“La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne: l’importanza di mostrare agli altri il lato peggiore
Nell’esistenza umana, due, fra mille altre, sono le condizioni che mi appaiono inevitabili.
Quando sei ad Amalfi e sono le sette e cinquanta e devi pigliare il pulmàn che ti porta a Salerno, vedi giungere da ogni dove parecchi mezzi con su scritto Amalfi, che è l’abituale capolinea.
Un turista inesperto, che fa?, ne vede uno fermo e si reca a chiedere: “Va a Salierno?” e la risposta è, ovviamente, “No!” Ne vede transitare un secondo e appena esso si quieta, si approccia e replica la richiesta: “Va a Salierno?” e la risposta è sempre uno scontato: “No!”
L’involontario gioco dura un po’, ma non all’infinito, finché arriva un pulmàn (l’ultimo per chi parte, non per chi resta) e alla consueta domanda l’autista dondola appena, in senso verticale, il proprio viso.
Ma uno, poi, mica si fida di quel linguaggio non verbale e soltanto abbozzato e non riesce a esimersi dal ripetere ai passeggeri già sistemati: “Va a Salierno, vero?” e la risposta è spesso un coro belante di sì. Poco prima della partenza, l’autista accende il motore e poi, inaspettatamente (se sei un turista occasionale), scende, permettendo così a quel variopinto popolo di fuggiaschi di obliterare il biglietto che, qualora la macchinetta non funzioni, verrà poi catarticamente (quasi sacralmente) tranciato a mano dall’autista.
Il quale, nel frattempo, con partenza prevista alle 8, alle 7,58 si appiccia una sigaretta, finisce le ultime due chiacchiere coi colleghi e alle 8,02 risale in tutta fretta: e qui s’inizia l’avventura dei dannati. Ma, occhio!, stamattina il tipo non ha fumato (forse smise ieri sera) e il torpedone ha preso l’abbrivio alle 7,59. Al che un’Ostrogota del nord, o forse Cimbra, se non Sassone, si precipita verso l’autista e grida come un’ossessa: “My husband! My husband is down!” Al che il tipo ci ride su e apre in souplesse la portiera all’husband down che in tutta cardacia è mo’ trasuto ‘n coppa a ‘o miezzo! Ce l’ha fatta!
“A Res as dis, quand e mor quelchidun, che l’è steda n’improviseda”. Così dicono a Reggio quando muore qualcuno: una sorpresa inaspettata. Ma Dio, sostiene Bell, gioca a dadi col cosmo, finendo sempre col barare. Il caso è sempre cogente necessità. A chi tocca, tocca.
Dopo una lenta circumnavigazione della piazzola, il viaggio prosegue sereno e ogni anima sta comodamente assisa sul suo seggiolino.
Morale della favola: è inutile attendere il momento della partenza, essa arriverà quando parrà a lei, di rado in anticipo sull’ora che lei stessa t’aveva promesso, più spesso in tenue ritardo. Nulla è più aleatorio ‘n coppa a ‘sta terra dell’uscita di scena definitiva.
Partire è un po’ morire, figuriamoci restare in trepida attesa. Di che? Dell’eternità? Il segreto della vita è saper aspettare con animo sereno il momento giusto per ogni accidente. Ad Amalfi, in Piazza Flavio Gioia, prima o poi spunterà dal nulla la scritta Salerno su uno dei tanti pulmàn presenti nel parcheggio. Solo allora avrà senso salire sul mezzo.
La seconda condizione umana, se non vi lascerò prima, lasciandovi di stucco, la dirò alla fine, e si acconcia, più che la prima, alla disamina del libro che sto ultimando di leggere: “La lettera scarlatta” di Nathaniel.
La bostoniana Ester Prynne è stata condannata per (A)dulterio, per cui, evitata per un pelo la gogna, è stata condannata a portare sempre sul seno una scarlatta lettera A, da lei stessa ricamata sulla camicia, da cui non deve separarsi mai, nemmeno quando dorme. L’anziano marito, scomparso misteriosamente (era stato fatto prigioniero da una tribù di pellerossa) ricompare, mantenendo l’incognito, e scopre che la moglie sta crescendo una figlia avuta con un altro. Ormai è vecchio, stanco e reso perfido dalle sue disavventure.
