“L’insicurezza sociale” di Robert Castel: che significa essere protetti e la mitologia della sicurezza
“In breve, a tutti questi imperativi, che consistono nel vigilare affinché la meccanica degli interessi non sia fonte di pericoli, né per gli individui né per la collettività, devono corrispondere delle strategie di sicurezza che sono, in certo qual modo, il rovescio e la condizione stessa del liberalismo. La libertà e la sicurezza: il rapporto tra libertà e sicurezza è il centro propulsore di questa nuova ragione di governo, (…). Sarà questo rapporto, tra libertà e sicurezza, ad animare dall’interno, in un certo senso, i problemi di quella che chiamerei l’economia di potere specifica del liberalismo”[1].
Sono queste le parole con cui Michel Foucault, nel corso al Collège de France del 1978-1979, introduce il nesso libertà-sicurezza, nervo spinale delle politiche liberali e neoliberali. Uno sguardo, quello di Foucault, che “diagonalizza” l’attualità attraverso la storia, continuando a porre sempre nuove e infaticabili sfide al presente.
A cogliere la sfida attuale dell’insicurezza sociale e del rischio è oggi, tra gli altri, Robert Castel. Nel suo testo edito da Einaudi L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?[2] il sociologo francese indaga la cosiddetta “mitologia della sicurezza”, la frustrazione sicuritaria che ne deriva e la decollettivizzazione e individualizzazione dilaganti nel sistema di protezione neoliberale attuale.
Nella trattazione di tali temi nevralgici, Castel compie una graduale messa a fuoco di quegli elementi che ci permettono di comprendere le dinamiche della contemporanea società del rischio. La sua analisi parte dalle configurazioni storiche dell’insicurezza (cap. I) e muove verso l’ideologia della modernità, che si è imposta a partire dal XVIII secolo, fondata sul riconoscimento dell’individuo in quanto proprietario e lavoratore (cap. II). Si giunge all’attuale riemergere della messa in discussione dello Stato sociale e crisi del Welfare, parlando (cap. III, IV) di individualizzazione e desocializzazione all’interno della “società del rischio”[3], e del ri-emergere delle classi pericolose e relative pratiche di sicurezza sociale semplificatorie. Infine Castel (cap. V) offre una mirata riconfigurazione delle pratiche sociali fin qui esplorate e ricerca plausibili chiavi risolutive nell’ambito dei diritti del lavoro.
La ‘grande trasformazione’ di cui siamo protagonisti oggi, nelle società occidentali, ha radici profonde. A partire dal XVIII secolo assistiamo ad una certa presa di coscienza del problema dell’uguaglianza e della sicurezza sociale. Lo Stato di diritto mostra il suo lato più oscuro[4] nel momento in cui abbandona coloro che non hanno proprietà, imponendo loro una simultanea negazione di diritti. Per includere nuovamente al suo interno i non proprietari si andrà costruendo la proprietà sociale che, di fatto, supporta e integra la società salariale. L’accesso a un certo tipo di proprietà che fornisce sicurezza, all’interno del modello durkheimiano “della solidarietà organica”, rende il soggetto salariato dominatore del presente e agente sul futuro, all’interno di uno Stato che opera come riduttore di rischi e promotore di illimitate protezioni.
Tuttavia, con il fallimento delle promesse liberali alla fine del XIX sec., emerge l’impossibilità di un egualitarismo paritario all’interno di un sistema statale contrattuale con finalità sicuritarie – libertarie. Di contro, per fronteggiare gli impellenti rischi di disgregazione e le inefficaci pratiche liberali di sicurezza, i lavoratori si coagulano in nuove forme di regolazione collettiva, che nel corso del XX secolo andranno a costituire un modello sociale di gruppi professionali omogenei.
Quando, durante la crisi economica degli anni trenta[5], con Roosevelt e il New Deal, lo Stato rappresenta l’istanza del collettivo per eccellenza, si pongono in essere le pratiche del welfare, che si protrarranno in modi diversi nel corso del tempo. Il prezzo di tali politiche è stato quello di svariati interventi diretti nel mercato come stigmi di un nuovo tipo di dispotismo statale. Questa nuova arte liberale di governo ha portato con sé l’aumento del costo economico delle libertà, oltre a quello dei meccanismi compensatori della stessa. Il risultato equivoco è rappresentato, ci avverte Foucault[6], da quei dispositivi “liberogeni” che dovrebbero produrre libertà ma che, in determinate situazioni di rischio, non fanno che produrre il suo contrario.
A partire dagli anni Settanta, lo Stato nazione si dimostra incapace di adeguarsi alla mondializzazione degli scambi; è costretto ad abbandonare quel ruolo capitanale nell’economia. Contemporaneamente si assiste all’erosione degli organi di organizzazione collettiva a difesa dei diritti dei lavoratori; nel quadro economico internazionale emerge una spietata concorrenza tra uguali e quindi l’urgenza di percorsi professionali mobili. Lo Stato è costretto ad accettare la sfida del mercato sovranazionale e lo fa sperimentando l’ impresa, a cui passa la leadership.
In una estenuante corsa al profitto, raggiungendo una vorticosa velocità, oggi si è giunti a chiedere al lavoratore di farsi ‘imprenditore di se stesso’; l’aggiornamento di cui necessita si configura come esclusivamente individualistico, dettato da un paradossale obbligo alla libertà.
