Il carnevale dei poeti: la festa in maschera di Dante Alighieri, Giacomo Leopardi e Gabriele D’Annunzio
Qualche volta nella vita è bello divertirsi, uscendo dagli schemi, a costo di sembrare bizzarri e, perché no, anche un po’ banali. È per questo che, in un clima di carnevale inoltrato, un’idea “malsana” ha fatto capolino nella mia mente. Mi sono posta una domanda: se i grandi poeti del passato dovessero partecipare ad una festa in maschera, come si vestirebbero?
Ebbene, cominciamo da lui, il “sommo poeta”, Dante Alighieri (1265- 1321). Difficile prevederlo, poiché Dante non è mai stato scontato. Tralasciando il genere umano, da lui così aspramente criticato, e ignorando il suo desiderio di atteggiarsi a “deux super partes”, perché anche quello sarebbe troppo facile, direi piuttosto che opterebbe per un antropomorfismo dal forte valore simbolico.
Lo immagino immobile in un angolo ad osservare i commensali, vestito da albero di lauro. La corona di alloro è da sempre un simbolo iconografico importante nelle rappresentazioni figurative di poeti e uomini dotti, poiché il “laureatus” è appunto colui che porta tale elemento, così come ancora oggi avviene nelle cerimonie di laurea. Ad un tempo, Dante appagherebbe il suo sogno di distinguersi come uomo di cultura, e risulterebbe alquanto originale, poiché credo che a nessuno verrebbe in mente di travestirsi da “oggetto inanimato”.
Per Giacomo Leopardi la cosa la vedo più facile. Perché nonostante tutto il pessimismo che gli è stato attribuito, egli era una persona che ricercava la vita e l’amore, e forse è morto incredulo, per non essere riuscito a “smentire” quella natura matrigna che crea gli uomini ma poi nega loro la possibilità di essere felici. Li lusinga, ma presto li disillude.
Leopardi quindi, si sarebbe travestito da Romeo, il protagonista della tragedia di William Shakespeare (1564- 1616), consapevole che la sua Giulietta si trovi solo nella mente, secondo le usanze pudiche del periodo. Certo, sarebbe bello immaginare che alla festa con lui ci fosse stata anche Silvia, ma non credo di poter arrivare a tanto. E non ditemi che Leopardi non avrebbe mai accettato l’invito e se ne sarebbe stato a casa, perché non è vero.
L’amico Ranieri, che visse con lui gli ultimi anni a Napoli, lo descrive come un “ribelle”. Poteva far colazione anche il pomeriggio e pranzare a mezzanotte; esasperava le prescrizioni del medico, camminando fino a sfinirsi se gli veniva consigliato del moto e mettendosi a letto per giorni se gli veniva ordinato riposo. Insomma, non aveva mezze misure. Amava i gelati e i taralli dolci, acclamava la morte ma era convinto di essere longevo, tanto che riteneva di essere affetto semplicemente da una sorta di asma bronchiale.
Dopo la morte di Silvia e l’allontanamento dalla figura “negativa” della madre, possiamo dire che si fosse lasciato andare all’entusiasmo, tanto che, assieme al cuoco Pasquale, si era messo a studiare una serie di sistemi per vincere al gioco del Lotto e porre così fine ai suoi problemi economici. Quindi, perché no, a questa fantomatica festa, vestito da Romeo, il buon Giacomo potrebbe anche guardarsi un po’ attorno, e azzardare la conoscenza di nuove fanciulle.
E veniamo a Gabriele D’Annunzio (1863- 1939). Vi prego, toglietevi quei sorrisi dalla faccia, e cerchiamo di essere “seri”. Lo so, scappa da ridere anche a me, perché qui di cose da dire ce ne sarebbero tante. Dunque, la festa in questione dovrebbe essere necessariamente danzante, senza cena né buffet. Questo perché D’Annunzio aveva una vera e propria idiosincrasia per le ritualità legate al cibo, a causa di una brutta dentatura. In pratica, si vergognava che qualcuno lo vedesse mangiare e pranzava sempre da solo. L’invito ad una donna non prevedeva mai la cena, ma semmai solo il dopocena. Anche se qui subentrerebbero altre turbe psicologiche, dato che, invecchiando, egli non voleva più farsi vedere nudo, e la leggenda dice che si fosse fatto fare un pigiama apposito per poter adempiere ai suoi “doveri”, senza doverselo mai sfilare di dosso.
La leggenda parla anche di un “buco” scucito ad arte, ma su questo particolare sorvolerei. Il corredo si completava con un paio di pantofole a forma di pene, ma anche qui stenderei un velo pietoso.
Dunque, alla luce di questi fatti, alla festa di carnevale lo farei partecipare vestito da Lady Godiva (990- 1067), la nobildonna anglosassone che cavalcò nuda per ottenere la soppressione di un tributo imposto ai sudditi dal conte Leofrico Di Coventry, suo marito.
Naturalmente, il travestimento dovrebbe avere qualche piccolo accorgimento. È noto che D’Annunzio amasse cavalcare nudo per il parco del Vittoriale, per farsi vedere dalle donne di Gardone, ma questo credo in gioventù. Poiché stiamo qui pensando ad un Gabriele D’Annunzio più maturo, potrebbe “cavalcare” con un finto cavallo di cartapesta, cucito al suo inseparabile pigiama, così la parte anteriore risulterebbe completamente nascosta ed arginata da questa riproduzione “casereccia” di quadrupede.
Certo, come travestimento sarebbe un po’ ingombrante e non riuscirebbe a danzare, ma d’altra parte è vero che per essere “belli” bisogna soffrire. Lady Godiva copriva le sue nudità con lunghi capelli, ma nulla vieterebbe a D’Annunzio di intessere una parrucca coi capelli delle sue donne. Pare che ci avesse già imbottito dei cuscini.
E mentre spero che non mi vengano mai più idee di questo genere che, diciamolo, risultano non poco irriverenti, vi prego di prendere questo scritto con ironia. Scateniamoci in questo periodo di carnevale, di travestimenti e risate, dove tutto è ancora possibile. Prima che giunga la rigida Quaresima.
Written by Cristina Biolcati
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