“Il principe” di Niccolò Machiavelli: la coesistenza d’induzione e deduzione

Niccolò di Bernardo Machiavelli, nacque il 3 maggio del 1469,da famiglia antica originaria di Montespertoli. L’origine del nome deriva dal latino Mali clavelli, che significa cattivi chiodi e i chiodi, di fatto, erano l’insegna nobiliare della famiglia; perché cattivi non è dato sapere, ma presumibilmente tale attributo è da connettersi alla malvagità di qualche antenato.

L’altra etimologia Macula avelli, strappai le macchie, è presumibile che alluda ad un altro antenato che con la sua bontà ed altruismo eliminò la negatività che veniva connessa al cognome e perciò alla famiglia, comunque quest’ultima etimologia ha determinato la presenza della doppia C nel cognome sino alla metà dell’Ottocento, sostiene Luigi Russo, ma molti si ostiniamo a pronunciare Macchiaveli non tenendo per niente in considerazione l’assenza del doppio grafema C.

Detto ciò per curiosità filologica, è chiaro che il nostro discorso deve andare oltre, infatti il nucleo tematico della trattazione verte intorno al metodo seguito da Machiavelli; ci chiediamo, così come molti critici,  se il metodo seguito da Machiavelli nella stesura del Principe sia induttivo o deduttivo o, se cambiando punto di vista di valutazione, possiamo dire che siano presenti entrambi i metodi.

Come sappiamo, anno cruciale nella vita del nostro fu il 1512, anno in cui, dopo avere reso preziosi sevizi alla Repubblica, fra cui la missione presso Cesare Borgia, il  Valentino, protagonista e modello di governante nel Principe, l’instaurarsi del regime dei Medici , gli impose di andare in esilio. Costretto all’otium letterario, dal 1512 al 1525 egli si dedicherà a scrivere le sue opere maggiori. Solo negli ultimi anni i Medici gli assegnarono di nuovo qualche incarico politico, ma la successiva restaurazione della repubblica finì per escluderlo del tutto dall’attività pubblica. Guardato con sospetto ed ostilità, profondamente deluso, si ammalò all’improvviso e morì il 21 giugno del 1527.          

Le principali opere di carattere politico di Machiavelli sono “I discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio” ed “Il Principe“. Per comprenderle  è forse opportuno non solo proporne sinteticamente il contenuto e l’interazione che intercorre tra le due opere, ma accennare anche alla  formazione culturale dell’autore.

Machiavelli aveva avuto una formazione umanistica fondata sui classici latini, mentre sconosceva il greco. Frutto di tale formazione culturale fu la trascrizione del De rerum natura di Lucrezio, rivelando in tal modo anche il suo interesse per la filosofia  materialista ed epicurea, proprio negli anni in cui a Firenze dominavano lo spiritualismo e la religiosità di Savonarola e, attraverso la scuola di Marsilio Ficino, la cultura platonica; di fatto egli sembra collegarsi alla scuola aristotelico-averroista, allora attiva a Padova e all’insegnamento di Pomponazzi.  Dalla tradizione fiorentina Machiavelli riprende anche il filone dell’Umanesimo civile di Salutati e Bruni, che sollecitò l’intellettuale all’impegno politico in prima persona.

Senza entrare nel conflitto delle interpretazioni, accettiamo la tesi di Chabot, d’altra parte ormai condivisa dalla maggior parte degli studiosi, secondo cui Il Principe fu composto di getto in pochi mesi, fra marzo e dicembre del 1513, interrompendo la composizione dei Discorsi, di cui già aveva tracciato il quadro dei primi diciotto capitoli, spinto dall’urgenza dei problemi attuali della stati italiani contesi tra le mire imperialistiche di Carlo Ve i tentativi di invasione della Francia, che in tal modo cercava di tamponare la minaccia spagnola.  Secondo le intenzioni dell’autore, l’opuscolo, anzi il saggio era destinato ad una immediata utilizzazione politica, da qui la sua scrittura di getto, il carattere breve ed unitario, insomma una sorta di manifesto, i Discorsi invece, interrotti , ripresi e rielaborati non hanno una struttura unitaria, né un carattere saggistico, ma si presentano al lettore come un insieme di divagazioni intorno alla prima Deca dell’opera di Tito Livio, Ab Urbe condita. L’opera divisa in tre libri tratta nel primo la politica interna di uno stato e, in particolare, considera la religione come” instrumentum regni”, nel secondo narra di politica estera e  delle milizie, nel terzo, più vario nel contenuto, si discute di “uomini particolari” che hanno fatto grande Roma, di come si trasformino gli stati, riprendendo a tal riguardo  la teoria dell’anaciclosi di Polibio ( monarchia – tirannide, aristocrazia-oligarchia, democrazia-anarchia) che viene seguito anche nella proposizione della modalità di evoluzione degli stati, cioè di come nascano, si evolvono e decadano.

Ciò detto a proposito dei Discorsi, adesso proponiamo un po’ più analiticamente il contenuto e, di conseguenza, il pensiero che presiede alla composizione del Principe, che, come genere letterario, prima abbiamo definito saggio, infatti tra i meriti di Machiavelli c’è anche quello di avere creato il genere saggistico, poiché la sua opera non si presenta più, come nei trattati medioevali e umanistica, sotto forma di dissertazione filosofica e scientifica fondata su un preesistente sistema organico di pensiero, ma come scritto in cui l’autore sostiene e dimostra una sua verità individuale, assumendone  consapevolmente la responsabilità.

