Intervista di Irene Gianeselli all’attore Flavio Albanese: dalla Commedia dell’Arte a Dennis Kelly
Flavio Albanese (Compagnia del Sole) ha frequentato la Scuola di Teatro del Piccolo di Milano diretta da Giorgio Strehler, corso Coupeau. Fra gli altri docenti, studia con G. Strehler, Ferruccio Soleri, Marise Flash, Dario Del Corno.
Si diploma al GITIS-Eatc Laboratorio triennale per pedagoghi, registi e attori diretto da Jurij Alschitz con uno studio su Le Tre Sorelle di A. Checov (Svezia, Germania, Italia). Dal 1986 a oggi ha portato in scena come attore, regista, curatore di traduzioni ed adattamenti, testi di Omero, Virgilio, Molière (fra cui Il Tartufo con Toni Servillo), Sarah Kane, Goldoni, Platone, Shakespeare, M. Sherman, C. Alvaro, Luca De Bei, S. Beckett, T. S. Eliot, Goethe (Faust per la regia di Giorgio Strehler), G. Orwell, G. Rodari, Plauto, Aristofane, F. Garcia Lorca, K. Wojtyla ( La Bottega dell’orefice), Carlo Collodi, Addin Attar, F. Dostoevskij, A. Checov. Dal 2003 al 2006 ha collaborato come regista con la Famiglia d’Arte Carrara e La Piccionaia di Vicenza curando gli allestimenti de La falsa commedia tratta dai canovacci di repertorio della famiglia Carrara, Un Curioso accidente e Gli Innamorati di Carlo Goldoni.
Dal 2011 al 2013 ha lavorato come regista e coordinatore del progetto “Teatro e Scienza” promosso dal Piccolo Teatro di Milano e dalla Fondazione Tronchetti Provera, in collaborazione con la Fondazione Veronesi, il Politecnico di Milano, l’Università degli Studi di Milano e Scienza Under 18. Dirige ed organizza progetti di residenza e formazione del pubblico, collaborando con diversi teatri fra cui il Piccolo Teatro di Milano, Teatro Persiani di Recanati, Teatro Verdi di Brindisi, Nuovo Teatro Abeliano di Bari, Cineteatro di Monteroni, Teatro Petruzzelli di Bari.
Dal 1994 insegna recitazione e commedia dell’arte presso il Centro Internazionale La Cometa e l’Accademia di Teatro Sofia Amendolea di Roma. È stato relatore alle Giornate Plautine IV sul tema: “Tradurre Plauto”, un Seminario di alta formazione per giovani studiosi italiani e stranieri a cura del Centro Internazionale di Studi Plautini di Urbino del PLAVTVS (Centro di Ricerche Plautine, Sarsina-Urbino), sotto gli auspici del Comune di Sarsina e dell’Istituto di Civiltà Antiche dell’Università di Urbino.
Flavio Albanese sarà in scena con Love&Money di Dennis Kelly per la regia di Marinella Anaclerio al Festival Castel dei Mondi di Andria il 30 settembre e il 1° ottobre prossimi. Lo spettacolo è in cartellone al Teatro Kismet di Bari dal 15 al 17 dicembre 2016. Dal 9 al 19 febbraio 2017 Flavio Albanese sarà in scena con Canto la storia dell’astuto Ulisse al Teatro Studio Melato – Piccolo Teatro di Milano.
I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. Il tuo percorso è cominciato alla Scuola di Teatro del Piccolo di Milano diretta da Giorgio Strehler, nel corso Coupeau. Puoi parlarci di quegli anni di formazione?
