramente si sgualcisce o si macchia, e che riprende una nuova vita solo allorquando qualcuno lo riprende in mano, lo scorre, lo legge, e, solo in tal modo, lo vive.
E lui, autore e lettore vivono insieme (coinvolti per sempre).
Un analogo processo avviene a teatro.
Che si celebra in quel luogo sacro, il Teatro, dove attori e pubblico s’intersecano, magicamente.
A presto, caro.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Ivano Marescotti, Fatti veri, Whitefly Press, 2019