“Il re del mondo” di René Guénon: Luz o il soggiorno d’immortalità
“I sette dwîpa (letteralmente isole o continenti) emergono successivamente nel corso di certi periodi ciclici, in modo che ciascuno di essi è il mondo terrestre considerato nel periodo corrispondente; i dwîpa formano un loto il cui centro è il Mêru, in rapporto al quale sono orientati secondo le sette regioni dello spazio.”
Dei ventisette titoli di René Guénon che ci sono stati tramandati (dieci pubblicati postumi) uno dei più celebri è di sicuro “Il re del mondo” (1927).
René-Jean-Marie-Joseph Guénon, conosciuto anche come Shaykh ‘Abd al-Wahid Yahya dopo la conversione all’Islam (Blois, 15 novembre 1886 – Il Cairo, 7 gennaio 1951), è stato uno scrittore, filosofo, esoterista, intellettuale francese. Per tutta la vita si operò nel ridefinire la nozione di metafisica come conoscenza dei principi di ordine universale. Prendendo in considerazione le forme tradizionali come Taoismo, Induismo, Islam, Ebraismo, Cristianesimo, Ermetismo, Libera Muratoria ha cercato di connettere le differenti espressioni del sacro per una possibile realizzazione dello spirito dell’essere umano.
La sua produzione si estende per trent’anni (dal 1921 al 1951) ed è organica sia sul piano formale sia su quello sostanziale, come se gli scritti non siano frutto di riflessioni avvenute durante gli anni ma espressione di una sorta di dettato di un pensiero già compiuto. Interessante infatti notare che la prima pubblicazione del 1921 (“Introduzione generale allo studio delle dottrine indù”) sia il fondamento per la produzione successiva vista e considerata l’analisi delle parole che si sarebbero usate da lì a trent’anni (come metafisica, teologia, filosofia, esoterismo, exoterismo, religione, realizzazione).
Altro punto molto interessante in Guénon è la sua “necessità” di smascherare le pseudo-dottrine neospiritualistiche come il movimento creato da Helena Petrovna Blavatsky (contestò anche Annie Besant e Krishnamurti), e come i vari spiritualisti che aleggiavano dall’800 nei salotti europei ed americani.
L’opera di Guénon ha prodotto estimatori (come Martin Lings, Titus Burckhardt, Frithjof Schoun, Julius Evola, Jean Reyor, Ananda Coomaraswamy, etc) ed oppositori (Umberto Eco, Furio Jesi, Giuliano Di Bernardo, Jean Daniélou, etc).
Nel presentarvi il settimo capitolo “Luz o il soggiorno d’immortalità” de “Il re del mondo” vogliamo mostrarvi l’estrema “semplicità” dell’esposizione del funzionamento della psiche, l’approssimazione della linguistica nello studio dell’etimo delle parole indagate, il dire tutto ed il non dire nulla tipico degli pseudo-spiritualisti che lo stesso Guénon smascherava.
L’encomio è di aver portato avanti la dottrina metafisica, ognuno dà quel che può e quel che comprende. Dunque, oggi, vi proponiamo Guénon, vi consigliamo di leggerlo criticamente consultando le note e successivamente di andar ad abbeverarvi a casa di Plotino, Platone, Tommaso (Vangelo), Carl Gustav Jung, Eireneo Filalete, Henri-Frédéric Amiel, Martin Heidegger, Baruch Spinoza, Arthur Rimbaud, Giordano Bruno, Nicola Cusano, Isaac Newton, Ezra Pound, Thomas Stearns Eliot, Tommaso d’Aquino (la lista degli indirizzi è lunga e la vita fisica troppo corta, ognuno operi secondo volontà).
Luz o il soggiorno d’immortalità
Le tradizioni riguardanti il mondo sotterraneo si ritrovano presso moltissimi popoli; non abbiamo intenzione di ricordarle tutte, anche perché alcune di esse on sembrano avere un rapporto diretto con l’argomento di cui ci occupiamo.
Tuttavia si potrebbe osservare, in linea generale, che il culto delle caverne è sempre connesso all’idea di luogo interiore o di luogo centrale, e che il simbolo della caverna e quello del cuore, sotto questo aspetto, sono assai vicini l’uno all’altro.