Il comportamento della donna, che evita il prossimo e non dà adito a nuovi scandali, ha creato intorno a lei un’aura quasi di santità, che la gente riconosce e finisce per stimare. Intanto il marito, che è l’unico a cui la donna confessa il nome del correo, va ad abitare con quest’ultimo, con l’animo di vendicarsi, ma intanto si prende cura di lui, che vive in uno stato di prostrazione fisica e psichica.
La prima reazione significativa l’ho nel leggere il capitolo XVI, specificatamente la più poetica immagine del libro:
“Poco lontano da loro un ruscelletto scorreva in un botro tra due rive coperte di foglie morte…” e, più avanti, la descrizione si fa più allegorica: “E alberi e sassi sembravano messi lì a soffocare la vita di quel ruscello per paura che esso potesse raccontare i segreti della foresta o mostrare in ogni suo stagno, chiaro come in uno specchio, le immagini degli…”
“Ma il ruscello nel breve corso della sua vita fra gli alberi aveva appreso tante e così gravi…” Di fronte a tanta ammutolente desolazione, Perla, la figlia del peccato, ormai settenne, non può esimersi dal domandare: “Che dice, mamma, quel ruscello così triste?” Solo chi ha tanta pena nell’anima, può capirlo, le dice Ester. Perla inizia a cantare, senza un perché, che alla sua età innocente non serve. “Ma il ruscello non voleva saperne di essere consolato, e continuava a raccontare di chi sa quale suo segreto impenetrabile e a lamentarsi, come per intuito profetico, di qualche sciagura che stesse per accadere.”
Nel capitolo successivo i due ormai antichi amanti s’incontrano dopo che tant’acqua è corsa via da quel ruscello. La donna afferma che non “bisogna volgersi indietro…” perché “il passato è morto. Perché dovremmo fermarci a guardarlo ancora? Vedi? Io lo respingo, lo respingo gettando questo emblema lontano da me.” E così fa, buttandolo con disprezzo tra le foglie, sull’orlo del ruscello: “… come un gioiello smarrito e visibile da ogni passante…”.
Il pastore osserva come pare “che quel ruscello divida due mondi diversi e la bambina non possa varcarlo…”
“Su, salta il ruscello, e vieni qui. Sei agile come un capriolo, tu…” – dice Ester alla figlia, che però “rimane immota di là dal ruscello…”
“… La bambina volse gli occhi dove le accennava sua madre e vide la lettera scarlatta così vicina al ruscello che l’acqua ne rifletteva i bei ricami d’oro…”
Ester avanza verso la sponda e “raccolta la lettera scarlatta, se la rimise sul petto. E le parve di aver riavuto quel segno dalle mani del suo stesso inesorabile destino.”
“E la bambina corse subito verso Ester e prese a baciarle la fronte e le guance…” e poi “… volle baciare anche la lettera scarlatta…”
Il misconosciuto padre sa che, prima di partire verso una nuova vita, farà in tempo a recitare la solenne predica: “… non c’è uomo che a forza di portare una maschera, non finisca per assimilare a questa anche il suo vero volto…”
È sull’orlo della pazzia, pronto a bestemmiare quanto a invocare la propria salvezza, ormai captivus diaboli e pronto alla più bieca menzogna quanto alla più struggente esternazione della verità.
La donna sta preparando sé e il suo derelitto amante alla partenza, quando scopre con orrore che l’ex marito intende accompagnarli fino alla morte, bramoso di vendetta e accecato dall’odio. La donna, che sognava di gettare nello “scrigno misterioso e profondo” dell’oceano la lettera infamante, vede dileguarsi ogni speranza di libertà dal passato, l’unica a cui pare tenere.
Oggi è l’unica giornata dell’anno in cui quei puritani, per tradizione secolare, consentono “al popolo di dare libero sfogo a quel tanto di gioia e di allegrezza che è compatibile con la miseria umana” pur nell’“abituale tetraggine”, che rimane “il carattere della razza”.
