“La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri: la disumanizzazione provocata dal progresso della catena di montaggio
A vedere come gira il mondo oggi, la Storia contemporanea deve dire grazie soprattutto a Karl Marx. Mai come adesso, infatti, l’intera nostra esistenza è incentrata su logiche di profitto, costruite su basi di “solido” materialismo che seguono soltanto il ciclo di una produzione industriale meccanica e serata, come già alla fine dell”800 teorizzava il fondatore del comunismo.

Se oggi questi schemi economici ci sembrano l’unica scelta possibile nel nostro mondo occidentale, il clima era ancora più incandescente negli anni ’70. Gli stessi in cui è ambientato “La classe operaia va in paradiso“, pellicola del 1972 e diretta da Elio Petri, che ricalca i tesi rapporti tra operai e fabbrica dell’epoca, le lotte sindacali, l’alienazione, la coscienza di classe propria di una categoria professionale che furono espressione di una società in sempre più rapido mutamento.
Il film racconta di Ludovico Massa, detto Lulù (interpretato da Gian Maria Volonté), un operaio metalmeccanico lombardo completamente asservito al suo lavoro.
Le sue giornate, infatti, sono solo una ripetizione sempre più frenetica dei gesti necessari a far funzionare la macchina su cui lavora, cosa che lo fa entrare nelle grazie della dirigenza e lui stesso deve, così, controllare i tempi dei colleghi.
Il tutto mentre fuori dai cancelli della fabbrica un presidio di studenti comunisti invita gli operai a ribellarsi ai padroni, mentre all’interno prende forma l’idea di uno sciopero per chiedere l’aumento degli stipendi.
Il vaso trabocca quando Lulù perde un dito sul lavoro, a causa della totale assenza di prevenzioni: durante un attimo di distrazione dei sorveglianti, gli operai si ribellano e proclamano lo sciopero.
Le azioni che ne seguono sono a dir poco inimmagibili oggi, in Europa: l’esercito arriva in massa e comincia a pestare gli operai, disperdendoli mentre alcuni tentano di rispondere, come lo stesso protagonista che, a causa di ciò, viene licenziato.

Da qui in poi si svilupperà in lui, sempre più, una coscienza politica, tormentata e per certi aspetti deviata verso gli estremismi dei giovani, che lo spingerà a rivendicare il proprio posto all’interno della fabbrica.
Sarà un percorso psicologicamente tortuoso, a ridosso della sottile divisione tra normalità e follia, mano a mano che Massa acquisterà una propria aderenza alla lotta sindacale. Per concludersi con un finale poco “paradisiaco” da un lato, ma altrettanto vitale dall’altro.
Petri ha legato il suo nome a uno dei titoli più esplicativi della condizione operaia in Italia negli anni ’70, un vero e proprio “inno” dall’unione sindacale e una critica alle frange estremiste, composte all’epoca da quei studenti sessantottini che si riempivano spesso la bocca con termini marxisti, senza però lavorare veramente.
Ne esce così un film acido nel proprio realismo, che mette a nudo la disumanizzazione provocata dal progresso della catena di montaggio: un fenomeno che oggigiorno non si può dire essere estinto.
Written by Timothy Dissegna