“Zevi su Zevi. Architettura come profezia” di Bruno Zevi: la riflessione per un’architettura più umana
Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Bruno Zevi, uno tra i maggiori architetti italiani, progettista, ma soprattutto storico e critico dell’architettura.

Attraverso le numerose iniziative che il mondo accademico nazionale e internazionale gli ha tributato e che ha già programmato per tutto l’anno, accanto alla fervida attenzione del mondo editoriale, ci viene riproposta, per una riscoperta integrale, non solo la figura del professionista di alto valore, ma anche quella dell’intellettuale impegnato in ambito civile e in campo politico.
Numerose le pubblicazioni su Bruno Zevi, ma soprattutto le riedizioni di sue opere fondamentali. Tra queste, abbiamo ritenuto interessantissima la scelta di Marsilio di ripubblicare un testo uscito per la prima volta nel 1993, Zevi su Zevi. Architettura come profezia. La nuova edizione si apre con la prefazione di Massimiliano Fucksas; in coda al testo una biografia compatta eppure ricchissima, come pure la bibliografia, comprendente gli scritti sull’autore, seguita da un indice dei nomi.
Si tratta di un’opera autobiografica, intesa come un diario integrale, ampio e dettagliato, chiarificatore, conferma dei cardini della sua teoria architettonica e artistica, capace di coniugare le istanze estetiche e antropologiche.
Dunque si presenta intenso questo diario, fittissimo di luoghi, di Storia, nazionale e internazionale, cui si intrecciano le storie familiari e personali, accompagnate dalle numerosissime fotografie, tutte in bianco e nero, di persone e architetture, accanto a mappe, carte, stampe, giornali e progetti, a raccontare tutta la vicenda umana e professionale di Zevi, a partire dalle radici della famiglia Zevi, comuni a molte famiglie di ebrei romani, prima dentro e poi fuori dal ghetto.
Già dalle prime pagine lo stile di Zevi si fa apprezzare per la grande capacità ironica e autoironica, passando attraverso le interpretazioni del proprio cognome e nome come un destino. Poi l’iter scolastico, il nodo cruciale degli studi liceali e il primo e fondamentale coinvolgimento politico e civile, mediante l’associazionismo.
L’adesione al gruppo Zangrandi come scuotimento dal limbo della cultura disimpegnata, proprio perché era bivalente. Da un lato, schiettamente rivoluzionario; dall’altro, intimista fino alla morbosità. Sono due facce inseparabili della nostra formazione umana e civile, e sembra ormai davvero inutile vergognarsene.
Con serietà e rigore, chiarezza, nitore e precisione, spesso con la forza icastica del suo scrivere, si distende nella necessaria volontà di spiegare e spiegarsi.
In primis, dunque, con la precisazione che sta a fondamento del suo essere Zevi: la formazione antifascista, sua e del suo gruppo, è di derivazione crociana, sì, ma non in senso generale, bensì nasce precipuamente dallo studio della filosofia di Benedetto Croce, specie nell’ambito dell’estetica. Da qui discendono le scelte operate nella teoria come nella prassi. Sganciare l’arte dal contesto della dittatura significava passare a una posizione critica destinata a estendersi anche nel tessuto civile.
Quello di Zevi è un crocianesimo convinto, maturato, cresciuto con l’uomo e col professionista, vissuto oltre le mode e le adesioni formali e passeggere tanto da fargli affermare: “Mi sono sempre dichiarato crociano, segnatamente da quando questo termine passò di moda”.

Contro ogni convenzione e conformismo, in aperta opposizione a ogni forma di autoritarismo, passando attraverso la giovanile esperienza dei Littoriali del ’38, contro i modelli di Regime, si impegnava a cercare una tradizione cui si sarebbe dovuta ispirare un’architettura italiana autenticamente moderna.
La scelta cadde sul Medioevo e sull’architettura civile del Due-Trecento, descrittiva, popolare, flessibile, modesta, corale, a scala umana, nemica degli ‘ordini’ e dell’’ordine’ (…) Pur riconoscendo nel discorso di allora una certa ingenuità, ebbe e mantenne consapevolezza di avere avuto la giusta intuizione: “Non sapevo niente, ma puntavo sull’ipotesi giusta, in realtà già collaudata nella storia culturale”.
La strada tracciata nel ’38 rimase quella maestra, mai abbandonata, dopo gli studi a Londra e poi negli Stati Uniti, dove scoprì l’architettura organica di F. L. Wright che lo avrebbe portato a impegnarsi per l’affermazione di un’architettura democratica e libertaria.
Parallelamente agli impegni accademici, fedele alla sua formazione, sul piano pratico pose tutto il suo impegno nell’adesione a Giustizia e Libertà, poi nel Partito d’Azione, nel PSI e nel Partito radicale. Fondando e dirigendo riviste specializzate e collaborando lungamente con l’Espresso, di cui curò la rubrica di architettura sino alla propria morte, avvenuta il 9 gennaio del 2000.
Bruno Zevi, sempre convinto della necessaria autonomia dell’arte e dell’architettura, da lui definita un po’ ingegneria, un po’ arte nonché (…) rischiosa antidolatrica creativa, ci ha lasciato un’opera di grande rigore e sincerità, importante per conoscere la storia della nostra architettura dal Novecento a oggi, per una visione urbanistica contestualizzata storicamente e antropologicamente.
Written by Katia Debora Melis