FEFF 2018: Sezione Here Comes the Icon! – “Chungking Express” di Wong Kar-wai
La seconda serata al Far East Film Festival di Udine ha retto bene il confronto con la precedente, che già aveva accolto in platea la preannunciata regina del sabato, assegnataria del Gelso d’oro: Brigitte Lin Ching Hsia, icona del cinema hongkonghese degli anni ’70-’90, ritiratasi nel 1994 dopo una sfavillante carriera ventennale.

Destinataria di una retrospettiva di prim’ordine che offre l’opportunità di apprezzarla nella brillantezza delle immagini originali (3 su 6 i titoli restaurati, ossia quelli più datati) incastonate fra il 1973, anno dell’esordio, e i mesi del congedo, come da lei stessa ammesso fra gli applausi scroscianti dell’eccitato pubblico del Teatro Nuovo non aveva mai ricevuto un premio alla carriera prima d’ora.
Una volta congedata dal palco, in mano un mazzo di rose rosse offerto da una delle due figlie che perseguendo questo preciso scopo aveva coperto migliaia di chilometri all’insaputa della madre, gli spettatori, testimoni della sobrietà, incisività ed eleganza dimostrate della diva nel proprio lungo discorso di ringraziamento, si sono abbandonati alle medesime qualità manifestate sullo schermo.
Il cartellone prevedeva uno dei lungometraggi maggiormente rappresentativi della cifra stilistica di Lin, un cult intramontabile del calibro di “Chungking Express” (da noi conosciuto come “Hong Kong Express”), terzo cimento firmato Wong Kar-wai dopo gli stupefacenti “As Tears Go By” (1988) e “Days of Being Wild” (1990), osannato fra gli altri (e non è difficile comprenderne il motivo) da un illustre cinefilo come Quentin Tarantino.
A quasi 24 anni dall’uscita in patria, che impressioni trasmette l’opera di un maestro girata in gran fretta attendendo i fondi per il completamento di un’altra pietra miliare come “Ashes of Time” (1994)?
Quale arte avvalora, oggi non meno di ieri, le due love story incompiute che costituiscono gli atti della narrazione, quelle fra l’agente 223 (Takeshi Kaneshiro), il quale languisce rimuginando sull’ex che l’ha scaricato, e l’innominata femme fatale dalla parrucca bionda e gli occhiali da sole (Brigitte Lin), narcotrafficante dal grilletto facile, e fra l’agente 663 (Tony Leung), che si lascia pedinare dall’ombra dell’ex sempre in viaggio nei cieli, e la giovanissima Faye dalla corta chioma (Faye Wong), inserviente in una bottega dove vanno forte l’insalata dello chef e il fish ‘n chips?

Ad un primo livello si distingue, è evidente, il carisma dei protagonisti, che inseriti nell’affollatissima quotidianità multiculturale del Paese non impiegano molto a trascenderla, fornendo chiavi di interpretazione della realtà e sguardi sulle grandi emozioni della vita come sulle minute vicende di cui si compongono le proprie relazioni ed attività da cui il pubblico adora farsi sedurre.
Proprio il discostarsi dall’omologazione (o un approccio che tale appare alla nostra sensibilità occidentale contemporanea), il mistero che avvolge costantemente la donna di cui si possono solamente intuire gli occhi addolorati, le risibili ossessioni dell’atletico 223, il brio raro e impertinente della ragazza che non ama pensare e l’irriducibile indecisione dell’innocuo 663 sono i fari che irradiano le esistenze di questi disadattati, solo velatamente drammatiche e piuttosto cariche di un’ironica poesia.
All’accentuazione del lirismo concorre un secondo livello, quello dell’interpretazione formale del soggetto, che va dall’iterazione dei temi portanti (“California Dreamin’” interpretata dai The Mamas and the Papas e “Dream Person” dalla stessa Faye Wong), corrispondente al riproporsi incessante ma mai svilito delle diverse routine, al dinamismo del montaggio, che elettrizza soprattutto le sequenze potenzialmente avulse da dichiarata tensione.

Ancora, la forza evocativa che il regista imprime a numerosissime scene, se non singole inquadrature, capaci di condurre lo spettatore in viaggi onirici scanditi dall’irrequietezza delle riprese e dall’inattesa prospettiva che esse adottano, dall’attenzione per il mare di dettagli scenografici, dalle scie di luce emanate dai corpi in movimento e dagli stipati locali contornati di neon sempre accesi.
Naturale che un film di poco posteriore, “Made in Hong Kong” di Fruit Chan (1997, presentato in una splendida veste restaurata allo scorso FEFF), potesse ripercorrere, benché conservando un’elogiabile autonomia, una strada battuta con tale energia e prorompenza: forse nell’autore era già instillata la convinzione che opere simili, al pari di certi amori che queste hanno il piacere e l’acume di raccontare con finezza visionaria, non possiedono una data di scadenza.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni
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Recensione “Made in Hong Kong” di Fruit Chan