“Decameron” di Giovanni Boccaccio: l’Uomo che avversa fatalmente se stesso

In Decameron, Giovannin non giudica nulla e nessuno, ma si limita a raccontare la fuga dalla peste nera che colpisce Firenze e mezza Europa.

 

Decameron - Giovanni Boccaccio
Decameron – Giovanni Boccaccio

I fuggitivi sono dieci, sette donne e tre uomini, buoni figli di inclita borghesia fiorentina. È una situazione di privilegio. A pochi chilometri di distanza, il popolo è mortalmente offeso da quel morbo terribile, mentre qui ‘sti borghesucci e mezzi nobilastri narrano storielle, ridono, piangono (per commozione, mai per vero dolore), cantano, carolano, ingurgitano cibo, trangugiano vino e finalmente dormono. Insomma, se la spassano allegramente, in attesa di tornare alle loro case.

Spesso, leggendo i vari capitoli, mi sono chiesto se vi sia simpatia da parte dell’autore per i poveracci, le vittime e i capri espiatori (c’è una media di un perseguitato, disgraziato e infelice e mezzo a storia), o pena, oppure indifferenza. Scarto definitivamente quest’ultima ipotesi, perché trapela da ogni pagina, se non da ogni riga, una sensibilità fuori del comune, da parte dei vari ‘narratori’, quindi, per obbligazione solidale, anche dell’autore.

L’infima gente (la ragazza/giovine di infime condizioni che ama, riamata, il ragazzo/giovinetta ricco, ma il genitore di lui/lei non vuole e, in tali casi miserrimi, spesso, entrambi gli amanti compiono nella morte il loro idillio), dicevo, la plebaglia o è semplice comparsa o fa una brutta fine, trascinando spesso con sé l’amato (e ricco) bene.

Giovannin descrive l’ingiustizia, in genere (non sempre) fa apologhi, ma esalta ogni volta la condizione che ha condotto al risultato complessivo della vicenda. La novella di Giacomina e Ricciardo, la quarta della quinta giornata, rappresenta, contemporaneamente, la regola e una stramba eccezione. Due innamorati si fanno cogliere nudi a letto, mano nella mano, dal padre di lei, il quale non li censura più di tanto, ma intima al futuro genero che deve semplicemente sposarla e il gioco è fatto! Ovvio che Ricciardo “è gentile uomo e ricco giovane”, altrimenti non finirebbe così e le incognite dell’equazione condurrebbero a ben altre soluzioni. In altri casi, succede il contrario, ma poi tutto s’aggiusta, portentosamente.

In una storiella precedente, Martuccio, poverello, s’infatua di Gostanza, riccastra. E il padre non vuole. Alla fine il ragazzo la spunta con un espediente. Quest’ultima parola, indica una costante fissa dell’equazione boccaccesca, il catalizzatore, l’enzima che consente la reazione chimica finale. Con un po’ di furbizia si ottiene tutto e il contrario di tutto. Purtroppo essa viene utilizzata anche dai cattivi, dai malintenzionati e a cascare nel tranello sono per lo più i buoni. Giovannin così li descrive, i personaggi, virtuosi e nefandi, perché non ne può fare a meno. Eppure non sono ancora riuscito a capire se in lui vi sia un intento etico. A volte mi pare di sì, a volte di no.

Nel ‘caso umano’ di Andreuccio da Perugia, quinta vicenda della seconda giornata, il problema è ancora più ingarbugliato. Qui, un fessacchiotto vanaglorioso s’immerda, nel senso letterale della parola, ed è umiliato per tutto l’evolversi della vicenda. Alla fine, però, con un colpo di reni, riesce a riscattarsi e se ne può tornare al paese natio più bello e più ricco di pria!

Il prodigio accade puntualmente, ma per ‘mero’ caso.

Nella peripezia numero sette della quinta giornata, i due amanti Gianni e Restituta, condannati a morte e lì lì per essere giustiziati, vengono liberati e alla fine quasi costretti alla felicità (“lungamente in piacere e in gioia poi vissero insieme”) grazie al miracolo più frequente, l’agnizione all’ultimo momento, il riconoscimento salvifico. Lo stesso meccanismo viene utilizzato nell’episodio seguente e in gran parte delle storie della quinta giornata.

