“Zootropolis” di Rich Moore e Byron Howard: il piacere di capire come la Disney parli sempre più agli adulti

Zootropolis”, in uscita il prossimo 4 marzo negli USA col titolo “Zootopia”, affidato alla sapiente regia di Rich Moore (“Ralph Spaccatutto”, 2012) e Byron Howard (“Rapunzel – L’intreccio della torre”, 2010), si presenta come un autentico episodio ricapitolativo dell’universo animale Disney, topica sviluppata nel canone ufficiale fin dal lontano 1937 con “Biancaneve”, e con ricorrenza ripresa ed approfondita negli anni a venire.

Zootropolis

Giusto per essere sul pezzo, i titoli in cui risultano protagonisti dei non umani (esseri immaginari esclusi) sono “Dumbo” (1941), “Bambi” (1942), “Lilli e il vagabondo” (1955), “La carica dei 101” (1961), “Il libro della giungla” (1967), “Gli Aristogatti” (1970), “Robin Hood” (1973), “Le avventure di Winnie the Pooh” (1977 e sequel del 2011), “Le avventure di Bianca e Bernie” (1977, e sequel del 1990), “Red e Toby – Nemiciamici” (1981), “Basil l’investigatopo” (1986), “Oliver & Co.” (1988), “Il re leone” (1994), “Dinosauri” (2000), “Koda, fratello orso” (2003), “Mucche alla riscossa” (2004), “Chicken Little – Amici per le penne” (2005), “Bolt – Un eroe a quattro zampe” (2008).

Questo 55esimo classico tira perspicacemente le somme dello studio zoologico mettendo in scena un vero e proprio microcosmo, fino ad ora il più audace tentativo di attribuire ai numerosi caratteri presenti uno status di completa indipendenza, uno spessore drammaturgico che non li etichetti affatto come un semplice corollario. L’utopia stessa di una convivenza edenica fra mammiferi antropomorfi di tutte le specie, senza che prede e predatori siano tenuti separati, fornisce la base per una narrazione tutt’altro che provinciale, isolata, ma anzi di ampio e comprensivo respiro.

L’impronta applicata è quella dell’indagine, precipuamente poliziesca, raramente raccontata con tale dovizia di dettagli in un prodotto animato; l’esistenza di un alquanto arruffato enigma da risolvere legittima implicitamente la non comune intelligenza dei protagonisti, ossia dell’aitante, altruista e cocciuta coniglietta Judy, primo agente della polizia di Zootropolis ad essere così minuto, e dell’acuta e tranchant volpe Nick, che da anni vive di attività truffaldine evadendo il fisco.

Sono due figuri decisamente diversi e, com’è naturale, di primo acchito apparentemente inconciliabili in un orizzonte di operato condiviso. Fatto sta che le pungenti esperienze sedimentate nel passato di entrambi, evocate con palpabile puntualità, li arricchiscono di un corredo emozionale di tutto rispetto, complesso e ben sintetizzato, si tratti di un quasi impercettibile movimento del nasino di lei o del sottile risentimento di lui, nascosto dietro un velo di boria tutta umana. Questo è forse il maggior pregio del lungometraggio: l’esser riuscito attraverso un fine lavoro di sceneggiatura (verbale e non) nell’impresa di disegnare dei personaggi di quotidiana fattura, sullo schermo certo brillanti, illuminati, ma al contempo non così distanti dalla fauna medio-dotata riconoscibile dentro e fuori la storia.

Zootropolis

Ne esce un equilibrato meccanismo che funziona in ogni sua parte, privo di sbavature, facili iperboli o momentanee cadute di stile, che animato da un buon ritmo, tra un’indovinata gag e l’altra, trova la giusta collocazione al debito processo di raffinamento dei rapporti morali e dell’intimità fra Judy e Nick, alle prese (in un abile gioco di rimandi più o meno manifesti) con il pericolo sempre in agguato di cadere nel razzismo, di prendere scelte inadeguate e dalle imprevedibili conseguenze, di venir meno ai lodevoli ma ingenui propositi che la voce interiore dell’outsider sente realizzati nelle tenaci parole di Shakira (“I wanna try everything, I wanna try even though I could fail”, “voglio provare tutto, voglio provarci anche se potrei fallire”).

Accanto ad alcuni cliché ben sfruttati, come possono essere la sicilianità del boss della malavita Big o le (seppur azzeccatissime) caratteristiche specifiche del bradipo Flash, e ad altre spiazzanti intuizioni (su tutte quella del club di naturisti), ritroviamo l’ormai consueto elemento della pervasività della tecnologia, necessario anello di congiunzione con la realtà sociale in cui viviamo ed operiamo, qui mai banale, personalizzato invece a vantaggio dei fruitori, dai tratti eminentemente parodici ed autoironici (che siano state d’insegnamento le avanguardistiche sperimentazioni di “Hotel Transylvania 2”?).

A ciò si aggiunge l’irrefutabile accuratezza tecnica di ogni inquadratura, che eccelle nell’illusione di morbidezza dei disegni (le pellicce dei conigli e delle lontre paiono trascendere con somma gradevolezza la bidimensionalità della visione) e dei cromatismi delle geometriche vastità scenografiche. Le musiche pure si distinguono raggiungendo, plasmate dal Premio Oscar Michael Giacchino (“Ratatouille”, “Up”, “Inside Out”), compositore feticcio della Pixar, l’aura dell’autorialità.

Zootropolis

Zootropolis” in questo modo corre al galoppo verso gli Oscar 2017, sempre che non si decida di presentare un assurdo trio invece della più democratica cinquina, come accaduto l’ultima volta nel 2011, in nettissimo sfavore di “Rapunzel – L’intreccio della torre”, o che a film di visionaria realizzazione come “Le avventure di Tin Tin – Il segreto dell’unicorno” si preferiscano prodotti palesemente mediocri come “Il gatto con gli stivali” (ambedue del 2011).

Uscire di sala con la sensazione di non essersi affezionati ad alcun personaggio in particolare o di non aver giovato di uno script illuminato di indubbio sense of humor, irriverenza, sagacia o addirittura genialità, senza essersi sforzati di cogliere le proporzioni realmente mature dell’intera struttura, a tratti più vicino alla disinvoltura del live-action che alla verve tipica dell’animazione (non a caso si tratta del classico più lungo dai tempi di “Fantasia”, 1940), di apprezzare la genuinità dei topic politico-sociali iniettati sottopelle con la sensibilità adatta ad un pubblico tendenzialmente molto giovane, l’impegno di presentare gli immancabili momenti clou di disperazione e riconciliazione in una veste quanto più sincera e lontana dalle stucchevolezze cui fin troppo siamo abituati, fino alle sottili attenzioni riservate alla profondità di campo (ovvero i piani di messa a fuoco) e ad altri espedienti tecnici, senza quindi aver saputo leggere tra le maglie fittissime di questo gioiellino e ritenendo per di più magari che questo giro “la Disney poteva osare assai maggiormente”, non è davvero l’atteggiamento critico che la redazione raccomanda.

 

Voto al film

 

 

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

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