Selfie & Told: la band Guignol racconta il nuovo disco “Porteremo gli stessi panni”
“Piccole strisce in plastica arrotolava in mano/ sempre lì tra le dita mentre scrutava lontano/ Giù tra i condomini dove non scorgi niente/ Stava calmo e preistorico, come una iguana paziente// E lei tirava dritta, piccola e discreta/ sempre a testa bassa come Madre Teresa/ Dal marciapiede su fino all’ottavo piano/ la croce che dal paese si portò fino a Milano// […]” – “Come Maria Vergine”
Ciao, siamo i Guignol, un band rock, punk, folk, noise, insomma un po’ come ci gira. Siamo probabilmente la band che ha stabilito il maggior numero di cambi di formazione (forse solo i Nomadi ci battono) ma siamo sempre qui, con lo stesso spirito e lo stesso ghigno un po’ malefico, un po’ ironico, un po’ smorfia di rabbia.
A febbraio esce il nostro nuovo disco “Porteremo gli stessi panni”. Si fa le domande e risponde il nostro Pier Adduce, che è l’unico “sopravvissuto” della prima formazione.
Ed ora beccatevi questa Selfie & Told!
G.: Sono quasi vent’anni di Guignol. Che cosa vi spinge ad andare avanti ancora?
Guignol: Vorrei saperlo anch’io! Siamo, o meglio, sarebbe più corretto dire “sono” un eterno ragazzo inquieto, e una volta presa questa china mi risultato difficile fermarmi. È una forma di resistenza, in un certo senso, ed è un po’ una ragione d’essere: suonare, scrivere e avere l’opportunità di viaggiare e lavorare facendo questo. Gli altri Guignol che di volta in volta mi accompagnano, o si aggiungono, mi assecondano e sono loro stessi una fonte sempre diversa e stimolante di iniziativa e ispirazione. A volte si fermano a lungo, a volte meno, come è nell’ordine delle cose.
G.: Questo disco è nato anche grazie all’ispirazione di Rocco Scotellaro, come siete arrivati a lui?
Guignol: Ero a Matera alcune estati fa, tre o quattro anni fa. Un dipinto che lo ritraeva in una galleria mi aveva molto colpito, assieme alla sua storia personale. Sono quindi andato a cercare le sue poesie e ne ho trovate di magnifiche, con una qualità ritmica/sonora per altro molto marcata. Alcune di quelle poesie, assieme ad alcuni brani che avevo cominciato a scrivere, avevano una provenienza visiva e di luoghi molto vicini. Ho chiesto quindi l’autorizzazione per l’utilizzo di due sue poesie per questo disco ed è stato sorprendente e avvincente amalgamarle in questo insieme che nelle mie intenzioni doveva evocare luoghi del Sud e altri del Nord – in antitesi ma entrambi all’interno di un unico quadro – quindi: partenze, sradicamenti, famiglie e genti disgregate, rivendicazioni, rabbia e alienazione, ritorni ecc… Spero di esserci riuscito… se non del tutto almeno in parte.
G.: Ma fra le ispirazioni ci sono anche Luciano Bianciardi, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, tutti milanesi atipici. Che rapporto avete con Milano?
Guignol: Il solito, contraddittorio rapporto. Io amo Milano… è spesso sullo sfondo delle mie cose, è inevitabile che sia così. Allo stesso tempo la trovo anche spregevole, nera e borghese, perfino piccola e provinciale a volte eppure ancora capace di sorprendermi in altre. Bianciardi, Jannacci e Gaber appartengono a una Milano che non c’è più ormai da tempo… Ne sono stati i cantori e l’anima più profonda: quella critica, sfrontata, malinconica, ironica, beffarda, tragica e comica insieme. Quella Milano aveva la sua gente e un carico di umanità nemmeno lontanamente simile a quello attuale e fu quella che ha contribuito alla sua ricostruzione nel dopo Guerra. Gente di ogni luogo, diversissima e portatrice di qualcosa di irripetibile probabilmente…
G.: Come sta e come è evoluta la cosiddetta musica indipendente italiana?
Guignol: Evoluta? Non saprei. Non ce ne preoccupiamo. Per quel poco che ne sappiamo la vediamo molto omologata uniformemente sul pop, sul modello televisivo o da radio mainstream. In larga parte innocua, eternamente adolescenziale, sciatta, approssimativa e compiaciuta del proprio disimpegno, incapace di prendere posizioni, con nessuna attitudine al rischio e ossessionata dall’idea di compiacere lo scarso o il grosso del pubblico che resta. Salvo eccezioni. Questa è l’opinione di un matusa 47enne fuori dai “giri”… sincera però!
“Padre mio che sei nel fuoco,/ che brulica al focolare, come eri/ una sera di Dicembre a predire/ le avventure dei figli/ dai capricci che facevamo:/ Tu pure non farai bene dicevi/ vedendomi in bocca una mossa/ che forse era stata anche tua/ che l’avevi da quand’eri ragazzo/ Padre mio…” – “Padre mio”
Written by Guignol
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