Si tratta di un trucco da insuperabile Prestigiatore, arte e professione in cui Giovannino eccelle.

È sempre il Caso, ovvero, se si vuole, chiamiamolo pure l’entropia dell’universo, il disordine cosmico, il secondo principio della termodinamica, il più infido nemico che occorre ogni volta affrontare. A volte il bene, l’ordine, la ragione, la gravitazione reciproca trionfa, ma è soprattutto ‘lui’, il rio Destino, che ti caccia a pedate dalla scena, senza rispetto e considerazione alcuna. E poi non resta che lacrimare. Oppure ridere a crepapelle. Queste sono le due reazioni, fra loro sapientemente dosate, da parte dei nove ascoltatori alle vicende narrate dal decimo rifugiato.

Giovannin racconta questa sfida, senza parteggiare per nessuno dei contendenti. A volte i ‘buoni’ si salvano e sono re-indirizzati verso il lieto fine, in altre invece soccombono inesorabilmente, specie se sono di tardo comprendonio. Le due soluzioni si alternano, con nessuna apparente preferenza per l’una o per l’altra. Non ho quantificato con precisione i lieti e gli spiacevoli fini. La sensazione relativistica del lettore ha importi finali circa equivalenti. Giovannin svolge il mestiere di Alchimista, che non può che attestare un risultato, la cui logica, nel racconto, è esoterica. Se non è affatto concepibile un cosmo ove domini il prodigio, lo si può comunque inventare e infine narrare.

Il lettore è preparato all’evento dalle frequenti e sperticate lodi, che un po’ infastidiscono il cinico orecchio moderno, e che riguardano per lo più la bellezza, grazia e leggiadria della protagonista femminile, Madonna per caso, ma anche il coraggio, l’abnegazione e la volontà di opporsi all’amaro Fato da parte dell’Eroe, anch’egli tale quasi per scommessa.

Decameron - Giovanni Boccaccio
Decameron – Giovanni Boccaccio

Alcuni particolari descrittivi la dicono lunga sull’empatia che Giovannin prova per alcuni più che per altri. Nella citata novella di Nastagio degli Onesti, l’autore compie alcune finezze descrittive: Guido degli Anastagi è: “un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano”, mentre Nastagio è: “tutto timido divenuto e quasi non avendo pelo addosso che arricciato non fosse”, per la paura, ovviamente. Qui, i due eventi vengono presentati in modo speculare. In uno, l’amante rifiutato muore dal dolore ed è costretto, volente o nolente, ad uccidere sacralmente, per l’eternità, la donna ingiustamente amata. Nell’altro, la storia del primo, commuove e spaventa assai l’attuale giovinetta neghittosa, che alla fine è costretta, essendo presa dal panico, a capitolare. Un fenomeno atemporale, apparentemente antico, quasi per correlazione quantistica, condiziona e trascende uno analogo, illusoriamente moderno, che, perde il suo carattere di fatterello, per assurgere al rango di mito imperituro. Questo è forse il celato fine: inventare un nuovo cosmo, perché chi scrive è deluso e sconcertato da quello in cui vive. Si tratta di un disincanto che conduce a un nuovo, assai più ideale, incanto.

La sesta giornata rappresenta una novità. Le vittime ci sono, ma non intendono affatto sacrificarsi. Anzi, fronteggiano l’avversario. Al Mago Giovannin necessita un breve motto e la scena cambia improvvisamente. Una semplice parola fa sì che la situazione, che tanto pareva turpe, muta completamente l’esito dell’equazione. Il dileggiato irride, l’accusato rimprovera e il colpevole giudica. È una metafora di quanto fittizia sia la nostra vita, fatta di finti convincimenti e di ragionamenti capziosi, che conducono, inevitabilmente, all’apparente illogicità del paradosso.

La settima non mi pare migliore, quanto a intenzioni. Giovannin non giudica, ma certamente si burla della figura del marito che, tutto intento nel suo progetto di vita, si scorda della moglie, la quale ben rammenta le sue esigenze di femmina e, lieta, non si limita a tradirlo, ma non manca di umiliarlo, complice, ogni volta, un uomo alternativo, che ha l’unica fortuna di non esserle sposato. L’ultima novella rappresenta però un’eccezione: non vi sono traditori e traditi, ma gente fiduciosa che nel sesso nulla via sia di male, se non un suo insano disprezzo.

