Le métier de la critique: Bertha Mason, Rebecca de Winter e Beate Rosmer: donne pazze o induzione alla sofferenza?

“So quello che ti ha detto. Che mia madre era pazza e una donna spregevole, che il mio fratellino che è morto era deficiente, un idiota alla nascita, e che sono pazza anch’io. Ti ha detto questo, non è vero?” – Jean Rhys, Il gran mare dei Sargassi

Figure of the Fool – Biblia Sacred Vulgatae Sixti Quinti Pont Max

Il pazzo, sia esso visto come persona sofferente di una malattia o il folle trattato in toni beffardi e caricaturali, è da sempre presente nei testi letterari. Si pensi a quanto sia importante la figura del fool nel teatro rinascimentale inglese e soprattutto in quello shakespeariano: si tratta generalmente di un pover’uomo, bistrattato da tutti, chiamato all’esigenza per portare ilarità, quale un clown, che è sottomesso alla sua funzione pubblica. Non un uomo che si fa portavoce del malessere denunciandone le asperità, ma un uomo-oggetto, impiegato ad uso e consumo degli altri per compagnia, divertimento, scherno e quant’altro. Si tratta, molto frequentemente, come ha messo in luce la critica, di un personaggio che, al di là dell’abbruttimento e dell’abbassamento che riceve da chi lo manipola, fuoriesce come una sorta di grillo parlante, se non un vero e proprio profeta senz’altro un annunciatore della realtà. Le sue parole non vengono mai prese in considerazione perché, appunto, per tutti è il matto e ciò che dice non solo non è recepito, ma deriso e burlato, sebbene il folle shakespeariano si riveli poi paradossalmente saggio o lungimirante. Un esempio su tutti è lo scapestrato folletto silvestre in Sogno di una notte di mezza estate, non apostrofato come pazzo ma che assolve a questa funzione. Robin Goodfellow, meglio noto come Puck, è un esserino burlone, grande stratega e ciarliero indomito, è buffo ma –come la storia dà testimonianza- è in effetti il vero artefice degli scambi di persona, delle varie messe in scena e, dunque, il vero regista di tutto.

Nel presente saggio ci dedicheremo con più attenzione all’analisi della condizione della donna pazza (o ritenuta tale) in alcune opere importanti della letteratura straniera: ci occuperemo in particolar modo di un must della letteratura mondiale ossia Jane Eyre (1847), il celebre romanzo di formazione di Charlotte Brontë che ha fatto sognare tutte le donne, di Rebecca, la prima moglie[1] (1938), romanzo di Daphne Du Maurier e di uno dei testi teatrali più noti nella produzione del norvegese Henrik Ibsen, Casa Rosmer[2] (1886). L’accostamento delle tre opere è significativo per lo studio che qui ci si propone ovvero l’analisi comparativa di tre casi umani, nello specifico di tre donne, presentate dai rispettivi autori quali pazze furiose. Cosa accomuna Bertha Mason, Rebecca de Winter e Beate Rosmer oltre alla pazzia? Sono semplicemente tre povere donne che, a seguito di un passato traumatico, una vita violenta e solitaria hanno visto la loro psiche inabissare nel tormento e nel delirio oppure dietro la loro condizione stereotipata che gli autori ci forniscono si nasconde dell’altro?

Alcuni brevi accenni ai plot delle tre storie risultano a questo punto necessari per poterle meglio localizzare all’interno di questa analisi caratteriale ed ambientale dove matura l’insania della donna.

Jane Eyre

Jane Eyre è la narrazione di una ragazzina orfana che, dopo varie avversità e incontri poco felici, riesce a costruirsi come “donna” anche grazie al suo approdo a Thornefield Hall, quale governante della giovane Adéle, la figlia che il padrone del maniero, il signor Rochester, ha avuto da un’unione con una ballerina francese. Ed è proprio lì, sin dalle prime notti in cui Jane dorme nel castello, che si percepiscono le prime avvisaglie di una presenza animalesca, per mezzo di risate scomposte, urla, versi impressionanti. Alla donna verrà dato di credere che si tratti di una vecchia della servitù che, ritiratasi nel piano alto della dimora, è dedita a cucire e spesso si ubriaca. Quel mondo che Jane percepisce da subito come ostile e misterioso viene così attribuito alla scorbutica e torva Grace Poole.

La minaccia dell’inconoscibile, prima rappresentata dal solo mezzo sonoro, si fa poi ben più grave quando a Thornefield accadono cose inspiegabili e spaventose: dapprima il rogo che viene appiccato di notte nella stanza di Rochester, poi il grave ferimento di un uomo giunto al castello come fosse stato assalito da un animale feroce ed infine, in procinto della cerimonia di nozze di Jane con il padrone, la rottura del velo nuziale della donna e il faccia-a-faccia di Jane con l’innominabile che le causa una grande paura e la porta a uno svenimento.

Ancora una volta a Jane, che assieme ad Adèle è forse l’unica a non avere le chiavi d’accesso al tormentoso segreto che aleggia su Thornefield, viene dato da intendere che quell’essere malvagio e dall’aspetto  indemoniato, non sia che Grace Poole, donna che lei non ha mai visto in altre circostanze e che dunque potrebbe anche essere. C’è una continua esigenza da parte di Rochester e di Madame Fairfax, la governante, di celare il mostruoso, di allontanare dalla vita del castello la presenza di un incubo reale che ricorre continuamente a seminare terrore e a causare gravi danni.

Presto la situazione degenera e si approssima a uno svelamento della verità nell’occasione che dovrebbe essere felice del matrimonio di Jane e Rochester. La cerimonia, infatti, viene brutalmente interrotta da un uomo dall’aspetto grezzo che dice di essere accompagnato dal suo avvocato e quest’ultimo dà comunicazione dell’impossibilità di Rochester di sposarsi in quanto già sposato. Di colpo Rochester non è più in grado di celare l’inganno: quello di una precedente moglie, Bertha Mason, completamente pazza e rinchiusa al terzo piano sotto la poco perspicace sorveglianza di Grace Poole. Solo a questo punto che lo spettro di casa Thornefield è svelato, Rochester conduce Jane al terzo piano della casa, seguito dagli altri convenuti al matrimonio, e con un fare molto scenografico presenta, infervorato, sua moglie agli altri. Così la Brontë ci descrive la scena apicale del romanzo:

La iena vestita si alzò e si drizzò sulle zampe posteriori. […] La pazza ruggì: si allontanò i riccioli arruffati dal viso, e fissò con occhi selvaggi i visitatori. […] La pazza si avventò [sul signor Rochester] e lo afferrò crudelmente alla gola, piantandogli i denti nella guancia: lottarono. La donna era grande, alta quasi quanto il marito, robusta: dava prova di una forza virile: più di una volta fu per strozzarlo, per quanto forte e atletico lui fosse. […] Infine riuscì ad afferrarle le braccia; Grace Poole gli diede una corda e lui gliele legò dietro la schiena: con altra corda, che aveva sottomano, la legò a una sedia. La donna intanto mandava urla feroci e si dibatteva selvaggiamente. Quindi il signor Rochester si volse verso gli spettatori: con un sorriso aspro e desolato disse: “Ecco cos’è mia moglie. (344-345) [3]

Chi conosce la storia del celebre romanzo ben sa che, dinanzi a questa scabrosa scoperta, Jane fuggirà disillusa e tormentata da Thornefield sebbene prima di abbandonare quel luogo ascolti tutta la lunga confessione di Rochester che le racconta di come si sposò con Bertha, in Jamaica, dietro un matrimonio contrattuale deciso dal padre e dal fratello. Lui – secondo il suo racconto – non aveva neppure avuto modo di conoscerla granché prima del matrimonio e, già a partire dal ritorno verso l’Inghilterra, in lei si erano manifestati dei segni di pazzia. L’autrice del romanzo non ci chiarisce bene quali ma sta di fatto che, nel giro di poco tempo, la moglie di Rochester venne bollata dal marito completamente matta e, pertanto, rinchiusa segretamente e cautelativamente al terzo piano della dimora di Thornefield. Se da una parte Rochester, cercando di motivare il suo trattamento di segregazione della donna, chiarisce che Bertha era profondamente pazza e veniva da una famiglia di imbecilli e folli, d’altro canto non manca di girare dongiovannescamente per l’Europa, avere relazioni, godere della bella vita, senza preoccuparsi in termini solidali di un possibile rimedio sanitario (o d’altro tipo) per la donna.

