“L’Isola di Pasqua” di Pierre Loti: diario di un allievo ufficiale della fregata a vela Flore
“Esiste, in mezzo al Grande Oceano Pacifico, in una regione dove non si va mai, un’isola misteriosa e remota; nessun’altra terra si trova nelle sue vicinanze e, a più di cento leghe da ogni parte, la circondano abissi vuoti e mutevoli. Quest’isola è seminata di statue alte e mostruose, opera di chissà quale razza oggi degenerata o scomparsa, e il suo passato resta un enigma.” – Pierre Loti

L’Isola di Pasqua oggi è una ambita meta turistica. Sbarcati dall’aereo, dietro alle finte danzatrici di hula, ai canti, ai sorrisi, si nascondono le vestigia di una civiltà scomparsa e svelata solo a metà.
Rapa Nui – Grande Roccia − questo è il suo nome indigeno, è un’isola vulcanica dispersa fra le solitudini dell’Oceano Pacifico, a oltre 2000km dall’isola più vicina e a quasi 4000 km dalla costa sudamericana, Pasqua è uno dei luoghi abitati più isolati e inquietanti al mondo: rocciosa, priva di sorgenti d’acqua, con rada vegetazione e senza grandi risorse, perennemente spazzata dagli alisei, dalle forti piogge tropicali e dalle grandi onde oceaniche.
L’Isola fu scoperta casualmente nel 1722 dal Comandante della Compagnia delle Indie Orientali Jacob Roggeveen, mentre, giungendo da Capo Horn, esplorava l’Oceano alla ricerca di un passaggio orientale verso le Terre Australi. Dopo una rapida esplorazione dell’isola, Roggeveen stesso definì la scoperta “uno straordinario fallimento. Troppo aspra e buona a nulla”.
Lo stesso James Cook, nel 1772 vi fa scalo, definendola “troppo brulla e aspra per ospitare allevamenti (…) troppo frastagliata e perigliosa lungo le coste per fungere da scalo alle navi mercantili (…) dal clima caldo e ventoso. Un ammasso di roccia vulcanica senza qualità degne di un avamposto né civile né militare”.
Nel 1867, Pierre Loti, pseudonimo di Louis Marie Julien Viaud era un giovane allievo ufficiale della Marina Francese, grazie alla sua abilità nel disegno, viene selezionato per imbarcarsi a bordo della fregata a vela Flore, in partenza verso il Pacifico con una singolare missione: recuperare un Moai dall’Isola di Pasqua, per esporlo a Parigi.
Diciassettenne brillante e curioso, Loti nel suo diario di allievo ufficiale ha raccolto in quattordici fogli manoscritti la sua esplorazione sull’isola di Pasqua e il contatto con gli indigeni.
Questo diario, debitamente corretto dall’autore, è stato pubblicato per la prima volta in Francia nel 1899, nella Revues de Paris in tre puntate, col titolo L’île de Pâques. Journal d’un aspirant de la Flore, e di questa ne ha curato l’edizione italiana la Bordeaux Edizioni, con il titolo “L’Isola di Pasqua, diario di un allievo ufficiale della Flore” e la felice traduzione di Paolo Bellomo. Un’ottantina di pagine che raccontano una importante testimonianza di un’isola la cui cultura si è ormai persa, e che a buon titolo possiamo affiancare ai resoconti di Cook e Roggeveen.
Il primo sguardo di Loti sull’Isola è quello di un giovane viaggiatore, studioso ed esploratore dell’800, affascinato dai richiami delle lontane colonie esotiche francesi descritte un secolo prima nei resoconti di altri esploratori.
Alle 4 del pomeriggio del 3 gennaio 1872, la Fregata Flore da fondo alle ancore nella stessa rada in cui ancorò James Cook. Dalla coperta della nave, il giovane allievo ufficiale osserva l’isola al crepuscolo:

