“Paradise Beach – Dentro l’incubo” di Jaume Collet-Serra: il film del momento sull’ennesimo squalo predatore dei mari
Ebbene sì. Alla fine ho ceduto. Anch’io ho visto il milionesimo film che bistratta gli squali, e lo squalo bianco, signore assoluto dei mari, in maniera particolare. Dopo Spielberg, avevo giurato che non lo avrei fatto mai più. Perché, a parte qualche film di genere che non forza la mano a costruire un mostro marino colossale e palesemente finto – per esempio “The Reef”, un film australiano del 2010 dove alcuni naufraghi sono in balia di uno squalo bianco che si pregia di riprese autentiche –, tutto il resto ha fatto un po’ sorridere.
E mi riferisco ad improbabili predoni dei mari che sono venuti a trovarsi inspiegabilmente all’interno di piscine e supermercati; oppure piovuti dal cielo insieme a tornado dalla potenza devastante, in grado di vivere in eterno anche in assenza di acqua. Insomma, voglio dire: passi pure che lo squalo sia di proporzioni esagerate e di cartapesta; che si comporti come nessun altro squalo al mondo farebbe, ma se si parla di un pesce – perché tale è uno squalo – che regni almeno nel suo elemento naturale, ovvero l’acqua. Mi pare il minimo presupposto da cui partire.
“Paradise Beach – Dentro l’incubo”, del regista spagnolo Jaume Collet- Serra, è uscito nelle sale italiane il 25 agosto 2016 e sta già riscuotendo un discreto successo. Sarà il merito di alcune riprese – che piovono dall’alto, o direttamente da sotto l’acqua – e degli splendidi paesaggi di un’isola da favola che, secondo il copione, dovrebbe trovarsi in Messico, nell’oceano Pacifico. Un paradiso, appunto, per i surfisti. E piace la bionda protagonista, Blake Lively, veramente molto attraente, soprattutto in bikini. La ragazza è quasi sempre da sola in scena, ma fa sì che lo spettatore non si annoi. Pochi infatti gli altri personaggi, in una storia che si delinea semplice e scarna, così come conviene ai film di genere. Il protagonista incontrastato, fra quel ti vedo-non vedo, deve essere lui, il sagace pescecane. Affollare la scena di persone, confonderebbe solo la trama.
Dopo la morte della madre, per una malattia incurabile, la giovane Nancy Adams lascia gli studi di medicina e si reca a “surfare” su una spiaggia poco conosciuta del Messico. Il luogo era caro alla defunta genitrice, e questo appare come un momento intimo che permette alla protagonista di ritrovare se stessa, dopo un periodo buio, ed essere allo stesso tempo in contatto con lei. Il regista ci prova ad inserire nel film un minimo d’introspezione. Nancy parla anche, collegandosi col cellulare dalla spiaggia, col padre che la rivorrebbe a casa a studiare medicina, e la sorellina minore, alla quale, si capisce, la giovane fa un po’ le veci della madre. La situazione precipita tutta d’un colpo. Mentre prende l’ultima onda, al crepuscolo, Nancy viene attaccata da un grande squalo bianco, che ingaggia con lei una vera e propria lotta di attese e resistenza. Ferita ad una gamba, la ragazza riesce a trovare rifugio prima sulla carcassa di una balena, di cui lo squalo si serve per cibarsi, e poi su un piccolo scoglio, che però di lì a poco sarà sommerso dall’alta marea.
Ci vorrà tutto il suo ingegno per riuscire a sopravvivere e a mettere in atto tecniche in grado di spiazzare il gigantesco predone. Nancy è sola nell’Oceano, sebbene ella di lontano scorga la riva; con la sola compagnia di un gabbiano a cui ha curato un’ala ferita. Le sue conoscenze mediche le serviranno per prestare a se stessa i primi soccorsi, così come per creare un espediente e permettere ad un film che sarebbe stato altrimenti muto, di essere in realtà “parlato”. Nancy si rivolge ad alta voce, infatti, ora al gabbiano e ora a sé, fingendo di curare due pazienti d’ospedale. Il frangente ci sta: la ragazza non è psicopatica. State tranquilli. Lo squalo, dal canto suo, nella prima parte risulta secondo natura, ma nella seconda si scatena e perde credibilità. Un vero peccato.
In conclusione, il film si fa guardare. Permette di trascorrere un’oretta e mezza piacevole. Sì alle riprese, ai luoghi, al mare cristallino. Esso è però l’ennesimo racconto di chi mira a diffondere la psicosi degli squali, allo scopo di creare suspense e vendere al botteghino.
Lo squalo bianco, infatti, è sì un animale pericoloso, al quale bisogna dare rigorosamente del “lei”, ma non è uno spietato serial killer. Non segue la sua preda per giorni, fino a quando non l’ha divorata. Soprattutto, se è un essere umano. Egli ama le prede grasse e succulente, quali foche, leoni marini e cetacei. Anche Spielberg nel 1975 fece questo errore, e una scorretta informazione si diffuse a macchia d’olio, ghettizzando questa specie.
Uno squalo bianco che abbia appena ucciso una balena – e quindi in presenza abbondante di cibo –, la divora a bocconi, in più riprese. Per giorni, fino a quando del mammifero rimane poco o niente. Ed essendo la balena molto grassa e rientrando fra le sue prede ideali, difficilmente si curerebbe degli umani intorno a lui – ne uccide tre, sicuri. E soprattutto, forse avrebbe dato un morso d’assaggio alla tavola di Nancy, scambiandola dal basso per una foca, ma poi, se ne sarebbe disinteressato. Essendo un animale possente, è probabile che l’avrebbe uccisa. Ma di certo non perseguitata per giorni, innescando una lotta personale, con la crudeltà di chi vuole a tutti i costi giungere ad uno scopo. La morte della ragazza, appunto, nelle sue fauci.
Gli squali non conoscono vendetta. Sono esseri che, come tutti gli animali, agiscono per difesa o in preda alla fame. E sono curiosi, certo. Non avendo arti, “assaggiano” le cose con la bocca. Di qui la loro pericolosità. Quindi, meglio non trovarsi in acqua in loro presenza. Su questo concordo in pieno.
Lo squalo bianco sta pagando però un conto salato, iniziato proprio al cinema. Non voglio prenderne le difese, ma amerei che l’informazione venisse impartita correttamente. Al di là di incassi e guadagni.
Utopia, lo so. E, nel momento stesso in cui lo dico, mi rendo conto di questa mia imperdonabile ingenuità.
Written by Cristina Biolcati