Rochester ha compiuto, infatti, un grave processo di segregazione della donna dal suo luogo natale (la Jamaica, i Caraibi), ambiente che si contraddistingue per una flora e una fauna molto ricca e variopinta completamente assente nel nebbioso Yorkshire, l’ha sottratta alla sua cultura, dalla sua lingua (il creolo), dalla sua famiglia e l’ha portata con sé in Europa quale semplice bottino di conquista. Difatti viene specificato nel romanzo che l’unione fruttò ai Rochester una somma di trentamila sterline. Si tratta di una delle tante invasioni e ruberie coloniali di cui l’Inghilterra fu la maestra indiscussa in questa fase politico-economica favorevole per l’Europa ma profondamente incisiva, spersonalizzante e violenta per le popolazioni indigene sfruttate e deportate.

Charlotte Brontë

Come osservato già in altri studi critici c’è poco interesse e compartecipazione e da parte di Rochester e Jane[4] e, per riflesso, da parte della stessa autrice del romanzo nei confronti di Bertha, metafora del mondo coloniale schiavizzato dal bianco. Si è discusso in merito a un pensiero di carattere etnocentrico nella Brontë, vale a dire di supremazia dell’uomo del vecchio continente, fatto che produce in maniera eclatante un vistoso disinteresse nei confronti della pazza e, cosa ancor più grave, delle ragioni della pazzia della donna. È chiaro che la Brontë era interessata alla costruzione di una storia in termini letterari e non all’eziologia dell’eventuale disturbo di Bertha, cosa per altro difficile da indagare essendo la Medicina dell’epoca ancora in fase embrionale in molti ambiti e dotata di metodi per lo più artigianali frutto anche di studi antropologici discutibili. A colmare questo ampio vuoto però ci pensò una scrittrice caraibica che nel 1966 pubblicò il romanzo Il gran mare dei Sargassi[5], una narrazione più breve se paragonata a quella della Brontë con la quale dava direttamente la voce al personaggio di Bertha Mason nella forma del prequel[6] dal grande mother text. In altre parole la Rhys, autrice postcoloniale di rilievo mondiale, diede sfogo tramite questa narrazione al suo snervamento dovuto al pregiudizio occidentale nella narrativa inglese. Così ci racconta la vita precedente di Bertha, quella che alla Brontë assolutamente non interessa investigare, a partire dall’infanzia, passando per l’adolescenza, sino al matrimonio con l’europeo, il viaggio verso l’Inghilterra e la segregazione. La Rhys non parla di una donna matta, ma di una ragazza sana e felice che è profondamente legata alla famiglia e ai suoi spazi, dove lo spauracchio della discriminazione razziale è una realtà sociale, raccontandoci pure gli episodi amari che è costretta a vivere quali il rogo della casa di Coulibri, la morte del fratello, l’antagonismo col fratellastro Cosway, l’alcolismo e la pazzia della madre.

Nella seconda parte del romanzo è l’uomo che sposerà Antoinette (si tratta del Rochester brontiano che nel romanzo della Rhys non è identificato per nome) a raccontarci della cerimonia nuziale:

Era tutto fulgido di colori, tutto stranissimo, ma per me non significava nulla. E non significava nulla nemmeno lei, la ragazza che stavo per sposare. Quando finalmente la conobbi le feci un inchino, sorrisi, le baciai la mano, ballai con lei. Recitai la parte che mi toccava. Lei era quanto di più lontano da me potesse esistere. Ogni movimento che facevo era uno sforzo di volontà e a volte mi stupivo che nessuno se ne accorgesse. (76) [7]

Fuoriesce un Rochester indifferente dinanzi al matrimonio, disinteressato e perplesso, stanco e spossato in quell’ambiente che non è il suo. Nel racconto del viaggio di nozze così si esprime:

Non la amavo. Avevo sete di lei, ma questo non è amore. Mi destava ben poca tenerezza, per me era un’estranea, un’estranea che non pensava e non sentiva come me. (96)”

sino a quando all’uomo non giunge una lettera da un fratellastro di Antoinette che sconfessa la sua intera famiglia. Nella missiva infatti era scritto:

Voi siete stato vergognosamente ingannato dalla famiglia Mason. Mr. Mason è soltanto il loro patrigno, ma non vi dicono che razza di gente erano questi Cosway. […] Il vecchio Cosway muore delirando come suo padre prima di lui. […] Questa giovane Mrs. Cosway[8] lei è incapace e viziata, non sa fare niente e in breve la pazzia che c’è in lei e in tutti questi creoli bianchi viene fuori. […] La pazzia sempre peggio e lei deve essere rinchiusa perché tenta di ammazzare il marito – e la pazzia non è tutto […] [Antoinette] non è una ragazza da sposare, col sangue cattivo che ha da una parte e dall’altra. […] La madre di vostra moglie è rinchiusa, pazza furiosa e peggio ancora? Morta o viva io non lo so. […] Il fratello di vostra moglie era idiota dalla nascita. […] Vostra moglie sta seguendo la strada della madre e tutti lo sanno? […] Il denaro è buono ma nessun denaro può compensare una moglie pazza nel vostro letto. (98-102)”

Dopo la lunga confessione del fratellastro di Antoinette e una serie di episodi mediante i quali l’uomo ha compreso che la donna che ha appena sposato nutre in latenza il germe della pazzia, si sente truffato[9] e il suo comportamento cambia di colpo facendosi ancora più algido ed intransigente nei suoi confronti. Inizia così l’odio dell’uomo verso Antoinette che, appunto, nominerà come Bertha inaugurando un articolato e doloroso sistema di spersonalizzazione che culminerà con l’abbandono dei Caraibi alla volta dello Yorkshire (“Non ridere in quel modo, Bertha. – Non chiamarmi Bertha, perché mi chiami Bertha? – Perché  è un nome che mi piace in modo particolare. Tu per me sei Bertha – Non ha importanza, disse lei”, 143).[10]

Il gran mare dei Sargassi

Nel racconto di Antoinette, nel quale cerca di recuperare i momenti cruciali per la sua storia, racconta all’uomo la causa della pazzia di sua madre per la quale poi venne derisa da tutti, una causa da ricercare in una vita fatta di tormenti e solitudine, di povertà e di ostacoli che si accanirono su lei quale il rogo della casa familiare, l’avvelenamento del cavallo, la morte del figlio, il violento clima sociale di emarginazione e segregazione nonché l’odio verso di lei del secondo marito, l’inglese Mason. Anche Christophine, l’anziana governante-amica di Antoinette, in un veemente colloquio con Rochester con la sua lingua imperfetta e sgrammaticata, frutto di commistioni del suo idioma creolo, osserva:

Quando lei perde il figlio lei perde se stessa per un poco e loro la rinchiudono. Loro le dicono che lei è matta, loro fanno come se lei è matta. Domande, domande. Ma nessuna parola buona, nessun amico, e a suo marito lui parte, lui la lascia. Loro non vogliono che io la veda. Loro non vogliono che Antoinette la vede. Alla fine lei… pazza io non so… lei cede, lei non importa più niente. Quell’uomo che la sorveglia lui la prende tutte le volte che vuole e la sua donna chiacchiera. Quell’uomo, e altri uomini. Allora lei è in mano loro. Ah non c’è nessun Dio. (169)”

Da una parte si forniscono, dunque, tutti i fattori e i motivi che hanno dominato e caratterizzato il sostrato psicologico e relazionale della donna che l’hanno poi traghettata alla sua notoria condizione di pazza (Antoinette, Christophine), dall’altra, invece, la follia viene richiamata demagogicamente quale connotato negativo in forma di colpa essendo di derivazione genetica, facente parte a una vena insana di trasmissione ereditaria (Cosway, Rochester).