Una vecchia le urla: “Ti conosco, Ester, perché vedo il segno sopra di te. Tu lo porti palesemente…”, ma per quanto riguarda quel prete, dice: “… il Maligno, quando vede uno dei suoi schiavi così restio a confessare il legame che lo avvince a lui, come fa appunto il reverendo Dimmesdale, riesce sempre a far sì che quel marchio, tenuto nascosto, un bel giorno si palesi agli occhi di tutti…”
L’uomo è l’unico animale più vendicativo del gatto nero, anche quando è o pare baciato da una luminosa innocenza. La bimba si diverte a minacciare il capitano della nave che l’aveva incontrata perché avverta (“Glielo vuoi dire, streghina?” la mamma della presenza sulla barca di “quel brutto dottore gobbo e dal viso nero”. La bimba, “indispettita, ma ridendo: ‘Mio padre è il re dell’aria…’ e ‘Se un’altra volta mi chiamerai streghina, lo dirò a mio padre; ed egli affonderà il tuo battello con una raffica di vento.’)
Il libro si chiude come il lettore si aspettava da tempo. L’ecclesiastico grida coram populo la sua correità e si strappa le vesti sacerdotali, esibendo sul petto ignudo, con assurda fierezza, la lettera del peccato, la cui origine sarà argomento di chiacchiere pietose e impietose per anni, per secoli, e che saranno tramandate a chi scriverà e leggerà il romanzo. Unica luce in tanta penosa oscurità: “Perla lo bacia sulle labbra.” Prima di andarsene, chiede a Ester di non pensare, finché vivrà, ad altro che non sia l’immenso peccato che commisero insieme.
La morale che l’autore ne trae è sorprendente: “Siate sinceri! Siate sempre sinceri. E mostrate francamente al mondo, se non proprio il vostro lato peggiore, almeno qualche aspetto, da cui possa essere notato il peggior male che è in voi.”
Nathaniel non è un romanziere, è un poeta tragico!
Alla morte del suo nemico, il marito della donna, il cui nome è troppo lungo per essere ricordato con affetto, è preso da un lamento doloroso: “Mi sei sfuggito!”
“… tanto l’amante appassionato che il nemico inesorabile si sentono mancare le ragioni della vita, se sia sottratto l’oggetto dell’amore e dell’odio.” Il sogno di Nathaniel è che poi, finalmente ospiti “nel mondo dello spirito il vecchio medico e il pastore, vittime tutte e due della passione, non abbiano sentito trasformarsi in amore il loro sentimento…”. A volte i sogni s’interrompono nel loro momento più assurdo e si realizzano quando scompare tutto il resto.
“Nei giorni che seguirono, non appena la gente ebbe un po’ riflettuto su quel che aveva visto, si formarono le più disparate versioni del prodigio svoltosi quel giorno sul palco.”
La seconda inesorabilità. Sei a Salierno e presso la pensilina attendi il pulmàn che ti reca a casa. Sempre accade che ti sembra d’essere solo o in compagnia di pochi, come lo fosti all’andata. Presto si aggiungono altre persone, ma, tranquillo!, c’è posto per tutti. Dal viale fa capolino il mezzo e a quel punto, da ovunque spuntano nuovi e non ancora disperati turisti, nonché cittadini della piccola repubblica marinara, sempre di più, per cui sai già che dovrai lottare strenuamente e vigliaccamente per la tua piccola e mediocre forma di umanissima escatologia.
Io mi piazzo dietro ai primi, perché riesco spesso, ormai smaliziato, ad essere fra loro. Dietro a me si intrufolano da ogni lato bestiole più esili e predisposte all’azione di insinuarsi. Ognuno ha le sue armi. Una volta accadde che una donna di mezz’età, smilza e invasiva, cercasse di superarmi da dietro, al che io spostai dalla sua parte la mia poderosa schiena, che funse da barriera insuperabile, provocandole uno strepito di disgusto nei miei confronti: “Ma vedi questo che fa!” O io o te, pensai, piccola arrogante!