Dell’ottava giornata che dire? Che Giovannin non giudica, ma descrive, al solito, con la consueta ironia. Filo delle dieci storie è il vorticoso e incessante turlupinare, questa volta reciproco, di varie persone, giovani e vecchie che siano, maschili e femminili, virtuose e lazzarone. Homo hominis vulpis, quando non lupus. Questa è l’atroce storia della civiltà umana. E ne è anche la Storia. Perché uno staterello mediocre come quello dei Savoia ha conquistato il ben più esteso Regno delle Due Sicilie? Perché qualcuno ha voluto ciò. Un migliaio di improvvisati ardimentosi? Il concatenarsi casuale degli eventi? La Massoneria inglese? Tutto può essere! Di certo è solo questo: homo hominis iena!

Veniamo ora alla sesta novella. A un tapino di nome Calandrino, già truffato alcune pagine prima, viene imbolato (involato, rubato), dai suoi consueti compagni lestofanti, nonché, immagino scarsi, dipintori, Bruno e Buffalmacco, un porco che egli destinava alla salatura, che serviva a sfamare a lungo la famiglia. I due ladri dapprima lo tentano: “Vendilo, gli dicono, che poi col ricavato ce la spassiamo!”. Calandrino non accetta, sapendo che ne avrebbe dovuto render conto alla mogliera. Quindi, i finti amici lo derubano dell’animale e poi, con penoso stratagemma, comprovano una sua fittizia colpevolezza. Per non denunciarlo, gli estorcono ulteriori due capponi. Questa è la storia, nonché la Storia, della bestialità umana.

I tre personaggi salgono alla ribalta in varie altre novelle. Calandrino riveste sempre il ruolo della vittima, della carne da spolpare, a cui si fanno inizialmente indossare i panni dell’amico fiducioso, che sono ogni volta stracciati dai due impietosi artisti, più che dell’immagine, dello scherzo.

Vittima infamata è l’amicizia, questo folle sentimento che continuamente viene brutalizzato, come lo stesso amore coniugale. Amore e amicizia hanno la medesima derivazione: da kama, passione, desiderio, bramosia. Amare deriva da “ka” (“k-amare”), ed anche dal greco “mao”, “desiderio” istintivo e quasi animalesco. Ad esso Giovannin si riferisce.

Ma non sei tu, caro Maestro, son piuttosto le tue dieci creature salvate dalla morte nera, che ogni volta se la ridono, quando non lacrimano, delle sventure altrui!

La quarta novella della nona giornata è esemplare. Due giovani, entrambi di nome Cecco, malcostumati giovani, uniti dall’odio verso il rispettivo padre, viaggiano insieme. Il più debosciato dei due getta i propri denari al gioco e deruba il compagno momentaneo, perdendo financo i suoi, e poi l’accusa ingiustamente di furto. Anche in questo caso, il meno disonesto vene disonorato dal più truffaldino, nonché privato dei vestiti e abbandonato quasi ignudo, mentre il più delinquente sghignazza. Dei due, solo il buggerato è destinato all’ignominia perenne. Alla fine, è proprio l’amicizia il valore umano più violentato dalla narrazione di Giovannin, a meno che non sia fondata sulla complicità e sul malaffare. In tal caso diventa costante e perfida solidarietà.

La settima novella dell’ottava giornata, fino a quel punto, è la più nefanda. Una donna umilia, al cospetto del suo amante, l’amore di un giovane studente, facendolo quasi morire dal gelo all’esterno della sua abitazione. L’offeso, qualche tempo dopo, avvicina la donna con false promesse, la costringe a spogliarsi, a salire su una torre, e le toglie proditoriamente la scala, imprigionandola, e procurandole in tal modo un’infamia mista ad atroci scottature. Giovannin non giudica ma, in questo caso atipico, in cui il turlupinato diventa turlupinatore, estrae dal cappello una morale da quattro soldi: Attenzione… donne!… non beffeggiate mai un giovane studente appassionato! Il racconto è soprattutto un apologo del continuo e innaturale conflitto fra i sessi, fuorviato dal desiderio erotico. Chi tanto desidera invoca su di sé ogni forma di malefici. Si tratta senz’altro del più orrido e tantrico dei pensamenti! Ma no! È tutto all’incontrario!