Com’era stato per sua madre,  Antoinette si caratterizza per il riso sguaiato e preoccupante, per il camminare a piedi scalzi, per la gestualità avventata e violenta, l’irrequietezza:

Cercai di trattenere il suo polso con una mano e la bottiglia con l’altra, ma quando mi sentii addentare al braccio lasciai cadere la bottiglia. L’odore di rum colmò la stanza. Ma adesso ero infuriato, e lei se ne accorse. Spaccò un’altra bottiglia contro il muro e se ne rimase là immobile col vetro rotto in mano e l’assassinio negli occhi. (159)”

Oltre al pesante e poco felice passato familiare la donna rivive sulla sua pelle la dominazione dello straniero (com’era stata per sua madre con Mason) del quale diviene nolentemente schiava e concubina: il Rochester rhysiano, con noncuranza ed orgoglio maschile, la tradisce con la domestica Hilda proprio durante il viaggio di nozze e Christophine si rende conto, da alcuni lividi sul corpo, che suo marito la batte.[11] Nelle descrizioni di Antoinette si sottolinea l’aspetto fatiscente e malato, il gonfiore, la trascuratezza e le ferinità; è descritta o con gli attributi del mondo animale (non chiude mai gli occhi, fa versi gutturali, si muove di scatto, è violenta, morde, etc.) o del mondo diabolico avvicinata ad un mostro, a un vampiro, a un essere che incarna in sé il Male:

I capelli le pendevano scomposti e opachi sugli occhi, che erano fissi e iniettati di sangue, la sua faccia era tutta rossa e sembrava gonfia. Era scalza. (156)”

ed ancora a un’ossessa, dominata da una carica sessuale inarrestabile, perversa e assetata:

Lei ha sete di chiunque. (178)”

La cattiveria di Rochester sta nel fatto che, pur odiandola[12], non le consente di liberarsi dal suo giogo e continua a trattarla come una sua proprietà. Lui che la considera un mostro e una pazza dissennata paradossalmente non manca di godere del senso di proprietà, di questo potere che ha su di lei, negando qualsiasi possibilità di fuga per lei:

Non avrà nessun amante, perché io non la voglio, e lei non vedrà nessun altro. […] È pazza, ma è mia, mia. (179)”

Jean Rhys

Se Bertha viene trattata in maniera differente nelle due narrazioni Brontë-Rhys la scena del rogo[13] di Thornefield è perlopiù congrua: nel romanzo della Brontë la notizia della distruzione del castello viene data da un anziano locale che nel suo racconto[14] dice che il rogo fu appiccato da Bertha Mason mentre nel romanzo della Rhys non abbiamo gli effetti dell’incendio, bensì un sogno premonitore e l’intenzione di appiccare il fuoco, intenzione che non sappiamo poi se venga realmente messa in atto. Il finale della Rhys in effetti resta aperto all’interpretazione: chi vuole collegare i due romanzi strettamente, allora già sa cosa andrà a compiere Bertha al termine della storia chi, invece, vuole leggerli e approfondirli nella loro singolarità, nel loro viluppo narrativo scantonato da parallelismi di sorta, allora può avere il beneficio del dubbio:

Poi mi alzai, presi le chiavi e aprii la porta. Mi trovai fuori, con la candela in mano. Ora  finalmente so perché mi hanno portata qui e che cosa devo fare. Doveva esserci una corrente d’aria perché la fiamma guizzò e io pensai che si sarebbe spenta. Ma le feci schermo con la mano, ed essa tornò a splendere per farmi luce lungo il corridoio oscuro. (206-207)”

Ciò che è rilevante, comunque, è che nella terza parte del romanzo della Rhys, dove è la stessa Bertha a narrare, sembra davvero difficile concepire da come parla, dai movimenti accurati e studiati che segue, dalla sicurezza dei ragionamenti, dalle strategie che adotta, che sia una donna completamente pazza, irascibile e violenta, sconsiderata e pericolosa come effettivamente Rochester ce l’ha descritta in tutte le pagine precedenti. Se prima era stata rappresentata dominata da impulsi violenti ora sembra ragionare sulla sua desolante condizione (“Che cosa faccio, in questo posto, e chi sono?”, 195; “Credono che io non ricordi, ma io ricordo”, 204) e risoluta a perseguire un piano[15], segno evidente di una necessità di scoperta e di conoscenza ben avulsa dagli istinti ferini e diabolici di cui prima.

La prolifica scrittrice Daphne Du Maurier si inserisce, a suo modo, all’interno dell’ampia tradizione letteraria su Jane Eyre; nel suo celebre romanzo Rebecca – pur proponendo una storia in sé nuova – è difficile non cogliere gli elementi che palesemente richiamano l’opera bronteana: l’ambientazione gotica del castello dove si svolgono le vicende, il tema della seconda moglie nonché il mistero collegato a un precedente matrimonio.[16]

Rebecca narra, infatti, la storia di una giovane domestica[17] che inizialmente si trova nel sud della Francia, in Costa Azzurra, dove conosce Maxim de Winter, uomo facoltoso appartenente all’aristocrazia inglese, contraddistinto da un temperamento ambiguo che vortica tra momenti di sprezzo e indifferenza ad altri, più temperati, di curiosità verso la donna. Come non riconoscere nell’atteggiamento subdolo e nell’animo torvo dell’uomo i tratti del signor Rochester? Se il palcoscenico principale di Jane Eyre risulta essere la sontuosa ed ampia dimora ancestrale dei Rochester nello Yorkshire, Thornefield, nel romanzo della Du Maurier abbiamo un altro setting da favola, il castello di Manderley che si trova a metà tra campagna e mare, ed è da credere – sebbene non venga detto – essere situato nella contea della Cornovaglia. Per la giovane donna Manderley – un po’ come per Jane Eyre – rappresenta un mondo fiabesco, dove l’esistenza non può che essere pensata in maniera felice e spensierata, nello sfarzo degli spazi interni e nella comunione con gli ambienti naturalistici che la circondano.

Avvicinata dal signor de Winter e in qualche modo sedotta dai suoi modi gentili e dalle maniere eleganti, inizia un colloquio tra i due con il quale l’uomo viene a conoscenza della condizione della donna che è da sempre infatuata del castello di Manderley di cui custodisce gelosamente una cartolina. La possibilità di pranzare con l’uomo è da lei concepita come momento importante per un reale avanzamento “sulla scala sociale” (30). Percepita una certa condivisione di intenti e un benessere che secondo la donna non può che mantenersi se non accrescere unendosi a de Winter, i due si sposano in maniera molto veloce e trascorrono il viaggio di nozze a Venezia al ritorno del quale arrivano nella tenuta di Menderley (la descrizione dell’ambiente visto per la prima volta dagli occhi della donna che la Du Maurier fa è degno della più alta narrativa di ogni secolo).

Rebecca La prima moglie

I parallelismi tra Jane Eyre e l’anonima protagonista del romanzo della Du Maurier sono numerosi: entrambe sono orfane e non hanno un aspetto particolarmente avvenente, entrambe sono donne timide e molto meditative, amanti del semplice e della natura, nessuna delle due sa cavalcare (a differenza delle donne d’alto rango del periodo) né ama intrattenersi in attività all’aria aperta che in qualche modo sarebbero più affini all’uomo e che presuppongono una certa prestanza fisica. Entrambe amano disegnare ed entrambi i signori sono felicemente sorpresi dalle doti artistiche delle due. Sia Rochester che de Winter chiedono la mano alle rispettive donne inaspettatamente tanto che le due di tutta prima si mostrano, prima di accettare, confuse e sbalordite sia per l’avventatezza con la quale la proposta matrimoniale viene fatta sia perché entrambe si sentono avulse da quel mondo aristocratico. In de Winter, addirittura, lo scetticismo della donna dà luogo all’adozione di una terminologia offensiva, apostrofandola come “ignorante” e “stupida (56). La mutabilità dei due uomini da personaggi torvi e irriducibili a uomini solidali e comunicativi è, in entrambi i romanzi, assai spiazzante. Entrambe le donne entrano, infine, nei due fastosi ma cupi universi domestici familiari che sono imbevuti di misteri ed inganni vivendo dei momenti assai difficili e tormentosi.