Succede allora che una parte degli aspiranti passeggeri non riesca a salire. Altri, muniti di ingombranti valige, vengono reindirizzati verso il bagagliaio, e di loro in genere si perde persino il ricordo. Talvolta, poi, sulla strada il pulmàn accelera nei pressi delle fermate, non potendo accogliere nuovi dannati. I sommersi e i salvati, direbbe Primo.
Mai sono riuscito a comprendere quale sia la ragione per cui più numerosa sia la gente diretta ad Amalfi di quanta da lì se ne parta. Un’ipotesi è che… ma, amica cara, te la dirò di persona, quando sarà sarà… E così si prosegue, azzeccati come sardine, fino all’arrivo che, mentre il mezzo affronta le sue gimcane, pare una promessa che in ogni caso, anche nel peggiore, sarà comunque mantenuta.
In quel bailamme capita di fare conoscenza con qualcuno che è originario da qualche punto sperduto del terracqueo globo. Oggi ho conosciuto una coppia di Bergamo, lei fresca pensionata, lui in quiescenza da dieci anni, messo a riposo, mi dice, per lo stato di crisi dell’editoria: era redattore dell’“Eco di Bergamo”. Suggerisco loro, che sono senza bagagli come me, di uscire all’altezza di Piazza Municipio, onde evitare le lunghe manovre di parcheggio del pulmàn.
A Maiori, su mia cortese indicazione, la coppia era riuscita a sedere. Io ero rimasto all’in piedi, come un’alice di menaica, sempre azzeccato agli altri pescetti. Ed è in questa rovente situazione che m’era apparsa la reazione finale al racconto di Nathaniel, il narratore di Salem, Massachusetts.
Ad Amalfi, accada quel che accada, per quanto traffico ci sia, per quanto sia zeppo il pulmàn, si arriva sempre. Il destino è quel che per forza deve accadere. In una società puritana, poteva esserci un diverso scioglimento da quello descritto da Nathaniel? In ciascuna società umana esiste almeno un tabù, sempre di origine umana, giusto oppure no: questo lo giudicherà chi verrà dopo. Il percorso Salerno-Amalfi è di appena 27 chilometri. Oggi il viaggio è durato un’ora e cinquantadue minuti. Avevo avvertito e sono arrivato giusto all’ora di pranzo, quando era stata messa a bollire l’acqua per la pasta. Se avessi tardato ulteriormente, mi avrebbero aspettato. Non ho dubbi a riguardo.
Ripenso a Geoffrey, e alla sua allucinata ed esaustiva disamina della confessione, che termina in modo insopportabile i suoi “Racconti di Canterbury”. E ipotizzo il perché la confessione cristiana debba essere così essenziale per il popolo di quel Dio. Essa è diventata un atto amministrativo che deve essere protocollato e vidimato da un ministro del culto, al quale è riservata l’eventualità di assolvere il reo dal suo peccato. Questo è un illecito sociale, anche quando è rivolta al Dio di cui il popolo è povero armento. Non esiste colpa se essa non è confessabile. Ma la frase diventa, ad una lettura più totalizzante: non esiste colpa che non debba essere confessata. In tal modo l’autorità individua i pericoli che corre la famiglia tanto religiosamente unita.
Un corollario: una giusta pena non dev’essere scevra di castigo. Altrimenti, il peccato diverrebbe un’esperienza gratificante. Non sia mai!
Il tacere rappresenta un abominio. Il reverendo stette angosciosamente zitto per sette anni e si macerò nel suo silenzio, invecchiando prima del tempo e destinandosi ad una vergognosa perdizione. Quando gli si prospetta la fuga liberatoria, egli dapprima accetta, ma poi comprende che dovrà prima sgravarsi del male che ha covato per tutto quel tempo. Non risulta di facile comprensione la misura del suo pentimento, perché esso viene sopraffatto dall’energia distruttiva che è servita all’ammissione del peccato. Quel che conta per lui è l’ostentazione della propria condizione di colpevole di un’infrazione immensa: di aver amato una donna in un attimo di passione erotica.
Cosa c’è di peggio di un Eros esploso all’interno di una società quieta e derelitta?
A Herbert Marcuse l’ardua risposta.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
La lettera scarlatta, Nathaniel Hawthorne, Biblioteca Economica Newton