Nella storia seguente Spinelloccio concupisce la moglie del suo fraterno amico Zeppa. Il quale lo scopre e, sapendolo nascosto in una cassa, ne concupisce la moglie. Alla fine i due amici e le loro rispettive mogli, una volta attestata la loro bramosia sessuale, decidono di convivere tutti insieme, due mogli con due mariti. Perché Giovannin non giudica, ma canzona un po’ tutti, soprattutto il lettore, il quale però osa chiedergli: “Come mai, Giovannino mio, non hai nomato le due donzelle come facesti per li loro ommini? Son forse esse semplici ‘femminacce’ (così tu le definirai nella successiva narrazione)? Ah eh ih! Rispondi, marrano!

Tanto grande sei tu, Giovannin, che sai far nascere l’orrore dalla virtù e dalla virtù l’orrore.

Nella quarta storia della decima giornata, narri del macabro accadimento di donna Catalina, sposata a Niccoluccio che, gravida, sta assai male, pare morta e vien seppellita. Un tale, di nome e di fatto Gentile, innamorato e sempre da lei rigettato, profana la sua tomba perché vuol renderle il primo e ultimo omaggio: un castissimo bacio. Poi l’improvvisato necrofilo ci prova gusto e le palpa il seno e s’accorge che la di lei morte è soltanto apparente. Quindi la rianima, facendola riprendere a poco a poco, per cui salva la vita a lei e al nascituro. Potenza dell’amore che, per quanto tormentato, può essere a volte terapeutico! Dopo vari tentennamenti, Gentile, sempre esimio “nomen omen”, restituisce la donna e il fantolino al suo legittimo consorte-padre-padrone. Interessante è il paragone: se un signore abbandona un servo perché malato, mantiene forse alcun diritto su di lui, una volta che egli guarisce? La storia mi fa altresì rammentare l’opera maggiore di De Rougemont, “L’amore e l’occidente”, ove la passione amorosa è considerata deleteria, ma si sublima allorché si fonda sull’assenza.

Giovanni Boccaccio
Giovanni Boccaccio

Nell’ottava novella colgo, come immenso e imprevisto fiore, il sorprendente flusso di coscienza di un personaggio, Tito Quinzio, il quale ci propone uno struggimento intimo, fra il sé che dapprima antepone l’ideale amicale che lo lega a Gisippo e poi cambia repentinamente idea, esaltando la passione erotica che lo slancia verso Sofronia, promessa sposa del suo solidale. Anche tale novella, come tutte quelle dell’ultimo giorno, è basata su buoni e salvifichi sentimenti. L’amistà (“costei”), tanto oltraggiata allorché finta, qui viene glorificata che di più non pare possibile. E lo stesso accade per l’amor coniugale, che così efficacemente Giovannin schernì nei precedenti racconti.

L’ultima narrazione è la più orrida e, al contempo, la più raffinata. Un marito tortura con amene atrocità l’amata consorte, per saggiarne fino in fondo la pazienza. Ma Giovannin! E, dopo essersi così atrocemente divertito, il marito la promuove a moglie adorata… finché morte non li separi!

Difficilmente ho letto un romanzo tanto angosciante quanto il Decameron, forse una volta, o forse due, se non tre.

Tu, immaginifico autore, di certo, hai spesso incontrato il male di vivere di montaliana memoria. La tua narrazione è piena zeppa di cavalli stramazzati, di foglie riarse e incartocciate e di rivi che, gorgogliando, si strozzano.

Non so quanto bene sapesti, Giovannin. Ma il tuo giardino è colmo di prodigi, di Statue fatali e sonnacchiose, ma lassù aleggiano, infide, nuvole nere e foriere di tempesta, e un falco levato, dall’alto, rimira cupido qualche derelitta preda.

E i tre giovani, lasciate le sette donne in Santa Maria Novella, donde con loro partiti s’erano, da esse accomiatatisi, a loro piaceri attesero; ed esse quanto tempo lor parve, se ne tornarono alle loro case”.

Evviva!

Anche a te, come per tutti i grandi narratori, Giovannin, un grazie di cuore quasi infinito!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

“Decameron” di Giovanni Boccaccio, De Agostini, 1982

 

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