La messa in mobilità generale introduce, tuttavia, nuove scissioni nel mondo occupazionale. Chi si profila come il ‘vincente’ del cambiamento[7] riesce a cogliere nuove opportunità e realizzarsi con esse professionalmente; dall’altro lato del progresso ci sono coloro che non hanno le possibilità di far fronte al mutamento e si trovano impotenti dinanzi ad un nuovo scenario spiazzante.
Si tratta di un contesto storico in cui la promozione di un certo gruppo dominante avviene a scapito di un altro gruppo, di cui si determina il declino. Se sul primo grava il rischio del burn out e dell’intensificazione eccessiva dei carichi di lavoro, il secondo è evidentemente segnato dal risentimento. Questo inedito risentimento produce frustrazione collettiva, un magma di invidia e disprezzo che induce alla ricerca spasmodica di capri espiatori, rintracciabili in livelli appena superiori o inferiori nell’ordine sociale[8].
Dunque, le categorie frustrate mirano sempre all’identificazione di un plausibile responsabile della loro condizione di emarginazione e abbandono. Alla luce di tale riflessione si spiegano i paradigmatici “problemi delle periferie” o “dei quartieri sensibili” che, in questi anni più che in passato, stanno assumendo un peso rilevante nella gestione delle città. In questi luoghi delicati si assommano la stragrande maggioranza dei fattori che producono insicurezza, sicché il riemergere dell’insicurezza sociale si salda inscindibilmente con quello dell’insicurezza civile. Continuare a pensare le periferie come fossero un ascesso[9] della apparente stabilizzazione delle società, significa sancire il ritorno delle classi pericolose, cristallizzarle in una posizione marginale di minaccia, come quella che rivestì il proletariato industriale nel XIX secolo.
Il senso comune di insicurezza si fa dunque più forte nelle periferie che altrove e l’odierno Stato sicuritario vi reagisce prendendo una scorciatoia. Il perseguimento di misure a “tolleranza zero” prevede la punizione dei colpevoli e la repressione dei reati, veri e propri cortocircuiti semplificatori che distolgono l’attenzione dai veri fattori responsabili del senso di insicurezza (disoccupazione, razzismo,etc.).
Questi dispositivi liberogeni (Foucault 1978), qualora siano perseguiti con determinazione dallo Stato che non vuole apparire lassista agli occhi dell’opinione pubblica, piuttosto che ridurre l’insicurezza collettiva la incrementano. L’individuo privato e atomizzato, “disincastrato” dalle pratiche di appartenenza collettive, è lasciato solo a districarsi tra le maglie pericolose della rete sociale, preda dell’iperindividualizzazione e della privatizzazione delle assicurazioni.
Il bisogno di protezione fa parte della “natura” sociale dell’uomo contemporaneo[10], lo stato di sicurezza è divenuto una sorta di condizione indispensabile alla sopravvivenza nella giungla della contemporaneità neoliberale. Lo Stato che sembra garantire al cittadino una protezione adeguata ed anzi eccedente, lo trasporta in realtà in una vera e propria frustrazione sicuritaria, per la quale non ci si sente mai abbastanza protetti e si ricerca, in una sorta di favola mitologica della sicurezza, la stabilità e la protezione perfette.
Nel capitolo conclusivo de L’insicurezza sociale Castel pone l’accento sull’importanza di ricominciare a produrre sicurezza per le diverse realtà professionali che costituiscono oggi un mercato del lavoro fluido e una professionalizzazione mobile del salariato. Per la crescente frammentazione degli impieghi occorrerebbe una continuità dei diritti legata non all’esercizio della professione, ma alle diverse forme di lavoro che possono essere svolte. Una batteria di diritti di transizione che comporterebbero e terrebbero conto di cambiamenti, biforcazioni e interruzioni all’interno di un contesto lavorativo che sempre più si allontana da uno schema di tipo ‘fordista’.
Infine, la ricetta di più ampio respiro che ci viene offerta dal testo è un ritorno alla socializzazione e alla collettivizzazione nella vita sociale,e non solo in quella lavorativa. Il sociologo francese propone anche collettivi di inserimento che centralizzino a livello locale i diversi partner ed enti, occupati nella riqualificazione delle persone in difficoltà, di quelle classi in declino di cui sopra. Un decisivo passo avanti per rendere possibile una dinamica di inserimento che può sfociare in pratiche di aggregazione e reintegrazione sociali, oltre che professionali.
La pratica di vita quotidiana continua a possedere rischi ineliminabili, di cui l’uomo sociale è chiamato a farsi carico personalmente. In una modernità impossibile senza mercato, ma allo stesso tempo schiacciata da esso perfino nella società civile, la sfida dell’oggi e del domani sarà quella di suggellare l’individualizzazione con l’obbligo alla mobilità, la desocializzazione del cittadino con l’assicurazione dello Stato, la ricerca di protezione con la domanda di libertà. La domanda che ancora una volta esplode, dirompente, è come (e se si può) addomesticare il mercato, pur non lasciandosi avviluppare dal rischio del riduzionismo economico, che non terrebbe conti di tutti i complessi fattori del sistema sociale[11].
Written by Maria Cristina Mennuti
Note
[1] M. Foucalt, Nascita della biopolitica, Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, p. 67-68.
[2] R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2011.
[3] Cfr. U. Beck, La società del rischio, Carocci Editore, 2013.
[4] R. Castel, op, cit, pag 28.
[5] M. Foucalt, op. cit, pag 70.
[6] Ivi, pag 71.
[7] R. Castel, op. cit, pag 46.
[8] ivi, pag 50.
[9] ivi, pag 55.
[10] ivi, pag 69.
[11] Cfr. Amartya Sen, La povertà genera violenza?, Il sole 24 ore, 2007.