Life After Death: l’intervista ad Antigone

L’occhio del cielo getta, proprio ora, un ultimo, implacabile sguardo d’accusa ai resti della Tebe delle Sette Porte. Nel suo decorso verso le montagne l’astro proietta sulla città una luce cremisi, innaturale, malata. Una luce che sembra imbrattare la città di sangue, che ne riporta in vita il massacro passato.

Antigone

Suona come un avvertimento muto, ma eloquente, rivolto a noi, turisti capitati fra le spoglie dell’antica potenza. Intanto la guida continua a snocciolare date e nomi, ma il cielo ci grava sulle spalle con un peso intollerabile, imponendoci un fardello tale che tutti noi siamo sospinti verso una malinconica introspezione. Appena la donna finisce di parlare – e non sono neppure sicura che abbia davvero concluso l’esposizione o se piuttosto si sia accorta del calo di attenzione – corro via. Mi dirigo veloce verso i resti, mossa da qualcosa a cui io stessa fatico a dare un nome.

Un’affinità elettiva inspiegabile mi guida oltre le mura, all’interno di quello che doveva essere il palazzo reale. Nonostante abbia visto le ricostruzioni dell’edificio e studiato a lungo l’elegante compostezza dell’architettura greca, guardandolo non posso che pensare ad un complesso tetro e aridamente estetico, dove le precedenti decorazioni sono state sostituite da festoni barocchi di muschi e licheni.

Non riuscirò mai a comprendere se ciò che successe dopo fu solo frutto del mio animo labile, turbato dalla visione della carcassa di quella che fu una delle più grandi civiltà che abbia mai popolato la Terra. Iniziò come una sorta ronzio, quella nenia tormentata e sofferente, un ϑρῆνος (canto funebre greco), che mi condusse appena fuori dai resti del palazzo, dinnanzi ad una scena che gli anni non cancelleranno mai dalla memoria. Una donna, inginocchiata sulla nuda terra, intonava il canto fra le lacrime, battendosi il petto, disperatamente china su di una tomba inesistente.

Ogni cosa attorno sembrava unirsi all’umore afflitto della donna: cominciava a scendere la notte, e il rombo di tuoni lontani forniva alla canzone una melodia cupa e disperata, mentre volute di morbida foschia ne circondavano la figura, come le ultime esalazioni di uno spirito esausto. Ciò che constatai subito fu che le sue vesti assomigliavano ai severi pepli delle arcaiche κόραι, ma l’identità della donna mi si svelò solo quando, in mezzo ai versi tremanti che ella intonava, identificai un nome tra le parole antiche e sconosciute: Polinice.

Antigone… – mormorai incredula.

Quella alzò i grandi occhi scuri verso il sorriso desolato di una notte senza stelle, che era calata scura sopra le nostre teste, poi lentamente incrociò il mio sguardo, e iniziai a parlare. Life After Death.

 

C. T.:  Antigone, sei vissuta nel mezzo di un mondo etico scisso a metà fra Stato e famiglia, che seguono leggi distanti, se non opposte: la legge degli uomini contro quella degli dei. Gli dei sono però lontani, essi non sanno niente della vita umana, della morte: perché allora scegliesti volontariamente di andare incontro alla tua condanna per seguire un’etica che non ti appartiene? Inoltre Achille – a rappresentanza di tutti i greci – affermò di preferire la più miserabile condizione di vivente, piuttosto che regnare sui morti, nell’assoluto nulla: quindi gli onori funebri non hanno veramente ragione d’essere, se non come mera consolazione per chi rimane. Allora perché, Antigone, perché rischiare tanto?

Antigone

Antigone: Non pensare che mi appartenga un codice etico promulgato da un mortale: la legge dell’uomo è artificiosa e debole. Ciò che mi spinge è qualcosa di più profondo e viscerale, una legge inconsapevole e inespressa, legata agli dei degli Inferi, divinità ombrose a cui solo le madri e le mogli in pena si rivolgono. L’uomo vive all’interno della polis: egli è cittadino, prima ancora che padre o marito. Noi donne, invece, tenute sotto chiave nelle nostre case, non viviamo che in funzione dei nostri affetti, in una società ristretta, la famiglia, che conserva tutta la sua naturale primordialità. Noi siamo plasmate dalla legge degli dei, ovvero dai legami di sangue. Ed è vero che oltre la vita io non mi immagino più nulla, e sì, i rituali funebri sono qualcosa che non hanno senso di per sé, e tuttavia sono essenziali, poiché sottraggono la morte da una dimensione prettamente fisica e naturale e la idealizzano.

 

C. T.: Così scegliesti di seppellire Polinice, esorcizzando il timore ancestrale della decomposizione. E nel tuo ribellarti alla legge umana ti sei opposta anche al destino sociale imposto nella tua condizione di donna: non fu anche contro Creonte come uomo che combattesti?

Antigone: La battaglia fra i sessi è uno scontro innato alla natura umana, che si protrae da secoli, e tuttavia rimane ancora il risolto. L’uomo si fregia del pensiero di Aristotele, che scrive di giudicare la donna “materia di scarto”, al pari di unghie capelli, e perciò vede l’organizzazione dello Stato naturalmente portata verso il patriarcato. E d’altronde anche il più democratico Platone, che nella sua repubblica ideale affranca la donna dalla reclusione casalinga e le accorda pari diritti all’uomo, ci considera essere umani di seconda scelta. Ma io sento scorrere in me un sangue antico, che ancora ricorda un’epoca lontana, quando il Pantheon era dominato dalla Πότνια Θηρῶν, una divinità ben più potente di ogni dio odierno, che sottometteva a suo piacimento la natura e gli uomini. I tempi correnti hanno depotenziato l’immagine della dea: gli artisti ne hanno coperto la nudità procreatrice e i sacerdoti hanno frantumato i suoi attributi suddividendoli fra più dee, che sono solo un pallido riflesso dell’originale. E io, figlia di Giocasta, che si squarciò il ventre col pugnale-il modo più virile di darsi morte- credo in quest’ordine primigenio, che esalta la donna che dà vita, piuttosto che l’uomo che la distrugge.

 

C. T.: Posso vederti e udirti Antigone, ma ho ancora la sensazione di trovarmi di fronte ad un’ombra irreale, uno spettro originato dalla mia testa. Come sfuggisti alla morte? Forse gli dei ti accolsero nel loro Limbo? Vivi nei Campi Elisi dividendoti fra le dolcezze del luogo e i languidi sguardi degli eroi?

Antigone

Antigone: Non fui amata dagli dei tanto da ascendere al loro cospetto, né mi beo dei dolci frutti delle Isole Fortunate. Il pallido guscio di carne che porta il nome di corpo l’ho già abbandonato da tempo, e malgrado ciò il mio δαίμων continua a vagare in mezzo agli uomini, sulla Terra, poiché ancora in vita promisi che la fede nelle mie azioni sarebbe sopravvissuta alla mia fugace esistenza umana. Ho cessato di essere Antigone: quel nome l’ho rinnegato ai margini della mia esistenza, ormai conservo solo il volto dell’Eterno Femminino.

 

Written by Claudia Tofanelli 

 

 

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