Flavio Albanese: Arrivai da Bari con la “valigia di cartone”, venivo da una bellissima esperienza di scuola di teatro con Vito Signorile e Guglielmo Ferraiola al Teatro Abeliano di Bari, avevo visto La Grande Magia regia di Strehler con Franco Parenti al Teatro Petruzzelli di Bari. Il provino per la scuola di Teatro del Piccolo di Milano durò un anno, in tre sessioni. Fu durante il provino che conobbi Marinella Anaclerio, la mia compagna di vita e di arte, lei mi preparò alla seconda ed alla terza sessione. Le canzoni che preparai furono New York New York e Plasir d’Amour. Quella scuola era un vero e proprio collegio, avevamo la divisa per ogni lezione: insegnava Mimo un’allieva diretta di Decroux, Canto la liederista Lydia Stikx, Commedia dell’Arte Ferruccio Soleri, Storia del Teatro Dario Del Corno e Davico Bonino, dialetto Veneziano Marina Dolfin attrice di Baseggio, e il direttore era Giorgio Strehler. A scuola potevi entrare “entro la mezza” cioè trentacinque minuti prima dell’inizio delle lezioni, in classe si entrava 5 minuti prima, dalle 9,30 alle 19,30 c’era lezione, dopo tutti in teatro a seguire le prove del maestro. In quelle stagioni nei teatri giravano spettacoli di Kantor, Minetti, La Fura des Baus, Bene, Brook, Pina Baush, Falso Movimento. Avevamo molti riferimenti anche diversi dal teatro della “fata dai capelli turchini” (come qualcuno definiva Strehler), era davvero proprio bello. Mi hanno insegnato a rispettare il testo prima di tutto, e che il teatro è principalmente quello fatto dagli attori; mi hanno insegnato a levarmi il cappello ogni volta che entro in un teatro, che il nostro mestiere è prima di tutto una cosa umana, che un attore sulla scena si afferma per la sua bravura non per quanto chiasso riesce a fare o per quanto riesce a scandalizzare il pubblico, mi dicevano sempre che se gridi una battuta probabilmente stai abbaiando, è da questo che nasce il termine “cane” per un attore. Io ero così ingenuo da credere che quella fosse una scuola normale, che fuori il mondo sarebbe stato così, che il Teatro fosse così dappertutto… che Strehler e il Piccolo fossero una delle tante stelle di un universo… in espansione.
I.G.: Tu stesso scrivi «L’attore con la maschera è come lo stregone durante un rituale, esprime ciò che ha nel più profondo di sé». La Commedia dell’Arte è una componente fondamentale anche del tuo insegnamento. Quando hai cominciato a studiarla?
Flavio Albanese: La Commedia dell’Arte l’ho imparata alla Scuola di Teatro direttamente con Strehler e Soleri e guardando tutte le prove, poi ho studiato anche con Antonio Fava. Come fai a non innamorarti di quel modo di fare teatro specialmente quando i tuoi maestri sono quelli? Mi allenavo con le maschere di Sartori! Strehler faceva lezione sul suo Arlecchino e ci trasmetteva un’“idea di teatro” che trasversalmente potesse comunicare a più livelli, dove la persona con poca cultura non si sentisse esclusa e quello con molta cultura si sentisse interpellata, un artigianato del teatro che ancora oggi mi guida, al di là della moda. I commedianti dell’arte a cui mi ispiro sono gli Andreini, comici sì ma anche intellettuali, poeti, sperimentatori, drammaturghi, “sognatori professionisti”. Pedagogicamente la commedia dell’arte e la maschera sono fondamentali, insegnano la precisione e la chiarezza, il lavoro sul corpo. Ho trovato molta affinità con il lavoro sulle azioni fisiche della scuola russa, se pensiamo che anche Stanislavskij ha recitato il ruolo di Pantalone, Tiberio Fiorilli è stato il maestro di Molière… Quando fai commedia, non hai tante scuse, se il pubblico capisce ride, altrimenti no. Gli esseri umani ridono quando si capiscono, invece quando non si capiscono, smettono di ridere. Nella mia esperienza di pedagogo la commedia è al centro, come strumento per l’attore. Se fai bene la Commedia dell’Arte puoi recitare anche Checov o Pinter, lo giuro!
I.G.: Scriveva Strehler introducendo la messinscena de La storia della bambola abbandonata (1994-95): «Credo che il nostro sia uno dei Paesi che meno si siano preoccupati e si preoccupino dei bambini, e che quando se ne occupano lo fanno nei modi più paternalistici e stupidi. E invece un teatro per l’infanzia – lo pensavo anche sedici anni fa quando andò in scena per la prima volta La storia della bambola abbandonata – deve essere fatto con amore, con attenzione e, soprattutto, partendo da un punto di vista che a me pare l’unico giusto: il teatro per bambini deve essere un teatro per uomini “più piccoli”, quindi un teatro nel quale gli altri, “i grandi”, possono divertirsi». Ti sei preso cura di questi interlocutori favoriti, degli uomini “più piccoli”. Raccontaci dello spettacolo La vera storia di Pinocchio.