Sin dalle prime pagine l’autrice ci parla di Rebecca, la prima moglie del signor de Winter che circa un anno prima è morta affogata poco distante dalla costa vicino Manderley. Si nutre, già dalle prime volte che la donna viene nominata, l’idea che Rebecca sia in qualche modo ancora viva nel ricordo dei suoi cari, tanto da rappresentare una presenza fissa e ingombrante, dolorosa e incancellabile un po’ come i ricorrenti spettri che tornano a visitare Casa Rosmer in Ibsen. È così ad esempio che avviene con la visione dei primi oggetti che richiamano l’appartenenza di Rebecca:

Lei era morta e non ci si dovrebbe dar pensiero per i morti. Che riposino in pace, che l’erba vigili sulle loro tombe. Eppure quanto sembrava piena di vita, quella dedica, così carica di forza. Quelle strane lettere inclinate. La macchia di inchiostro. Ieri. Sembrava scritta appena ieri. Tirai fuori dalla mia borsa le forbicine da unghie e tagliai via la pagina, guardandomi alle spalle come una criminale. (61)”

Ero seduta sulla poltrona di Rebecca, ero appoggiata ai cuscini di Rebecca e il cane era venuto a posare il muso sul mio ginocchio perché questa era la sua abitudine e si ricordava che in passato lei gli aveva dato uno zuccherino. (81)”

Ed è questo il sentimento con il quale la giovane vivrà a Manderley nella dolorosa ed opprimente situazione che tutto appartiene a Rebecca, che tutti continuano a ricordarla, a nominarla e ad amarla come fosse in vita (compresi i cani), che ogni ambiente è stato da lei attraversato e vissuto, che la poltrona nella quale siede o la scrivania dove si ritira a scrivere in realtà è come se non fossero oggetti suoi perché erano di Rebecca e per tutti – l’arcigna governante Danvers e gli altri uomini della servitù – ancora è così. La donna vivrà così nell’ombra di Rebecca soffrendo questo complesso di inferiorità: la governante Danvers si mostrerà sempre rigida ed indisponente verso di lei percependola come la persona che ha la volontà di sostituire la prima moglie di de Winter. Dal canto suo lei intende semplicemente vivere la sua vita con Maxim, la sua vita coniugale, ma viene continuamente infastidita dal pesante passato di Rebecca che ritorna vivo tanto da non permetterle di vivere come ella vorrebbe: la cognata Beatrice, dalla terribile sincerità non mancherà di dirle, quasi con un tono d’accusa:  “Siete così diversa da Rebecca” (108). Ogni cosa che viene detta o fatta dalla donna, infatti, viene puntualmente considerata in raffronto a ciò che Rebecca avrebbe detto o fatto finendo per svilire la sua natura di donna libera continuamente sottoposta a paragoni che non solo la seccano[18] ma psicologicamente motivano in lei un desiderio di voler in qualche modo essere come Rebecca, con il fine di ottenere l’amicizia, la considerazione e l’amore di tutti coloro che vivono a Manderley e la considerano un’estranea, una donna che non ha nessun diritto di occupare quel posto.

Tuttavia c’è in lei una forza di volontà ad andare avanti e a fronteggiare le pesanti giornate che si succedono che probabilmente la compassata Jane Eyre non sarebbe mai riuscita a sostenere, preferendo la fuga; la donna, infatti, forte dell’amore per de Winter, galvanizzata dalla proprietà di Manderley che ora le appartiene, cerca di condurre nella maniera più spontanea la sua presenza lì alla tenuta sebbene ogni singolo discorso, ogni oggetto che tocca, ogni domanda, soprattutto se rivolta alla signora Danvers, finisce poi per riportare il discorso su Rebecca le cui doti umane, fisiche e caratteriali vengono di continuo esaltate e invocate come inarrivabili da nessun’altra donna:

Ma d’altra parte lei era così intelligente, capace… […] Era piena di risorse. […] Era davvero bellissima. E poi si occupava in prima persona della casa. (126-127)”

Le continue qualificazioni con le quali Rebecca viene richiamata ed adulata servono ai vari personaggi, più o meno indirettamente, per far capire alla donna che lei non è come Rebecca e che, anzi, è il suo esatto contrario: non ha la sua bellezza, non è così abile né ha doti manuali, non è pratica né organizzata come lei. Si tratta di un metodo di abbassamento, questo, fatto per negazione ma che non ha meno ingerenza nella vita della giovane rispetto ad accuse dirette, offese mirate, sistemi denigratori puntuali. Difatti la conclusione che la donna è portata a fare è amara e non potrebbe essere diversamente:

Lei possedeva tutte le doti che mancano a me, la sicurezza, la grazia, la bellezza, l’intelligenza, l’arguzia – insomma tutte le doti che contano, in una donna. (135)”

Tra le varie doti che lei elenca quella probabilmente  più difficile da raggiungere è proprio quella della bellezza. Si può diventare intelligenti e manifestare una maggiore scaltrezza nella vita ma o si è o non si è belli. Ed è questo l’ambito di paragone che la donna più soffre nei confronti di Rebecca rinsaldato ancor più da un altro membro della servitù, Frank, che, incalzato dalle sue domande, rivela in maniera schietta:Sì, era la più bella creatura che io avessi mai visto in vita mia, credo” (137).

Daphne Du Maurier

Il puttino rotto sbadatamente dalla donna, oggetto appartenente all’ampia memorabilia di Rebecca, potrebbe in effetti caricarsi di un significato cruciale ad intendere la rottura e l’allontanamento da quel passato così pressante alla tenuta quale il segno di una vera e  propria svolta con la quale la nuova padrona, la nuova signora de Winter, potrebbe manifestare spontaneamente la sua predisposizione estetica verso determinate realtà senza vivere nell’ombra dell’ingombrante presenza di Rebecca alla quale tutti gli altri si approcciano in maniera sottomissiva, adulatrice, osannante e quasi eroica. Tuttavia l’episodio non viene caricato di questa possibile interpretazione ed, anzi, ciò che la donna ha incautamente commesso viene visto quasi come una sorta di profanazione di quel mondo mitico che si tende a perdurare legato alla figura di Rebecca.

Rebecca non è solo un fantasma che ricorre sempre ma è un vero e proprio assillo per la signora Danvers e gli altri che vivono a Manderley tanto che ben presto anche per la nostra diventerà una ossessione mal governabile sfociante in forme di allucinazioni pre-delirio. Si ha continuamente l’impressione che Rebecca possa entrare da un momento all’altro da una delle stanze della casa, di potersela trovare lì, seduta comoda sulla poltrona oppure di scorgerla impegnata in mare per una delle sue navigazioni di svago. Il presente che si vive non è altro che una forma di attesa, pure snervante, per la prossima venuta di Rebecca, sia in forma di memoria, che di evanescente sensazione, sia addirittura – meno realisticamente ma più palpabile – in un suo reale ritorno. La vita della nuova signora de Winter si iscrive in questa fase di incertezza e sospensione, di cupezza e insita negazione della beatitudine, volta non tanto all’osservanza mesta del lutto, piuttosto alla grigia inquietudine della snervante attesa di un colossale stravolgimento negli eventi e nei ruoli. Rebecca è realmente morta o può effettivamente ritornare in carne ed ossa sulle scene? Il lettore se lo domanda in maniera introspettiva mentre continua la lettura. Tale percezione è oltremodo amplificata nel momento in cui la nostra – scortata dalla signora Danvers – visita quella che fu la camera da letto di Rebecca:

Forse tra un istante, Rebecca sarebbe rientrata nella stanza, si sarebbe seduta davanti allo specchio della toeletta, canticchiando, poi avrebbe preso un pettine e si sarebbe sistemata i capelli. […] Era morta. Era morta da un anno. Il suo corpo era sepolto nella cripta della chiesa, insieme a tutti gli altri de Winter defunti. (168)”

Questa è la via di fuga che la donna impiega ogni volta che il fantasma di Rebecca torna a visitarla in maniera tormentosa, ossia quella di ripetersi, come un mantra, che la donna è morta. La condizione della morte, però, come si nota bene per tutto il corso della storia, non è perentoria, inscalfibile ed assoluta in quanto la signora Danvers e gli altri[19] ben sanno che fisicamente Rebecca sia deceduta ma continuano a tenerla viva con loro, forse non avendo mai elaborato il lutto o non riuscendo in nessuna maniera a credere quanto una notte di un anno prima è accaduto:

Non si direbbe mai che lei se ne sia andata da tanto tempo. Sembra che sia appena uscita e che debba tornare da un momento all’altro. […] Sento la sua presenza ovunque. (175)”