D’altra parte, esistono realmente, in Asia centrale come in America e forse anche altrove, caverne e sotterranei dove alcuni centri iniziatici hanno potuto sussistere per secoli; ma, a prescindere da questo fatto, vi è, in tutto quanto viene riferito su questo argomento, una parte di simbolismo che non è difficile individuare; e possiamo ritenere persino che siano state ragioni di ordine simbolico a determinare la scelta dei luoghi sotterranei dove installare tali centri iniziatici, piuttosto che ragioni di semplice prudenza.
Forse Saint-Yves[1] avrebbe potuto spiegare tale simbolismo, ma non l’ha fatto, e ciò dà a certe parti del suo libro un’apparenza fantasiosa; quanto a Ossendowski[2], egli era sicuramente incapace di andare di là dalla lettera e di vedere in quanto gli veniva detto qualcosa di più del significato più immediato.
Fra le tradizioni a cui alludevamo, ve n’è una che presenta un interesse particolare: la troviamo nel Giudaismo e concerne una città misteriosa chiamata Luz[3].
Questo nome, in origine, era quello del luogo dove Giacobbe ebbe il sogno in seguito al quale lo chiamò Beith-El, cioè casa di Dio[4]; torneremo più avanti su questo punto.
È detto che l’Angelo della Morte non può penetrare in questa città e non vi ha alcun potere; e, con un raffronto piuttosto singolare ma molto significativo, alcuni la situano vicino all’Alborj[5], che, anche per i Persiani, è il soggiorno d’immortalità.
Vicino a Luz vi è, si dice, un mandorlo (chiamato luz in ebraico) alla base del quale si trova una cavità attraverso cui si penetra in un sotterraneo; e questo sotterraneo conduce alla città, che è completamente nascosta. La parola luz, nelle sue diverse accezioni, sembra per altro derivare da una radice che designa tutto ciò che è nascosto, coperto, avviluppato, silenzioso, segreto; è da notare che anche le parole che designano il Cielo hanno in origine lo stesso significato. Si avvicina di solito coelum al greco koilon, cavo (il che può anche avere un rapporto con la caverna, tanto più che Varrone[6] indica tale accostamento in questi termini: a cavo coelum); ma bisogna osservare però che la forma più antica e più corretta sembra essere caelum, che ricorda da vicino la parola caelare, nascondere.
D’altra parte, in sanscrito, Varuna deriva dalla radice var, coprire (che è anche il significato della radice kal alla quale si ricollegano il latino celare, altra forma di caelare, e il suo sinonimo greco kaluptein)[7]; e il greco Ouranos è un’altra forma dello stesso nome, poiché var si trasforma facilmente in ur. Tali parole dunque possono significare ciò che copre, ciò che nasconde, ma anche ciò che è nascosto, e quest’ultimo significato è duplice: ciò che è nascosto ai sensi, il regno sovrasensibile; e, nei periodi di occultamento o di oscuramento, la tradizione cessa di essere manifestata esteriormente e apertamente, allorché il mondo celeste diviene il mondo sotterraneo.
Da un altro punto di vista, va fatto anche un altro raffronto col Cielo: Luz è chiamata la città azzurra, e questo colore, che è quello dello zaffiro[8], è il colore celeste. In India si dice che il colore azzurro dell’atmosfera sia prodotto dal riflesso della luce su una delle facce del Mêru, quella meridionale che guarda lo Jambu-dwîpa ed è fatta di zaffiro; è facile capire che ciò si riferisce allo stesso simbolismo.
Lo Jambu-dwîpa non è soltanto l’India, come si crede comunemente, ma rappresenta in realtà tutto l’insieme del mondo terrestre nel suo stato attuale; tale mondo può essere infatti considerato come situato tutto quanto sud del Mêru, dato che questo è identificato con il polo settentrionale.
I sette dwîpa (letteralmente isole o continenti) emergono successivamente nel corso di certi periodi ciclici, in modo che ciascuno di essi è il mondo terrestre considerato nel periodo corrispondente; i dwîpa formano un loto il cui centro è il Mêru, in rapporto al quale sono orientati secondo le sette regioni dello spazio.[9] Vi è dunque una faccia del Mêru volta verso ciascuno dei sette dwîpa; se ogni faccia ha uno dei sei colori dell’arcobaleno, la sintesi di questi sette colori è il bianco, colore che è attribuito universalmente all’autorità spirituale suprema[10], ed è anche quello del Mêru considerato in se stesso (come vedremo, esso è effettivamente designato come la montagna bianca), mentre gli altri rappresentano solo i suoi aspetti in rapporto ai vari dwîpa.