Flavio Albanese: Conosco bene La bambola abbandonata e l’idea che aveva il Maestro, la condivido in pieno. Lo stesso Arlecchino non è forse teatro ragazzi o meglio teatro universale? Mi spiego, il teatro non è forse ciò che risveglia qualcosa di luminoso dentro il cuore del pubblico? Gogol nel Ritratto sostiene che l’arte deve dare gioia, deve esprimere bellezza (consiglio ad ogni attore di leggere quel racconto). L’Arlecchino è un esempio di questo, si recita con gioia e leggerezza, diceva un vecchio Pantalone: “Il Teatro si fa con il cuore e il cervello… e la memoria, anche!”. Ed ecco… Pinocchio che se ne infischia dei bacchettoni, corre, corre, sempre via, leggero… La Vera storia di Pinocchio come quasi tutti i miei spettacoli per ragazzi nasce dalla creatività straordinaria di uno dei miei più cari maestri, con cui ho condiviso i miei spettacoli più belli, Giovanni Soresi. Lui pensò di farmi fare un Pinocchio con le musiche di Fiorenzo Carpi, sì proprio quello che ha scritto le musiche del famoso Pinocchio di Comencini con Manfredi e De Sica, Ciccio e Franco… roba d’altri tempi… le musiche sono state adattate al mio testo, quasi tutto in versi, da Giulio Luciani (a sua volta allievo di Carpi) e suonate dal vivo al pianoforte durante lo spettacolo inizialmente da Roberto Vacca, e da due stagioni ormai da Roberto Salah Addin Re David con cui sto condividendo alcuni progetti sul Sufismo e le vie iniziatiche. La Vera storia di Pinocchio è dedicata a mia nonna, che ha vissuto la guerra e raccontava a me e mia sorella favole a colori e in bianco e nero. Pinocchio è una favola per adulti che dovrebbero tornare bambini e che altrimenti rischiano di invecchiare. Rievoco il varietà, il teatro italiano, l’ho scritto pensando e citando Totò, Nino Taranto, Petrolini, l’Opera Buffa e anche, lo confesso, Carmelo Bene che come Pinocchio, “del genio ha sempre avuto la mancanza di talento”. Qualche giorno fa ho partecipato ad un incontro bellissimo a Bologna di un’Associazione internazionale di teatro Ragazzi “Assitej” a cui mi sono associato con La Compagnia del Sole ed ho constatato di persona che sul tema c’è un impegno ed un interesse fortissimo. Teatranti puri, che si fanno domande importanti e cercano strade sempre più interessanti, ho sentito un’aria di vera ricerca, non di “pippe” intellettuali (nelle quali casco spesso anche io), e sono giunto alla conclusione che uno spettacolo di Teatro quando è bello piace a tutti. In particolare il teatro definito “ragazzi” se fatto bene piace anche agli adulti, non direi così del contrario, dunque ciò che noi definiamo teatro ragazzi forse è il teatro universale. Credo proprio che nel Teatro Ragazzi ci sia la chiave per il futuro del teatro, non quello solo per gli addetti ai lavori, ma quello del pubblico, della gente, degli impiegati, degli operai. Questo è il pubblico che dovremmo riportare a teatro e questa è l’idea di teatro “popolare” nata nel 1947 da Grassi e Strehler, il teatro ragazzi salverà il mondo, perché occupandosi di bellezza, in tutte le sue declinazioni, è universale. Forse… spero…
I.G.: «Una volta che avrete imparato a volare, camminerete sulla terra guardando il cielo, perché è là che siete stati ed è là che desidererete ritornare» è il tuo adattamento drammaturgico di una famosa espressione leonardesca. A teatro si attraversano le frontiere che nella vita, nella collettività, non si possono nemmeno guardare. Il volo non è forse una metafora dell’essere attore e spettatore?
Flavio Albanese: Il Codice del Volo è lo spettacolo che amo di più, è tutto il percorso creativo ed intellettuale di Leonardo per costruire la macchina del volo, che poi fu un fallimento straordinario perché la macchina non funzionò. Il volo è la metafora dell’uomo in ricerca, l’uomo che cerca di superare i limiti che la natura sembra avergli dato, ma alla fine è proprio la natura a suggerire all’uomo come superarli e volare. Tutte le idee di Leonardo nascono da una attenta osservazione dei fenomeni naturali, lì c’è tutto ciò che stiamo cercando. Leonardo mi ha insegnato che l’errore, il vicolo cieco, il fallimento sono solo tappe di un percorso e non devono mai demoralizzarci perché ci dimostrano che non siamo fermi, che stiamo “andando avanti”. Questo spettacolo ha segnato l’inizio di un percorso che mi ha portato a Platone e allo studio del Mito e la Quantistica, ma anche questa è un’altra storia.
I.G.: «Aprirsi a un altro essere rendendo possibile il fenomeno di una nascita condivisa o doppia. L’attore nasce di nuovo – non solo come attore ma come uomo – e con lui io rinasco. È un modo goffo di esprimerlo, ma quello che si ottiene è l’accettazione totale di un essere umano da parte di un altro». Così Grotowski racconta il proprio modo di fare teatro. A tuo parere oggi almeno a teatro si riesce ancora ad ottenere anche una parziale accettazione di un essere umano da parte di un altro?
Flavio Albanese: Una volta Grotowskij mi disse: «Attore e spettatore ad un certo punto si incontrano grazie a un arcobaleno che li unisce durante lo spettacolo». Se vogliamo, sì, il teatro non avviene mai nell’attore o nello spettatore soltanto, ma in quell’arcobaleno che li unisce. Comunque non possiamo paragonare il lavoro che facevano maestri come Grotowskij e il loro modo di ricercare la vita attraverso il teatro con quello del teatro contemporaneo, mi viene un po’ da sorridere. Grotowskij parla di un teatro che non è il fine, il suo obiettivo non era colpire la curiosità dei critici o puntare ai cinquecento like, non credeva di fare avanguardia o ricerca, non cercava forme nuove come il povero Kostantin del “Gabbiano”, per carità, i suoi attori non erano in mutande per scandalizzare il pubblico, era un contesto diverso, lui cercava l’uomo attraverso il teatro, il teatro come mezzo, per l’attore e per il pubblico… oggi un pensiero del genere è quasi inconcepibile nel sistema, oppure può essere soltanto una frase ad effetto per avere dei like su Facebook. Detto questo, credo che in ogni spettacolo teatrale avvenga, seppure in misure diverse, l’accettazione di un essere umano da parte di un altro, magari a chi cerca solo il risultato e l’approvazione dei critici sfugge il senso alto di questo evento come può sfuggire la sacralità di un rituale in chiesa alla maggior parte dei fedeli non iniziati, ma il fatto avviene, più o meno, quasi sempre, in mutande o no, con i tacchi a spillo o a piedi nudi. Amo e rispetto tutti i teatranti anche se non mi piacciono alcune loro forme o atteggiamenti.
I.G.: «Non bisogna ascoltare i nomi dati alle cose, bisogna immergersi nell’ascolto delle cose stesse. Se si ascoltano i nomi, allora ciò che è essenziale svanirà […]. Se cerchiamo il modo di nasconderci dietro formule intellettuali, dietro idee, slogan, cioè se mentiamo in ogni istante con la massima raffinatezza, siamo condannati all’infelicità. Ma nelle vere tecniche tradizionali e in ogni vera arte performativa, si tengono contemporaneamente i due poli estremi. Vuol dire essere nel principio, stare in piedi nel principio.[…] È la consapevolezza vigile che fa l’uomo» sempre Grotowski. Come si impara a stare in piedi nel principio?
Flavio Albanese: Bisogna diventare maestri, proprio quando i maestri sono tutti morti. Non essere schiavi della moda e dell’ipocrisia. Ricercare un principio. Stanislawskij ci diceva che chi cerca la forma trova la morte, chi cerca la vita trova la forma. Poi Forza e Saggezza. Parlo anche per me sia chiaro, tutte queste belle parole ogni giorno devo riconquistarle, a volte le dimentico, a volte qualche amico me le ricorda, è un’altalena.
I.G.: Peter Brook ne lo Spazio vuoto distingue diversi modi di fare teatro. Esistono un teatro mortale, uno sacro, uno ruvido e uno immediato. Quale di questi modi hai scelto o sceglieresti per definire il tuo teatro?
Flavio Albanese: Non saprei, io cerco di fare teatro per capire meglio me stesso e la realtà, un teatro come mezzo, ma mi sento molto molto molto limitato. Poi non esiste il mio teatro, esiste un’esperienza di compagnia di circa trent’anni con Marinella Anaclerio e tutta la Compagnia del Sole: condividiamo le idee che ho espresso in questa intervista. Ci piace l’idea di un teatro di attore e di testo, ci piace l’idea del repertorio e di condividere fra noi e poi col pubblico un’esperienza umana prima e poi artistica. Forse il teatro è mortale e allo stesso tempo sacro, ruvido e contemporaneamente immediato. Peter Brook è un altro grande riferimento, i suoi libri ci parlano di un uomo che attraverso il teatro ha cercato la profondità della vita, le estreme contraddizioni fra il sacro e il profano, e fondamentalmente ha sempre cercato di capire qualcosa di più di questo mistero straordinario che è l’umanità. Non a caso il suo capolavoro è il Mahabarata, non a caso è un “Girdjeffiano”.
I.G.: Che lingua parla il teatro di oggi?
Flavio Albanese: Forse il teatro in questo periodo ha perso un po’ la necessità dell’attore in scena, in alcuni casi si avvicina molto all’arte contemporanea o alla performance, ecco, quel teatro non mi piace farlo, a volte mi piace vederlo, a volte in certi spettacoli sento molta violenza gratuita e mi sembra di vedere una ricerca verso la forma più che verso l’essenza, ma sono frutti di questa epoca, un’epoca in cui la parola perde significato, l’uomo diventa uno strumento in mano al sistema, la poesia è stata fagocitata dalla volgarità, la musica dal rumore. Ma non è tutto così, vedo anche una grande crescita, tante nuove Compagnie che fanno percorsi interessantissimi e artisti che credono fermamente e affermano con passione quello che fanno. Anche nella diversità noi attori di teatro, noi teatranti (perché il teatro non lo fanno solo gli attori), ci riconosciamo, perché siamo tutti nella stessa barca, anche se navighiamo con stili differenti, siamo tutti diavolacci ridicoli. Poi però vedo uno spettacolo di Toni Servillo e mi riconosco, e riconosco il pubblico, quello eterno, quello di sempre, e mi convinco sempre di più che il teatro è degli attori e del pubblico più che delle macchine o delle mode.
I.G.: A proposito di lingua è molto importante il lavoro di traduzione e adattamento, in particolare ci racconti dell’esperienza sul Faust per la regia di Giorgio Strehler e sul Tartufo di Molière per la regia di Toni Servillo?
Flavio Albanese: Due esperienze diverse ma allo stesso tempo con un’etica uguale. Servillo e Strehler arrivano alle prove dopo un lungo periodo di preparazione, quasi maniacale. Partono dal testo e sono al servizio del testo, non cercano di migliorare Molière e Goethe o di dire la loro su questi grandi uomini, sono molto umili, cercano di capire qualcosa in più, cercano di conoscere meglio l’animo di questi autori e di distillarne il senso del testo. Lavorano come dei musicisti, dei direttori d’orchestra, con un’umiltà straordinaria nei confronti dell’autore e con una fiducia enorme nel mestiere dell’attore. Poi Strehler usava molto la macchina teatrale, le luci, gli effetti, le musiche come fossero giocattoli e Servillo usa l’attore come uno strumento per suonare il testo e la sua regia è essenzialmente al servizio del testo più che dello “spettacolo”. Ecco vorrei ripetere l’esperienza teatrale con Servillo e anche con Strehler se fosse vivo, avrei tante domande da fargli…
I.G.: I numeri dell’anima è uno straordinario momento di gioco teatrale e di dialogo attoriale, un adattamento che coglie tutta l’insostenibile leggerezza del dialogo platonico Menone. Per tutta la rappresentazione si cerca di capire cosa sia la Virtù e se si possa insegnare. Parafrasando Platone: il teatro è insegnabile? Che cos’è il teatro?
Flavio Albanese: Mi compiaccio di riprendere uno stralcio della mail di Alessandro Stavru che è stato Professore a contratto di Storia della Filosofia Antica ed Estetica presso l’Orientale. La sua attività di ricerca è incentrata su Socrate e i Socratici, l’estetica e il mito da Omero alla contemporaneità, e la storia degli studi relativi a questi ambiti. Ha visto lo spettacolo al Festival di Velia Teatro ad agosto e mi ha scritto:
Ancora complimenti soprattutto per il modo sottile e raffinato con il quale sei riuscito a rendere la peculiarità del personaggio Socrate, ovvero il suo atteggiamento aporetico, ironico, a tratti irridente. Socrate è un personaggio teatrale già in antichità (forse il più importante personaggio teatrale dell’ultimo quarto del V secolo) e molti suoi aspetti, in particolare quelli su cui si sofferma Platone, possono perciò essere resi con particolare efficacia proprio attraverso il teatro. Ti assicuro che tra le tante rappresentazioni di Socrate a cui ho finora assistito la tua è quella che mi ha maggiormente convinto. Grazie per averne intuito l’importanza!
I numeri dell’anima fa parte di un percorso che vorrei proseguire, nasce dagli studi con Jurij Altschiz – Gitis di Mosca con cui ho conseguito il mio secondo diploma di attore. Riguardo alla tua domanda Socrate ti risponderebbe che bisognerebbe prima definire il teatro per poterne dire la sua qualità, e allora ci perderemmo probabilmente in un dialogo Aporetico. Ma io più semplicemente azzardo un’ipotesi, si può insegnare una tecnica, un’etica, un modo di pensare il teatro ma non il talento, quello è nato con te fa parte della tua essenza. Oggi c’è un’inflazione di scuole di teatro, chiunque insegna teatro, incontro persone che mi dicono «Tu fai teatro? Anche io!!!» poi quando chiedo loro che spettacolo stanno facendo mi rispondono «Ho fatto un corso di teatro e due saggi!!!» e questo abbassa la qualità dell’idea e dell’etica del teatro. Il Teatro è una professione, non è serio dare la percezione di “fare teatro” a chiunque, come se io dicessi ad un chirurgo che anche io sono medico perché ho fatto un corso con “il piccolo chirurgo”. Tutti possono amare il teatro ma farlo non è per tutti. Detto questo, parlando francamente ti rispondo alla Socrate: «Non so! Parliamone…»
I.G.: I numeri dell’anima è stato in scena il 20 gennaio 2016 presso la Casa Circondariale di Gazzi a Messina. Ci racconti questo momento di assoluta inclusività e dialogo?
Flavio Albanese: È stato in scena presso la Casa Circondariale di Messina per ergastolani reclusi a causa di reati di mafia. Ero molto intimorito, perché proporre un dialogo di Platone in cui si indaga sulla virtù e si dimostra l’immortalità dell’anima in quel contesto credevo fosse fuori luogo, ma allo tesso tempo ero eccitato perché ho un grande rispetto e una grande curiosità per questi uomini. Alla fine, uno di loro, il più anziano ha alzato la mano e ha detto «Vi ringraziamo per averci regalato questa esperienza, vi auguriamo che anche voi riusciate a trovare la virtù che cercate, diversa da quella che abbiamo trovato noi». Si era creato l’arcobaleno. Il prossimo mese tornerò da loro per un laboratorio di teatro, forse li farò lavorare su Pinocchio.
I.G.: Nel 2010 hai fondato con Marinella Anaclerio la Compagnia del Sole, vuoi tracciarne il percorso artistico?