“Anche nel suono Rapa-Nui sembra ci sia tristezza, selvaggeria, notte. Notte dei tempi, notte delle origini, o notte del cielo, non si sa davvero di che notte si tratti; quel che è certo, è che queste nubi nere, di cui la regione si offusca, rispecchiano a pieno le aspettative della mia immaginazione.”
L’isola si presenta desolata e sferzata dall’aliseo e dai temporali, sotto un manto di nubi nere. Sull’isola sopravvivono solo 3-400 “selvaggi”, ormai decimati dal vaiolo, ed un danese lasciato sull’isola da una nave di passaggio anni prima.
Loti è il più preparato della missione: ha appreso la lingua Maori come lui stesso narra “da alcuni libri dei missionari di Tahiti”, è colto e sa disegnare. L’Ammiraglio e il Comandante della Flore lo incaricano di prendere contatto coi nativi, di guidare la ricerca del Moai da portare in Francia, di prendere rilievi archeologici e naturalistici.
Il diario si inoltra in descrizioni dell’aspro paesaggio dell’isola e del villaggio, e in narrazioni degli incontri coi nativi, intervallate dai rientri a bordo della Flore.
Molti sono gli interrogativi che si pone Loti nei pochi giorni di permanenza sull’isola. Da dove proviene questa popolazione che parla una lingua Maori? È possibile che abbiano navigato per mille miglia di bolina sino a giunger la? O son forse discendenti di antichi naufraghi?
Attorniato sulla spiaggia da una moltitudine di indigeni che cantano e ballano, agitando le lance, alla prima reazione di timore prevale la curiosità verso un popolo che Loti definisce “infantile”, ad intendere l’ingenuità di una popolazione che ha vissuto in totale isolamento, fuori dallo spazio e dal tempo. Ma la popolazione è pacifica e ospitale. Dopo l’esperienza di un momento di riposo all’ombra di una capanna indigena, il risveglio è angoscioso e pieno di interrogativi:
“[…] al momento del risveglio vengo preso dalla consapevolezza di uno spaesamento estremo […] qui ci si sente in mezzo ad una umanità infinitamente primitiva, più giovane di noi di 20 o 30.000 anni.”
E le domande fioccano nella mente di Loti. Sull’isola non c’è legname, né palme. Da dove arrivano le fronde che ricoprono le capanne? E le mazze di legno, le suppellettili, gli animali domestici?
“La più piccola cosa su quest’isola sperduta solleva quesiti senza risposta.”
Si costruisce rapidamente un legame con gli indigeni, fatto di scambi di doni: idoli e armi in cambio di vestiti occidentali, perline di vetro, taccuini e matite. Loti ha possibilità di andare oltre gli obiettivi della missione, immergendosi nel mondo arcaico degli indigeni, descrivendone usi e costumi, riti e storia. Infine, lui e i suoi compagni vengono infine portati ai Marae, gli antichi santuari che ospitano le statue. Tutto è ricoperto di terra e fitte sterpaglie che nascondono le statue ormai cadute.

Gli indigeni non hanno più memoria di chi le abbia erette, né il perché. Nemmeno sembrano preoccuparsene. Viene individuata la statua da cui segar via la testa, pesante oltre 5 tonnellate, e si organizza il recupero. Il marae viene devastato dai marinai e dagli indigeni nell’incuria più totale, che non sfugge a Loti, e che se ne discosta perdendo interesse nell’operazione.
Il giorno successivo rimane il tempo per una esplorazione della parte più remota e disabitata dell’isola, dove gli indigeni raccontano di statue ancora erette. Ma i misteri si infittiscono: in un’area totalmente disabitata, appare un intrico di sentieri battuti di fresco, come se ogni giorno vi passassero migliaia di persone. Eppure, non si scorge anima viva al di fuori del villaggio.
Nei giorni si scopre poco a poco la storia delle devastazioni operate dagli uomini occidentali ai danni degli indigeni, catturati, trucidati, resi schiavi in Perù e poi riportati sull’isola affetti dal vaiolo, trattati con una barbarie che fa domandare a Loti chi sia più selvaggio, sino alla riflessione finale, quando, con un idolo tra le mani, osserva il capo tribù allontanarsi festante indossando una redingote da ammiraglio che lo rende ridicolo:
“Ho l’impressione di avergli mancato di rispetto facendo quello scambio, di essermi reso, nei suoi confronti, colpevole di lesa selvaggeria.”