Sembra che, nel periodo di manifestazione di ciascun dwîpa, il Mêru assuma una posizione diversa; ma in realtà esso è immutabile, poiché è il centro, mentre è l’orientamento del mondo terrestre in rapporto ad esso che cambia da un periodo all’altro.
Torniamo alla parola ebraica luz, i cui diversi significati vanno esaminati con la massima attenzione: la parola ha comunemente il significato di mandorla (e anche di mandorlo, poiché designa, per estensione, sia l’albero sia il frutto) o di nocciolo; ora il nocciolo è quanto vi è di più interiore e di più nascosto, ed è completamente chiuso, dal che deriva l’idea di inviolabilità (che si ritrova nel nome dell’Agarttha[11]).
La parola luz, inoltre, è il nome che viene dato a una particella corporea indistruttibile, rappresentata simbolicamente come un osso durissimo, particella alla quale l’anima rimarrebbe legata dopo la morte e sino alla resurrezione.
Come il nocciolo contiene il germe, e come l’osso contiene il midollo, questo luz contiene gli elementi virtuali necessari alla restaurazione dell’essere; essa si opererà sotto l’influsso della rugiada celeste, rivivificando le ossa disseccate; a questo alludono le parole di San Paolo: “Seminato nella corruzione, risusciterà nella gloria”.[12] Anche qui, come sempre, la gloria si riferisce alla Shekinah[13], considerata nel mondo superiore.
La rugiada celeste è in stretta relazione con essa, come si è potuto vedere prima. Essendo imperituro[14], il Luz è nell’essere umano il nocciolo dell’immortalità, così come il luogo designato con lo stesso nome è il soggiorno dell’immortalità: là si arresta, in entrambi i casi, il potere dell’Angelo della Morte. È in un certo senso l’uovo o l’embrione dell’Immortale; può essere paragonato anche alla crisalide da cui deve uscire la farfalla[15]; tale paragone traduce esattamente il suo ruolo in rapporto alla resurrezione.
Si usa situare il luz verso l’estremità inferiore della colonna vertebrale, il che può sembrare abbastanza strano, ma può essere spiegato rifacendosi a ciò che la tradizione indù dice della forza chiamata Kundalinî[16], che è una forma della Shakti considerata come immanente all’essere umano[17].
Tale forza è rappresentata dalla figura di un serpente arrotolato su se stesso, in una regione dell’organismo sottile corrispondente all’estremità inferiore della colonna vertebrale. Così, almeno, nell’uomo comune; ma, per effetto di pratiche come quelle dello Hatha-Yoga[18], essa si risveglia, si dispiega e si eleva attraverso ruote (chakra) o loti (kamala) che corrispondono ai diversi plessi, per raggiungere la regione corrispondente al terzo occhio, cioè l’occhio frontale di Shiva[19].
Questo stadio rappresenta la restaurazione dello stato primordiale, in cui l’uomo ritrovava il senso dell’eternità e, in tal modo, ottiene quello che altrove abbiamo chiamato l’immortalità virtuale. Fino a quel punto siamo ancora nello stato umano; in una fase ulteriore, Kundalinî raggiunge finalmente la corona in testa, e quest’ultima fase si riferisce alla conquista effettiva degli stati superiori dell’essere. Da tale accostamento sembra risultare che la localizzazione del luz nella parte inferiore dell’organismo si riferisce soltanto alla condizione dell’uomo decaduto; e, per l’umanità terrestre considerata nel suo insieme, lo stesso vale per la localizzazione del centro spirituale supremo del mondo sotterraneo. [20]
Bibliografia
“Il re del mondo” di René Guénon, Adelphi, (ristampa 2017). Traduzione di Bianca Candian.
[1] Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre (Parigi, 26 marzo 1842 – Pau, 5 febbraio 1909), è stato un medico francese, compare nell’enciclopedia delle sette di Christian Plume e Xavier Pasquini come una delle figure di maggior rilievo dell’esoterismo del XIX secolo.
[2] Ferdynand Antoni Ossendowski (Ludza, 27 maggio 1876 – Żółwin, 3 gennaio 1945) è stato uno scrittore, giornalista, esploratore, attivista politico polacco, membro dell’Accademia di Francia.