Flavio Albanese: La Compagnia del Sole è formata da me e Marinella e da una decina di Attori bravi e pugliesi, alcuni dei quali sono anche tecnici, musicisti, poeti inventori e amministratori di compagnia, una straordinaria organizzatrice (Tiziana Laurenza), un consulente per progetti Europei e Bandi (Dario Giliberti), un distributore (Vincenzo Losito) e un altro gruppo di artisti e professori universitari che seguono, influenzano e proteggono il nostro lavoro. È un atto d’amore. Ci chiamiamo fra di noi “Capitani” perché lo spettacolo che ci ha uniti è stato Orlando pazzo per amore, un progetto europeo di formazione per attori professionisti, affidato a me e Marinella. Ecco un esempio di progetto europeo di formazione professionale che ha avuto sostenibilità. Anche questo risultato lo dobbiamo all’intuito di Marinella! Ad oggi, abbiamo otto spettacoli in repertorio, tutti sempre disponibili, e stanno aumentando. È bellissimo recitare ogni giorno un testo diverso come i commedianti dell’Arte! Alterniamo classici come Pirandello o Ariosto a spettacoli comici come Alla moda del Varietà, temi filosofici come I numeri dell’anima dal Menone di Platone e altri di carattere storico scientifico come Il codice del Volo di Leonardo, e mitologico scientifico come il nuovo spettacolo per ragazzi L’universo è un materasso scritto da Francesco Niccolini che racconta la storia della creazione da Crono ad Einstein e che debutterà a Santarcangelo a Marzo. Niccolini è un altro grande uomo di teatro, gli faccio spesso perdere la pazienza ma lui mi perdona sempre perché capisce che sono come Pinocchio, un attore, un povero diavolo e lui in fondo ama i poveri diavoli. Sono in uscita anche spettacoli per l’infanzia come Babar. Ci piace mantenere un forte rapporto con il pubblico e quindi i nostri spettacoli sono sempre legati a laboratori, conferenze, progetti che fanno vivere il teatro prima durante e dopo.
I.G.: La prossima produzione della Compagnia sarà Love&Money di Dennis Kelly. Perché questa scelta?
Flavio Albanese: Questo è un progetto di Marinella, solo lei poteva avere il coraggio di affrontare un testo di Kelly. Senza la sua attitudine all’azzardo avrei fatto un decimo delle esperienze che ho fatto nella mia vita e in quella della Compagnia del Sole. Abbiamo conosciuto Dennis un po’ di tempo fa a Londra mentre stavo scrivendo il mio Il codice del volo su Leonardo Da Vinci e subito ho capito che era una persona speciale. Gli parlai del mio progetto e di Leonardo, della sua infanzia e della sua vita, e lui dopo avermi fatto molte domande, lo definì Clever Bastard, aveva condensato in un attimo tutto, con due parole aveva riassunto la vita di Leonardo. Dennis è un genio. Da allora ho letto i suoi testi e poi Marinella, da brava nata sotto il segno della Vergine, li ha letti tutti! Così è nata l’idea di mettere in scena Love and Money. Tutti in Compagnia siamo molto preoccupati perché ci rendiamo conto di avere un compito difficile, far passare quel testo è una grande responsabilità. In sole sei scene fa un quadro della situazione dell’umanità oggi e analizza il rapporto fra l’amore e il danaro, senza una virgola di retorica, senza spiegare nulla, un quadro crudo con un realismo impressionante di quello che sta succedendo alle nuove generazioni. Siamo schiacciati da un sistema economico che non si fa scrupolo dei sentimenti e quindi degli uomini, siamo vittime di sistemi numerici. Ecco, questo è un teatro di testo e di attore. Come ci ha insegnato Leonardo o anche il Teatro e i nostri maestri se vuoi, ciò che conta è tentare di capire qualcosa e superare noi stessi, la vita è troppo breve e imprevedibile per credere di poterla vivere al sicuro in un angolino, possiamo combattere mettendoci all’angolo oppure al centro del ring, nel secondo caso ne prenderemo di pugni, e ne daremo anche qualcuno, ma potremo avere la soddisfazione di aver vissuto! «La vita è bella… se la sai vivere» disse mia nonna (quella del Pinocchio) qualche minuto prima di lasciarci.
Written by Irene Gianeselli
Info