Avendo introiettato a sé quel clima di sospensione e di sopravvivenza (la casa e i suoi abitanti sembrano sopravvivere da quando Rebecca è venuta a mancare) e caduta in un malefico tranello della governante Danvers, nell’occasione della serata che i de Winter hanno deciso di dare e nella quale ciascuno si presenterà sotto travestimento, la protagonista decide di indossare l’abito di una ascendente del nobile casato che ha visto in un dipinto non sapendo che quell’abito venne indossato in un’ultima occasione dalla stessa Rebecca nel corso di un altro ricevimento. Lei, che ha sempre fatto in modo di difendere la sua identità tenendosi distante da quella di Rebecca con la quale tutti l’hanno sempre paragonata, si trova ora in una situazione assai sconveniente, quella, appunto di inscenare Rebecca, quasi avesse voluto imitarla o prendere il suo posto. L’intendimento malevolo della signora Danvers crea grande disturbo e un senso di nutrita colpevolezza nella donna. Anche il marito, visibilmente angustiato da questa triste macchinazione, se la prende con lei e la obbliga subito a cambiarsi d’abito. Si è manifestato, a questa altezza dell’opera, ciò che la donna ha sempre negato e tenuto distante da lei ossia la copiatura di Rebecca che, però, amata ed adulata all’inverosimile da tutti, non può di certo essere ri-rappresentata da qualcun altro. Il gesto viene visto come cinico e inopportuno, oltraggioso e crudele e rappresenta forse l’esacerbamento di quell’atteggiamento intimo conflittuale con l’altro da sé. La donna – come per il puttino che ha fatto cadere e che si è rotto a terra – non ha orchestrato le sue azioni con la finalità di oscurare la personalità di Rebecca, ma si è semplicemente resa responsabile di una sua personale azione e decisionalità priva di torve finalità. Tutto questo genera in lei una riflessione pessimistica della sua condizione e del suo ruolo a Manderley nella quale non facciamo difficoltà a leggere la conseguenza di un periodo di pesanti violenze psicologiche subite in solitudine:

Quel che avevo creduto essere amore per me, per me come persona, non lo era affatto. Semplicemente, lui era un uomo e io sua moglie, ero giovane e lui si sentiva solo. Non mi apparteneva, per nulla. Apparteneva a Rebecca. Pensava ancora a lei. E per via di Rebecca, lui non  mi avrebbe mai amata. Rebecca, come aveva detto la signora Danvers, era ancora presente; era in quella camera dell’ala occidentale, era in biblioteca, era nel soggiorno, nella galleria che sovrasta l’atrio. La sentivo perfino nella minuscola stanzetta del giardinaggio, là dove era ancora appeso il suo impermeabile. E nel giardino, nei boschi, nel cottage in pietra sulla spiaggia. I suoi passi risuonavano lungo il corridoio, il suo profumo aleggiava sulle scale. La servitù obbediva tuttora ai suoi ordini, mangiavamo quel che piaceva a lei. Le stanze erano piene dei suoi fiori preferiti. I suoi vestiti erano ancora negli armadi della sua stanza, le sue spazzole sulla toeletta, le sue scarpe sotto la sedia, la camicia da notte sul letto. La padrona di Manderley continuava a essere Rebecca. Rebecca era la vera signora de Winter. Io qui non c’entravo nulla. […] Non appartenevo né a Maxim né a Manderley. […] Rebecca, sempre Rebecca. Mi imbattevo in Rebecca ogni volta che mi aggiravo per Manderley, ogni volta che stavo seduta, perfino nei miei pensieri e nei miei sogni. […] Io potevo combattere con i vivi, ma non contro una morta. […] Ma Rebecca non sarebbe mai invecchiata, sarebbe rimasta sempre uguale. E io non potevo combattere. Era troppo forte, lei. (236-237)”

Why – by Dream Sweetdreams

Sola e incompresa, nella profonda desolazione, la donna comincia a nutrire i primi segni di una impossibilità di fuoriuscire da quell’ambiente dove Rebecca domina incontrastata su tutti e, per la prima vera volta, è abbattuta e si sente incapace di gestire la soluzione, convinta che lì a Manderley non cambierà mai niente e che lei da sola è troppo inefficace per farsi portavoce del nuovo (neppure de Winter, il marito, le dà man forte sostenendola nella sua solitudine ambientale e psicologica) tanto ché la donna dice di aver perso. Non perché non abbia combattuto o lo abbia fatto in maniera sbagliata, semplicemente perché non ha i mezzi per contrastare quella presenza assordante e tutto ciò che è connesso perché, come dice, non è possibile duellare con una presenza immateriale. Vivendo vaporizzata nell’aria che si respira a Manderley, la nuova signora de Winter non può in nessun modo, nemmeno mediante l’indignato colloquio con la governante Danvers, annullare la presenza di Rebecca, alleviarla o mitigarla in modo da consegnarla al dolce ricordo e liberandola dalla malata tirannia della mente.

La governante Danvers, che mai ha mostrato un gesto di vicinanza, comprensione o di amicizia nei confronti della giovane, è anch’essa esasperata dall’intera questione venutasi a creare e non accetta che la donna se ne giri in casa per le stanze di Rebecca, a toccare le sue cose, con l’intento di colmare il suo vuoto e addirittura giunge a intimarle la morte. Non la minaccia che la ucciderà, ma, operando sulla sua sconquassata condizione psicologica, cerca di indurla al suicidio:

Non riuscirete mai a spuntarla, contro di lei. La padrona di casa è ancora lei, anche da morta. Lei è la vera signora de Winter, non voi. Voi siete l’ombra, voi siete lo spettro. Voi siete dimenticata, indesiderata e messa da parte. E allora perché non le lasciate Manderley? Perché non ve ne andate? […] Perché non ve ne andate? Qui non vi vuole nessuno. Neanche lui vi vuole, non vi ha mai voluta. Non riesce a dimenticarla. Desidera essere di nuovo da solo con lei, in questa casa. Voi dovreste giacere in quella cripta della chiesa, non lei. Voi dovreste essere morta, non la signora de Winter. […] Che senso ha la vostra vita a Manderley? Non siete felice. Il signor de Winter non vi ama. Non mi pare ci siano molti motivi per continuare a vivere. Saltate e morite. Smetterete di essere infelice. (249)”

Ed ecco allora il punto di contatto che la storia ha con il tema della pazzia qui investigato. A tutti è sempre stato dato di credere che la morte di Rebecca fosse dovuta o a un’azione suicidiaria oppure a un maledetto incidente in mare di notte che poi provocò l’inabissamento del mezzo e il suo annegamento. Tuttavia una sera viene data notizia di una imbarcazione in avaria che ha urtato pesantemente contro un relitto sul fondale e, facendo gli opportuni controlli, viene portata a galla la vecchia imbarcazione e identificata essere quella di Rebecca con grande stupore quando nella cabina viene trovato un cadavere ormai profondamente rovinato. Alla luce di questo rinvenimento e di altre strane circostanze, compresa la dichiarazione di Favell che è convinto che Rebecca mai si sarebbe suicidata, si diffondono illazioni in merito alla morte della donna e si comincia a parlare di omicidio. Il signor de Winter viene di fatto condotto in sede di tribunale per dare la sua versione dei fatti e per discolparsi dalle accuse di omicidio della moglie, crimine che, però, c’è veramente stato e che l’uomo confida segretamente alla nuova moglie senza che questa ne risulti troppo turbata:

La donna sepolta nella cripta non è Rebecca. Quella morta è una sconosciuta, che nessuno ha reclamato, venuta da chissà dove. Non è stato un incidente. Rebecca non è affatto annegata. L’ho uccisa io. Le ho sparato, nel cottage sulla spiaggia. Ho trasportato il corpo fino alla cabina, ho portato la barca al largo e l’ho affondata, lì dove l’hanno trovata oggi. Il cadavere sul pavimento è il suo. E adesso sarai ancora capace di guardarmi negli occhi e dirmi che mi ami? (269)”

La presenza di Rebecca si è sentita vivida nel corso di tutta la storia ed in effetti, pur morta, non era a riposare nella cappella del camposanto ma le sue spoglie erano inabissate nel fondo del mare, ancora a contatto con la vita. Il fondale che, come il terzo piano del castello in Jane Eyre, è antro di mistero e custode del male, un male che non può essere in ciascun modo arginato e represso perché sempre ritorna fuori e nel peggiore dei modi.

A partire da questo momento ci viene data una descrizione di Rebecca che non è in linea con quella edulcorata e adulatrice che ne ha fatto sempre la signora Danvers; de Winter, infatti, ci parla dei vizi della donna e del suo comportamento poco mansueto, della sua spietatezza e del fatto di non essere una “donna normale”, idea questa che potrebbe farci intendere che Rebecca fosse affetta da una qualche forma di insania, aspetto che potrebbe essere suffragato, poche pagine dopo, quando de Winter la definisce “povera malata (280). Nei brevi stralci in cui viene richiamato il comportamento della moglie de Winter riporta anche elementi che concernono la lascivia della donna, quasi fosse un’ossessa, attratta da vari uomini con i quali si univa sessualmente, spesso anche all’interno della stessa dimora di Manderley:

Pensi che l’avrei uccisa se l’avessi amata? La detestavo, te lo assicuro. Il nostro matrimonio è stato una farsa, fin dal primo momento. Era crudele, odiosa, marcia fino al midollo. Non ci siamo mai amati, non siamo mai stati felici. Rebecca era incapace di amare, di provare tenerezza di comportarsi correttamente. Non era una donna normale. (274)”

Anche il timore reverenziale e l’ossessione che la protagonista aveva sempre provato nei confronti di Rebecca è ormai dissipato per sempre come è lei stessa a raccontarci, ora che si è rotto il velo che copriva l’intero mistero:

Mi rendevo conto che Rebecca non mi faceva più paura. Non la odiavo più. Ora che sapevo quanto era stata diabolica, sadica e corrotta, non la odiavo più. Non poteva farmi male. […] Il suo corpo era tornato, la sua barca – con quel suo strano nome profetico, Je reviens – era stata recuperata. Ma io mi ero liberata per sempre di lei. […] Rebecca non aveva vinto. Aveva perso. (287-288)[20]

Nel frattempo l’ultimo amante di Rebecca, Favel, accusa pesantemente de Winter di essere l’artefice della morte di Rebecca e viene chiamato il giudice Julyan: l’intera vicenda, come già anticipato, finirà in tribunale e sarà caratterizzata da fasi alterne di favore ora all’una ora all’altra parte sino a che ci sarà una rivelazione importante che porterà il tribunale a confermare il suicidio di Rebecca ossia il fatto che nella mattinata dello stesso giorno della sua morte era stata visitata da un medico ginecologo. Al di là del fatto che la donna aveva problemi all’utero che non le consentivano di poter avere figli, il dottore era al corrente dell’aggravamento dello stato di malattia della donna, attaccata da un tumore non operabile né guaribile e ormai alla sua fase finale. La confessione del medico va a supporto della posizione di de Winter che, pur essendo la vera ed unica causa della morte della donna, ora è in grado di sviare la sua colpevolezza trincerandosi dietro la verità, documentata appunto dalla confessione, che la donna fosse seriamente malata fisicamente ed in procinto alla morte, ragioni per le quali, in un momento di scoramento, sarebbe nata l’idea di uccidersi.

È una soluzione di comodo attorno alla quale si rinsalderà quel rapporto tra l’uomo e la nuova signora de Winter che, essendo a conoscenza della verità e tacendola, è un po’ assassina anche lei stessa. Ecco allora che, come per il precedente romanzo qui analizzato, viene da chiedersi se Rebecca fosse realmente pazza (come sostiene il marito) o realmente malata (come sostiene il medico della donna) compreso il fatto che il dottore potrebbe anche essere stato minacciato e corrotto da de Winter, in via segreta, a raccontare il falso. La constatazione di non poter avere figli potrebbe averla condotta a percorrere un tunnel di disperazione senza fine similmente a Yerma di García Lorca? La considerazione che sembra più plausibile fare è quella che Rebecca – malata o meno – sia stata uccisa semplicemente perché donna ingestibile, peccaminosa, non facilmente assoggettabile, avvenente ma dall’insopprimibile carica erotica, disdicevole e perigliosa per un uomo dell’alta società quale de Winter.

Casa Rosmer di Henrik Ibsen

Ci approssimiamo ora all’analisi dell’ultimo testo preso in considerazione nel presente saggio ovvero Casa Rosmer di Henrik Ibsen, tragedia in quattro atti pubblicata nel 1886 e rappresentata per la prima volta a Bergen al Norske Theatre l’anno successivo.

Qui il drammaturgo norvegese mette in scena la rottura sociale tra il mondo tradizionalista e conservatore e le ventate emancipazioniste che credono nel progresso e vogliono il rinnovamento. Casa Rosmer, magione aristocratica dove risiede l’omonima famiglia da vari secoli, diventa il palcoscenico privilegiato delle macchinazioni, degli inganni e delle minacce che terranno legati i tre personaggi principali della storia: Johannes Rosmer, il padrone, che è un pastore luterano rimasto vedovo della moglie Beate, Rebekka West, l’ex dama di compagnia della moglie del padrone poi rimasta nella casa e convertitasi in confidente-amante e il preside Kroll, cognato di Rosmer.

Rosmer, dopo un periodo di depressione e di vera disperazione che ha fatto seguito al suicidio della moglie, annegatasi nel piccolo lago nel parco della villa, grazie alla presenza costante della trentenne Rebekka riesce a risalire la china e ad inaugurare una nuova vita. L’uomo, sensibile ai tempi che cambiano, fa suoi i moniti di rinnovamento che nel paese si stanno manifestando e stanno prendendo piede[21] che, invece, ostacolano e ridicolizzano la presenza del conservatore Kroll, indefesso rappresentante dell’autorità e del patriarcato. Tutta l’opera è tesa a mostrare i rapporti di forza che si creano tra i vari personaggi, spesso per mezzo della bieca adulazione, della facile persuasione e dell’impiego del ricatto, nonché le tensioni emotive che si producono.

Ciò che interessa qui non è, però, lo svolgimento della vicenda piuttosto far luce sulla figura di Beate, la prima moglie di Rosmer, che viene detto essersi suicidata al culmine del suo stato di pazzia. Pazzia che non viene in qualche modo documentata se non per mezzo di semplici indicazioni che risultano vaghe e pretestuose e che possono instillarci il tarlo che ci fa chiedere se realmente la donna fosse pazza o se venne indotta al suicidio.

Di Beate ci viene detto che non amava i fiori, il profumo ed i colori in casa e che conduceva una vita assai appartata, nel grigiore dei giorni, lontana da momenti di convivialità e di benessere fisico, Rosmer la definisce con spregio “quella povera malata (528)[22] mancando – come nel caso di Rochester con Bertha – di solidarietà e aiuto nei confronti dello stato disagiato della coniuge.

Quando il preside Kroll, sormontato da un cinismo che grava sull’intera storia, in maniera velata induce Rosmer a credere che sia lui l’artefice della pazzia e poi del suicidio di Beate, il padrone di casa sconfessa quelle parole sostenendo di aver fatto tutto ciò era in suo potere per salvarla. Dichiarazione, questa, che, come dimostrerà lo svolgimento, non è che mendace. Dal canto suo Rosmer non manca di far riferimento alla “irrefrenabile selvaggia passionalità (549) di Beate, istinti sessuali che egli non ricambia essendo disattento e addirittura indifferente all’universo erotico, un po’ come più tardi accadrà anche nei confronti di Rebekka. Se Torvald in Casa di bambola era un uomo virilmente potente al punto di compromettersi in un inconsulto tentativo di stupro verso la moglie, Rosmer mostra un’attitudine rilassata, da pace dei sensi, al punto tale di provare una sorta di fastidio verso la sfera sessuale che finisce per spaventarlo, come ha osservato Roberto Alonge.

Veniamo a sapere che il carico di quella sofferenza che si fa gradatamente lancinante e insostenibile in Beate è originato dall’impossibilità di avere figli,[23] ma non viene specificato per quale ordine di ragione, un po’ come accade alla tormentata Yerma che, però, in conclusione, eviterà di dirigere le pulsioni di morte contro se stessa.[24] Ancora una volta Rosmer allontana da sé la causa di quella morte individuando in un malessere personale della donna, radicato nella sua coscienza, la reale origine del pensiero auto-annullante:

ROSMER: Sono i nervi del suo cervello sconvolto, che l’hanno spinta sulla falsa strada della pazzia. (550)”

Kroll, però, rincara la dose e confessa che il desiderio di darsi la morte della sorella sarebbe derivato dal fatto che lei aveva ben compreso il rapporto amicale ed amoroso di Rosmer con Rebekka e che, nel sentimento di nullità che viveva, aveva deciso di sacrificarsi, di eliminarsi come elemento di disturbo nella realizzazione di quella coppia.

Henrik Ibsen

Nel momento in cui un altro personaggio si fa portavoce di una vecchia lettera che la signora Beate gli aveva consegnato nella quale parlava del suo sentimento di malessere a Casa Rosmer, l’uomo non è più così convinto nel sostenere che lui non abbia avuto parte attiva nel suicidio della moglie ed entra in una crisi di coscienza profonda, dubitando della sua bontà e correttezza nei confronti della moglie, dalle quali Rebekka cerca di risollevarlo:

ROSMER: Oh quale battaglia deve aver combattuto. E combattuto così da sola, Rebekka. Disperata e assolutamente sola. – E alla fine quella commovente – vittoria accusatrice – nella gora del mulino. (Si getta sulla sedia davanti allo scrittoio, appoggia i gomiti sul tavolo e si copre il volto con le mani.)

REBEKKA: (si avvicina a lui da dietro cautamente) Ascolta ora, Rosmer. Se fosse in tuo potere richiamare Beate – a te – a Casa Rosmer, – lo faresti?

ROSMER: Oh cosa so io, di ciò che farei o non farei. Io non ho altro che un pensiero, e quello unicamente, – che è irrevocabile.

REBEKKA: Ora tu dovresti incominciare a vivere, Rosmer. Tu avevi già incominciato. Tu eri diventato pienamente libero – in tutti i sensi. Tu ti sentivi gioioso e leggero –

ROSMER: Oh sì, vedi, – questo lo credo certamente. – E così è arrivato questo peso opprimente. (563)”

Il “malaugurato fantasma” (564) di Beate, che Rosmer oramai dopo un anno e mezzo dalla sua morte in qualche modo era riuscito ad esorcizzare e allontanare da sé, di colpo ritorna e in maniera pressante a invadere la sua mente, facendolo sentire profondamente in colpa e ancora più vulnerabile (“Ho passato a riflettere su questo tutta la notte. Beate forse ha visto giusto comunque”, 573) in maniera non molto diversa dalla presenza ossessiva di Rebecca che si percepisce in tutta l’opera della Du Maurier.

Casa Rosmer è gravata da un senso di morte e di maledizione, di peccato[25] e adulterio coniugale[26], tanto che Rosmer finisce per comportarsi in maniera bizzarra ed avventata, cercando di annullare quel ritorno dei “cavalli bianchi[27] di cui si percepisce in maniera ineludibile il presentimento. Lo fa ad esempio con l’espediente strumentale della richiesta di matrimonio nei confronti di Rebekka che, per la seconda volta, viene rigettata dalla donna.

Rebekka, da donna che è sempre stata vicina all’uomo fomentando i suoi spiriti emancipazionisti e illudendolo del suo amore (forse, visto che, comunque, non lo vuole sposare), di colpo riceve un duro contraccolpo quando il perfido preside Kroll le comunica di essere a completa conoscenza della sua vita passata nella quale la donna fu legata incestuosamente al padre e che minaccia di rivelare tutto a Rosmer decretando non solo la perdita della sua reputazione ma anche l’infangamento di Rosmer e del suo casato. Ecco allora che Rebekka, per fuoriuscire a una condizione di profonda inquietudine, rivela[28] ai due uomini che è lei l’unica responsabile del gesto suicida di Beate:

REBEKKA: Non sei tu, Rosmer. Tu sei innocente. Sono stata io, che ho attirato -, che sono arrivata ad attirare Beate sul cammino sfrenato (584).

REBEKKA: Io volevo disfarmi di Beate. In una maniera o in un’altra. Ma comunque io credevo che mai sarebbe arrivato. A ogni passo in avanti, che io tentavo e osavo, mi sembrava come se qualcosa gridasse dentro di me: Ora non più! Non un passo di più! – E non dimeno non potevo fermarmi. Io dovevo tentare un piccolissimo passo ancora. Unicamente uno solo, uno. E così uno di più – e sempre uno di più. – E così è arrivato. – È in questo modo, che le cose avvengono. (Breve silenzio). (586)”

Rivelazione che getta nell’incomprensione Rosmer e il lettore alla quale farà seguito un anomalo comportamento della donna che prima incolperà l’uomo della sua disattenzione amorosa dicendosi pervasa da un gran desiderio sessuale e poi a compiere l’insano gesto del suicidio. La morte della donna avviene nella stessa modalità di quella di Beate ossia affogando nel laghetto della proprietà. Con lei annegherà anche Rosmer che, dopo una veloce auto-benedizione nuziale, la segue in quella via oscura perché “Il marito deve seguire la moglie, come la moglie il proprio marito” (604).

Rebekka – per altri ragioni e al culmine di un percorso differente – è come se compisse l’esatto epilogo della povera Beate difatti, se quest’ultima era pazza, lei osserva di essere “spezzata in mille pezzi” (590), segno di un malessere preponderante che disturba il corretto funzionamento della ragione. La frantumazione della donna in più partizioni è emblema della perdita di uno stato di coscienza (un po’ come l’annullamento di Bertha operato da Rochester nel romanzo della Rhys) e la condurrà ad una risoluzione sconsiderata del dilemma domestico che ha originato e contribuito ad aggravare. La sua uscita di scena può essere ottenuta solo con un atto disperato ed annichilente, quello della morte che si auto-infligge, nella quale l’accompagna l’amico-amante un po’ come Bertha che, appiccando il rogo a Thornefield, muore generando attorno a sé distruzione nella forma della mutilazione e l’accecamento di Rochester o de Winter che, a costo di salvare la faccia e il casato, trascinerà nel peggiore dei peccati commessi la seconda moglie.

 

Written by Lorenzo Spurio 

 

Bibliografia

Brontë, Charlotte, Jane Eyre, Oscar Mondandori, Milano, 1996.

Du Maurier, Daphne, Rebecca, la prima moglie, Il Saggiatore, Milano, 2008.

Ibsen, Henrik, Drammi moderni, a cura di Roberto Alonge, BUR, Milano, 2009.

Rhys, Jean, Il gran mare dei Sargassi, Adelphi, Milano, 2007.

Spurio Lorenzo, Jane Eyre, una rilettura contemporanea, Lulu, 2011.

Spurio, Lorenzo, “Tra Papà Gambalunga e Jane Eyre”, «Reti di Dedalus», Maggio 201

Von Arnim, Elizabeth, Vera, TEA, Milano, 2010.

 

NOTE


[1] Il titolo originale dell’opera era Rebecca.

[2] Il titolo originale dell’opera era Rosmersholm. In italiano è stato tradotto anche con La casa dei Rosmer o Villa Rosmer.

[3] Tutte le citazioni sono tratte dalla versione: Charlotte Brontë, Jane Eyre, Oscar Mondandori, Milano, 1996.

[4] L’unica attestazione che riguarda la pazzia di Bertha pronunciata da Jane, nella quale sembra di percepire una piatta commiserazione, è questa: “Signore, siete senza pietà verso quella povera signora: parlate di lei con odio, con astio vendicativo. È crudele: non ne ha colpa se è pazza” (354).

[5] Il titolo originale è Wide Sargasso Sea.

[6] Esiste una grande tradizione letteraria che fa suo l’approccio dato dalla riscrittura a partire dal mother text di riferimento. Numerosissimi i prequels, i sequels e i romanzi che raccontano la storia da un altro punto di vista, ad esempio dagli occhi di Adèle Varens, Celine Varens, Rochester o della stessa Bertha come avviene in Il gran mare dei sargassi della Rhys. Altro romanzo in cui si dà spazio alla storia di Bertha, definita “la vera signora Rochester” è Jane Eyre’s Rival: The Real Mrs. Rochester, opera di Clair Holland (2011). Per un maggiore approfondimento sulla produzione derivata dal mother text si consiglia la lettura di Lorenzo Spurio, Jane Eyre, una rilettura contemporanea, Lulu, 2011.

[7] Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione: Jean Rhys, Il gran mare dei Sargassi, Adelphi, Milano, 2007.

[8] Si sta riferendo alla madre di Antoinette.

[9] L’uomo si sente ingannato dai suoi familiari e in maniera particolare dal padre e dal fratello che avevano combinato gli aspetti economici di questa unione: “Mentre camminavo ricordai la faccia di mio padre e le sue labbra sottili, gli occhi rotondi e presuntuosi di mio fratello. Sapevano, loro. E Richard, quello sciocco, anche lui sapeva. E la ragazza con la faccia dal sorriso inespressivo. Tutti lo sapevano […] Nessuno mi avrebbe detto la verità. Né mio padre né Richard Mason né, tanto meno, la ragazza che avevo sposata” (108).

[10] Poche pagine dopo ciò accade nuovamente: “Bertha –dissi. – Non mi chiamo Bertha. Stai cercando di trasformarmi in un’altra, chiamandomi con un altro nome. Lo so, anche questo è obeah” (157). Ad intendere bene il senso di annichilimento provato da Bertha per la spoliazione indotta della sua identità, nella parte finale dell’opera si legge: “I nomi contano, come quando lui non voleva chiamarmi Antoinette, e io vedevo Antoinette che fluttuava via dalla finestra con tutti i suoi profumi, i suoi bei vestiti e il suo specchio” (195).