[3] Informazioni tratte da Jewish Encyclopedia.
[4] Genesi, XXVIII, 19.
[5] In Iran il monte Alborj è considerato il centro del mondo attorno al quale si muovono il sole e i pianeti.
[6] Marco Terenzio Varrone (in latino: Marcus Terentius Varro; Rieti, 116 a.C. – Roma, 27 a.C.) è stato un letterato, grammatico, militare e agronomo romano.
[7] Dalla radice kal derivano parole latine come caligo e forse il composto occultus. Ma la forma caelare potrebbe anche derivare da una radice diversa da kal quale caed che ha propriamente il significato di tagliare, dividere.
[8] Lo zaffiro compare anche nel simbolismo biblico: appare di frequente nelle visioni dei profeti.
[9] Nell’induismo le sette regioni (conservate nel Buddismo con i sette passi) sono i quattro punti cardinali più lo Zenit, il Nadar ed il centro stesso. La rappresentazione forma una croce tridimensionale.
[10] Il Papa.
[11] Agartha (detto anche Aghartta o Agartha o Agharti) è un regno leggendario che si troverebbe all’interno della Terra, descritto nelle opere dello scrittore Willis George Emerson (1856 – 1918). La favolosa Agarthi è legata alla teoria della Terra cava ed è un soggetto popolare nell’esoterismo. Non esistono parole tibetane o sanscrite che siano simili ad Agarthi e che significhino “inaccessibile”, come vorrebbero i teorici della sua esistenza. Agarthi è un nome spesso usato per definire una civiltà nascosta all’interno dell’Asia centrale. Nel tantra Kalachakra del buddhismo tibetano viene descritto un regno simile, col nome di Shambhala. Nelle interpretazioni moderne, vi è una identificazione tra Shambhala e Agarthi. La fortuna occidentale di Agarthi nasce con Ossendowski e il suo libro Bestie, uomini e dei, Alexandre Saint-Yves d’Alveydre e il libro Missione dell’India e René Guénon con Il Re del mondo. Il terzo non fa che reinterpretare le idee dei primi due.
[12] Prima lettera ai Corinzi, XV, 42.
[13] La parola Shekhinah (leggi: sce-chi-nà – in ebraico: שְׁכִינָה; in arabo: السكينة) è una traslitterazione del sostantivo ebraico femminile singolare שכינה, reso talvolta dagli omofoni Shechinah, Shekina, Shechina, Schechinah. La sua etimologia è connessa al verbo שכן (sciakhàn), dimorare, e può essere resa letteralmente come “dimora”, “abitazione”. All’interno della tradizione biblica e teologica ebraica indica la presenza fisica di Dio (il Signore, appellativo con cui ci si riferisce alla divinità, altrimenti impronunciabile).
[14] La parola akshara, in sanscrito, ha come significato indissolubile, imperituro, indistruttibile. Si applica al monosillabo Om.
[15] Ricorda il mito greco di Psiche.
[16] Kundalini (adattamento di Kuṇḍalinī, devanagari: कुण्डलिनी) è un termine della lingua sanscrita adoperato originariamente in alcuni testi delle tradizioni tantriche per indicare quell’aspetto della Śakti presente nel corpo umano, l’energia divina che si ritiene risiedere in forma quiescente in ogni individuo.
[17] Stretto rapporto tra la Shakti indù e la Shekinah ebraica.
[18] Lo Hatha Yoga è una forma di Yoga basato su una serie di esercizi psicofisici, originati nelle scuole iniziatiche dell’India e del Tibet. Benché sviluppatosi in tempi antichissimi all’interno del subcontinente indiano, dove la religione predominante era quella induista, la pratica dello yoga non è una pratica religiosa, né parte della religione induista, per questo ad oggi molto praticato anche in occidente e varie altre aree del mondo da persone di svariate religioni e provenienze sociali ed etniche.
[19] Siva (più raramente Sciva; devanagari: शिव, Śiva; adattato con grafia inglese in Shiva), è una divinità maschile post-vedica, erede diretta della divinità pre-aria, successivamente ripresa anche nei Veda, indicata con i nomi di Paśupati e Rudra. Fondamento, a partire dall’epoca Gupta, di sette mistiche a lui dedicate, Siva è divenuto, in età moderna, uno dei culti principali dell’Induismo.
[20] VITRIOL (Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem).