“Il paese delle croci” di Gianfranco Cambosu: nel sottosuolo dei cattivi sentimenti
Definizione di noir della Treccani on line: “Nella critica cinematografica, e subordinatamente letteraria, opera caratterizzata dalla presenza di scene violente, trame criminose, atmosfere inquietanti”. Nell’ultimo libro di Gianfranco Cambosu tutto questo c’è, però fa male. Straccio la definizione ufficiale, pure autorevole e così centrata, e ne faccio coriandoli. Il libro noir fa male. Adotto questa classificazione: se è noir fa male. Colpisce dentro e fiacca la speranza. Mette subbuglio, mette agitazione, ti fa soffrire, poi apre uno spiraglio a una flebile riappacificazione, ci potresti quasi credere, ma la grazia non arriva. È anche vita vera. È noir.

Usciamo dalle definizioni per dire che quando succede tutto questo è un libro che ha fatto centro. È un libro che ha suscitato forti emozioni e le ha messe alla prova dei fatti. Gianfranco Cambosu nel suo Il paese delle croci (Emersioni 2019) riesce in questa impresa. Si sporca le mani con l’inchiostro nero e disegna una storia che scende mano mano nel sottosuolo dei cattivi sentimenti.
È un noir perfetto in questo, che ti prende, ti appassiona, e ti trascina nelle cantine buie dell’animo umano. Stai lì con i sentimenti forti, spesso molto duri, che l’autore ti accende con maestria, e ne esci quando chiudi l’ultima pagina pensando che nella vita c’è anche questo: c’è anche il nero che fa male.
Allora ti chiedi dove sia la salvezza, e ti accorgi che la salvezza sta proprio quando chiudi il libro e ritorni da te. Sta esattamente qui il segreto e il grande valore insieme di questo romanzo, che ti perdi dentro tutto quel nero, soffri in quelle sensazioni così dure, ma ne esci facilmente dopo l’ultima pagina. Ti sorprendi e ti accorgi subito che così l’autore ha esorcizzato il male. Ecco il trucco. Con un grandissimo lavoro giocato di fino Cambosu ha convogliato tutto l’inquietante nelle pagine, e lo ha sigillato lì, lasciando libero il resto, e coccolando il lettore nella sua area di salvezza.
È un gioco psicologico che solo i maestri del noir riescono a gestire così magistralmente. Ecco perché considero Il paese delle croci l’opera più matura del nostro scrittore di Nuoro. Un romanzo che, prima ancora di essere pubblicato, si è distinto come finalista nel prestigioso Premio Alberto Tedeschi, ma anche nel Premio Giallo Luna Nero Notte e nel Premio Licanias.
La struttura parte subito con tutti gli elementi ben congegnati. Siamo negli anni Settanta quando un professore siciliano di lettere, Ercole Cassandra, contraddittorio persino nell’ossimoro del suo nome, va a insegnare in un paesino dell’entroterra sardo. Un paesino qualunque, unico, ma riflesso autentico di tantissimi altri. Lo stesso paesino dove quindici anni prima è stato assassinato suo padre, capitano dei carabinieri. La ricerca ossessiva della soluzione dell’omicidio lo porta in un mondo rarefatto, dove prolifera un traffico di bronzetti nuragici, a qual tempo un ricchissimo mercato illecito molto fiorente in Sardegna. Ma le sue indagini lo portano a confrontarsi con gli ambienti più inquietanti: da un’incontro quasi logorante con una seducente quarantenne, a un’avventura rivelatrice in una casa di appuntamenti, fino agli strascichi di una violenza di gruppo.
La storia procede nella nebbia, cercando di squarciarla, puntellata da personaggi che più sono in alto più sembrano avere brutti conti in sospeso col passato.
La stessa ambientazione in un paese dell’entroterra sardo, Sas Ruches, nome di di fantasia che vorrebbe dire “la croce”, in realtà lo vedo come un simbolo portante di tutta la storia. Il piccolo centro abitato sembra quasi un personaggio autonomo che Cambosu utilizza per rappresentare tutto l’oscuro dell’animo umano. Sas Ruches è geograficamente nella parte più oscura della coscienza di ognuno di noi. È in quel desiderio di celebrare il male senza restarne coinvolti emotivamente. È in quelle pulsioni inconfessabili, ma reali, che riusciamo a dominare. Ecco, per una volta diamogli libera stura, ma restiamo in una zona franca. Nella lettura si può essere malvagi senza esserne contaminati. Un grande lavoro di noir psicologico. Con lo studio di tutte le anime dannate che sembrano concentrarsi a Sas Ruches.
«In questo posto ci si odia e si uccide come se il resto del mondo non esistesse, come se voi non ne faceste parte. Che persone siete?», si chiede sconsolato il protagonista.