[11] “Io spoglio Antoinette perché così dorme comoda e fresca; e allora io vedo che voi molto violento con lei eh? – A questo punto scoppiò a ridere – una risata allegra, cordiale. – Tutto questo è una piccola cosa, è niente”. (162)

[12] Al termine della seconda parte del romanzo Rochester così parla: “Ero stanco di quella gente. Detestavo tutto di loro, il riso e le lacrime, l’adulazione e l’invidia, la vanità e gli inganni. E odiavo quel posto. Odiavo le montagne e le colline, i fiumi e la pioggia. Odiavo i suoi tramonti qualunque colore avessero, odiavo la sua bellezza e la sua magia e il segreto che non avrei mai conosciuto. Odiavo la sua indifferenza e la crudeltà che faceva parte del suo incanto. Soprattutto odiavo lei. Perché lei apparteneva a quella magia e a quell’incanto. Mi aveva lasciato assetato e tutta la mia vita sarebbe stata sete e desiderio di ciò che avevo perduto prima ancora di trovarlo”. (186)

[13] Si è parlato in separata sede di come il personaggio di Bertha sia fortemente legato all’universo semantico del calore e all’immagine del fuoco. La sua origine caraibica corrisponde a quella di una fascia equatoriale dove le temperature sono molto calde e difatti, quando viene portata in Inghilterra, lei dice di sentire sempre freddo. La comunione con il fuoco è presente già nell’episodio raccontato da Charlotte Brontë nel quale la donna tenta di dar fuoco alla camera del padrone. Nel romanzo della Rhys, Bertha osserva, quasi estasiata, le “fiamme [che] divampano e diventano belle” (193).

[14] “Si sospettò che fosse stata la pazza, la signora Rochester, a esserne responsabile? – Avete fatto centro, signora: è quasi certo che sia stata lei, e lei soltanto, ad appiccare il fuoco. […] Era sul tetto, stava ritta là, agitando le braccia, sopra i merli, urlando tanto forte che la sentivano a un chilometro di distanza: l’ho vista e l’ho sentita con i miei occhi. Era una donna imponente, e aveva lunghi capelli neri, che le cadevano sulle spalle, illuminati dalle fiamme. Ho visto, e molti altri hanno visto, il signor Rochester salire sul tetto dal lucernaio: lo abbiamo sentito chiamarla: “Bertha!”. Lo abbiamo visto avvicinasi a lei; e allora, signora, lei si è messa a urlare ed è saltata giù, e un istante dopo si è sfracellata a terra” (505-506).

[15] Nel romanzo della Rhys leggiamo: “In principio mi dava un’occhiata, prima di fare questo, ma io fingevo sempre di dormire; ora non si cura più di me. Beve da una bottiglia che tiene sul tavolo, poi se ne va a letto, oppure posa le braccia sul tavolo, la testa sulle braccia, e si addormenta” (194) e poco dopo: “Quando viene la notte, e dopo parecchie bevute lei dorme, è facile prendere le chiavi. Adesso so dove le tiene. Apro la porta ed entro nel loro mondo” (195-196).

[16] Oltre ai numerosi riferimenti che fanno pensare a Jane Eyre, la critica mise in luce che la storia contenuta in Rebecca era molto simile ad altri romanzi in particolare a A Sucessora (The Successor) del 1934 dell’autrice brasiliana Carolina Nabuco che Daphne Du Maurier, in effetti, conosceva perché aveva letto. Evidenti somiglianze con Rebecca vennero individuate anche in relazione al romanzo Vera (1921) di Elizabeth Von Arnim mentre forti accuse vennero mosse nel 1944 alla Du Maurier in quanto Edwina L. MacDonald, autrice di Blind Windows, sostenette che il suo romanzo fosse stato oggetto di plagio.

[17] L’auto-descrizione della donna nelle prime pagine del libro è la seguente: “Ero una ex scolaretta ancora goffa, con i gomiti ruvidi e arrossati, i capelli flosci” (21).

[18] “Notai per la prima volta quanto la mia grafia fosse disordinata e informe; priva di personalità, priva di stile, perfino rozza, la scrittura di una scolara mediocre, uscita da una scuola di poco valore”. (90)

[19] Come la signora Danvers anche gli altri hanno assunto Rebecca come presenza immanente nella loro vita, sebbene essa sia tragicamente morta. Tra di loro anche Frank, della servitù, la nonna di Maxim che, pur anziana e quasi cieca, si spazientisce quando la protagonista va a trovarla in segno di gentilezza e l’anziana sbraita dicendo che non la vuole e che vuole solo Rebecca. Sino all’arrivo alla tenuta di un certo Jack Favell, non meglio identificato, del quale capiamo essere stato molto legato a Rebecca, anche da un punto di vista sessuale, e che in seguito verremo a sapere essere stato il cugino, oltre al nuovo amante con il quale, se non fosse deceduta, forse si sarebbe sposata in seconde nozze.

[20] Poche pagine dopo la protagonista è addirittura in grado di parlare della nullificazione di Rebecca: “Cenere alla cenere. Polvere alla polvere. Mi sembrava che Rebecca fosse diventata irreale. Quando l’avevano scoperta sul pavimento della cabina si era dissolta, sgretolata. Non era Rebecca, quella che ora giaceva nella cripta. Era polvere. Polvere e basta”. (323)

[21] REBEKKA:  Io credo pure che il signor Rosmer sia arrivato a vedere le cose della vita con occhi più aperti di prima. (531)

ROSMER: Nel mio animo è arrivata una nuova estate. Una nuova visione di gioventù. E perciò io sto ora – (540)

[22] Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione: Henrik Ibsen, Drammi moderni, a cura di Roberto Alonge, Bur, Milano, 2009.

[23] REBEKKA: Ma lei fu come sconvolta quando venne a sapere che non avrebbe potuto avere figli. La follia esplose allora. (569)

[24] Nel celebre dramma di Federico García Lorca, infatti, la disperazione di Yerma condurrà la donna a uno stato di profonda follia. Ben compreso che lei non sarà mai madre perché suo marito non è interessato a figliare o non ne è capace, la donna nelle ultime battute si avvarrà proprio contro il marito scaricando su di lui tutta la rabbia e l’odio maturato negli anni. Lo strozzerà con le proprie mani e poi, al popolo che accorre, rivelerà di aver ucciso il suo stesso bambino.

[25] ROSMER: Nell’amore per me, -alla sua maniera,- si è gettata nella gora del mulino. Il fatto sta certo, Rebekka. Mai ne potrò uscire fuori. (573)

[26] La stretta relazione Rosmer-Rebekka, sebbene non sia mai arrivata alle effusioni e a un rapporto carnale, è percepita allo stesso modo di un adulterio da Beate, anche se in forma platonica ed idealizzata. Quando Rosmer comprende che sua moglie ha vissuto questo tormento, nella gelosia, vedendolo sempre insieme alla donna e disattento nei suoi confronti, lui stesso dubita di ciò e pensa che, effettivamente, non si è comportato in maniera ligia e responsabile con sua moglie, incentivando in lei l’idea che lui fosse realmente innamorato di Rebekka. Roberto Alonge ha osservato: “Il guaio è che –per un vero uomo di chiesa (e non per un Tartufo da strapazzo)- il peccato e l’adulterio restano peccato e adulterio, anche se confinati nella dimensione mentale, anche se non c’è mai passaggio all’atto” (574).

[27] Si tratta della metafora che fa più volte capolino nel corso della tragedia ad intendere la chiamata della morte. L’arrivo dei cavalli bianchi sta a significare l’arrivo della sorte che, come nel caso di Beate, è una sorte amara e violenta dalla quale non ci si può redimere.

[28] Se la rivelazione sia frutto di verità o di un’ulteriore macchinazione strumentale a qualche finalità che la donna persegue non è dato sapere, Ibsen non chiarisce bene questo aspetto che, difatti, è stato ampiamente dibattuto dalla critica. Beate si è suicidata perché pazza o è stata indotta al suicidio, cioè è stata fatta suicidare, da qualcun altro perché elemento scomodo a casa Rosmer? Rebekka dà questa seconda spiegazione a Rosmer e Kroll che ascoltano sbigottiti.  Secondo Roberto Alonge la spiazzante confessione di Rebekka sarebbe da leggere nell’intenzione della donna di “voler operare una più drastica rottura con Rosmer per compiacere Kroll, e comprarne in questo modo il silenzio sulla storia infamante dell’incesto” (585).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d