Anche la scuola in questo oscuro paese diventa una scuola al contrario, dove non si cresce nella coscienza, ma si convogliano sentimenti negativi.
L’ora d’ingresso delle lezioni è sondata da Cambosu come con una telecamera: “Qui ci sono il solito trambusto e le solite simmetrie ben collaudate nel tempo. Le più esagitate sono le colleghe. Armate di borse di pelle, si fanno davanti con menti sollevati, pettorute più di quanto lo consentano le coppe dei reggiseni. Gli altri hanno facce di insegnanti di tecnica e di artistica, sempre un po’ appesantiti e disincantati, sempre inclini alla battuta oscena. Si muovono con una lentezza da ingorgo stradale in mezzo al traffico di bidelle, segretarie e applicate. Gli alunni invece hanno quel modo di scansare gli ostacoli a qualunque velocità che li rende simili a schegge”. Per dirla come la vede il professore siciliano.
Io non ho mai incontrato professori così, e sicuramente neppure Gianfranco Cambosu, docente anche lui, che però è riuscito a disegnare delle maschere malefiche dipingendole con l’inchiostro nero. Sapientemente ha saputo creare il danno dove meno te lo aspetti. Un assassino cattivo non avrebbe lasciato uno strascico così scuro dentro di noi, come invece fa un professore cattivo. E il noir è servito!
Lui in una bellissima intervista, curata da Alessia Mocci su queste stesse colonne, parla anche del carattere duro e impenetrabile della Sardegna, come primo nucleo aggregatore della storia, rivelando: “Tra le mie fonti di ispirazione al momento del concepimento della storia c’era stata la riflessione sulle 39 lettere di papa Gregorio I in cui si parla di due Sardegne: una cristianizzata e romana e una interna abitata da popolazioni idolatre e pagane. Solo nel 594 il dux Ospitone, che governava nella parte interna, aveva potuto convertire i Barbaricini al cristianesimo. Però c’era voluto un patto tra quelli e i Bizantini. Insomma ho lasciato al lettore altre eventuali interpretazioni. Una potrebbe essere la violazione di quel patto alcuni secoli dopo”.

Però parlando della scrittura mi devo anche contraddire, perché se è vero che con la struttura l’autore abita perfettamente dentro casa noir, con lo stile imbroglia un po’ le carte. Infatti la sua alta cifra di scrittura non si lascia imbrigliare dentro i canoni dello stile da giallista, dove ci aspetteremmo una scrittura asciutta, con tanto movimento e niente fronzoli. Nella narrazione delle indagini si usa spesso una scrittura di servizio, che scorre sulle indagini ombrose. Mentre Cambosu esce dalla comodità delle vecchie regole e ci regala una bella scrittura, densa e ricca, centrale per il genere mainstream (così detta letteratura d’autore e non di genere), ma che normalmente sdegna il noir.
Una cosa diversa da un giallo ben scritto, come per fortuna spesso se ne trovano.
È proprio sulla scrittura che l’autore imbroglia i generi. Perché tra le sue pagine troviamo quello stile alto con le immagini retoriche, la ricercatezza introspettiva, e le metafore che si appoggiano sulla fantasia del lettore, tipiche del romanzo di narrativa pura. Così in pratica ci immergiamo in un bel giallo, vestito elegante dalla scrittura di spessore.
A questo si aggiunge la cura con coi Cambosu ha disegnato tutti i personaggi. Ne ha tratteggiato le fisionomie e li ha dipinti con tutte le nostre manie. Nostre, perché l’autore parla di noi, in particolare di noi sardi, fuori dai luoghi comuni, ma dentro la nostra tipicità. Così gli atteggiamenti, le frasi con la matrice dialettale, i gesti, e quell’essere spavaldi ma incantati, è preso direttamente dalle nostre strade, dai nostri ambienti tipicamente isolani.
Con qualche ambiguità in più per i personaggi femminile che, come ha dichiarato sempre nella stessa intervista per Oubliette Magazine: “Se c’è una componente volutamente ambigua all’interno della mia storia è il ruolo della donna. Placida, gioviale, remissiva in apparenza, è in effetti risoluta e decisionista. Senza voler scomodare il matriarcato in alcuni centri della Barbagia, che è qualcosa di più complesso e profondo, ho voluto tratteggiare in senso introspettivo alcune donne che hanno subìto ma hanno scelto di non piegare il capo”.
L’autore quindi ha saputo giocare sulle nostre caratterizzazioni comuni, ma non scontate, senza assolvere né condannare. Non è dello scrittore esprimere giudizi; lui deve raccontare. Anche in questo, quindi, rompe gli schemi di genere, come lui è solito fare.
A noi spetta il compito di immergici in questo mare profondo, nero, sapendo che troveremo ondate paurose e bonaccia inquietante, forse anche squali, ma certamente una rotta verso una salvezza.
Written by Pier Bruno Cosso
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