Come è noto, ne fu annunziata la composizione in una lettera al suo amico Francesco Vettori, dove insieme al titolo in latino, De Principatibus,  ne viene indicata la persona a cui vuole dedicarla, Giuliano dei Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. In realtà la morte di Giuliano poi farà sì che lo dedichi a Lorenzo di Piero dei Medici, duca di Urbino. L’opera è costituita da ventisei capitoli con titoli in latino, suddivisi in quattro parti: nella prima (cap. I-XI) tratta dei vari tipi di principato, distinti in: ereditari, nuovi, misti, ecclesiastici e civili, soffermandosi in particolare sui principati nuovi, nati dall’energica virtù di un principe, che sapendo cogliere l’occasione storica (la fortuna) e avvalendosi spregiudicatamente della forza, riesce a conquistare il potere e a rafforzarlo con il consenso del popolo. Esempi da imitare in tal senso  sono F. Sforza e C. Borgia.

Nella seconda (cap. XII-XIV) tratta delle diverse forme di milizie (proprie, mercenarie, ausiliarie e miste) e ciò consente all’autore di ribadire la sua condanna delle compagnie di ventura, vera causa dei rovesci patiti dagli stati italiani. La terza parte XV-XXIII) è la più importante  perché delinea la figura del principe, indicando le qualità tutt’altro che ideali che deve possedere chi vuole avere successo nell’ambiguo, ingannevole mondo della politica. È opportuno che il principe saggio appaia moralmente ineccepibile, ma all’occorrenza, egli deve ricorrere anche a mezzi riprovevoli, secondo la morale comune, per il bene dello stato. È necessario insomma, che sappia usare la bestia e l’uomo e valersi dell’astuzia della volpe e della forza del leone. Nella quarta parte  (cap. XXIV- XXVI) Machiavelli rapporta le riflessioni teoriche alla situazione politica italiana, partendo dalla convinzione che l’insuccesso dei principi di fronte agli invasori stranieri siano dovuti alla loro ignavia. La fortuna infatti, arbitra della metà delle nostre azioni, spadroneggia solo se non vi è “un’ordinata virtù a resisterle”. L’ultimo capitolo è un’esortazione ai Medici  a porsi alla guida del riscatto italiano ed assume toni alti, appassionati e messianici che alla fine si appropriano dei versi della canzone “All’Italia” di F. Petrarca: Virtù contro furore \ prenderà l’arme; e fia il combatter corto \ chè l’antico valore \ negli italici cor non è ancor morto”.

Il primo inoppugnabile principio del pensiero di Machiavelli è l’aderenza al reale, alla realtà effettuale delle cose, quindi la sua riflessione nasce da una coscienza lucida e sofferta della crisi politica che l’Italia del suo tempo stava attraversando.

Inoltre si deve a lui la scissione della politica dalla morale: nel Medioevo ed ancora in età umanistica, la teoria politica era subordinata alla morale e gli Specula principis  medioevali ed i trattati umanistici offrivano ai regnanti un modello ideale, proponendo le virtù più raccomandabili, quali pietà religiosità, clemenza, lealtà, etc… e condannando i vizi ad esse contrari. Machiavelli rivendica invece l’autonomia dell’agire politico che deve fondarsi sulla “verità effettuale delle cose”, anziché “sull’immaginazione di essa “e deve essere utile “a chi la intenda”, cioè fornire uno strumento concettuale di immediata ed efficace applicabilità. Ebbene proprio il partire dall’osservazione della realtà, è l’aspetto caratterizzante il metodo scientifico moderno, quello che sarà proprio di Galilei: il cosiddetto metodo induttivo che Machiavelli, prima  ancora che venga applicato alle scienze fisico-naturali, applica alle scienze dell’uomo, quelle che studiano il suo operare politico.

L’esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : diretta, ricavata dalla partecipazione personale agi eventi ed indiretta, ricavata dalla letture degli autori antichi. Ma, in realtà, solo in apparenza si tratta di due forme diverse, perché nei classici è accumulata una ricca esperienza diretta del reale, cambia solo il veicolo della trasmissione: l’esperienza diretta, il libro. Alla base  di questo modo di accostarsi alla storia vi è una concezione materialistica:la convinzione che l’uomo sia un fenomeno di natura come gli altri e che quindi i suoi comportamenti non varino nel tempo, pertanto studiare il comportamento umano sui libri ed osservarlo nella realtà è la stessa cosa, in ogni caso è possibile desumere delle leggi generali: in situazioni affini l’uomo si comporta sempre allo stesso modo. Per questo la sua trattazione è sempre costellata da esempi tratti dagli antichi: essi sono la prova che il comportamento umano non varia. Per lui gli uomini camminano sempre per vie battute dagli altri, perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell’imitazione.

Da questa visione naturalistica, scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell’agire politico, che sappia individuare le leggi a cui quest’ultimo deve ispirarsi. Ecco perché i vari capitoli sembrano proporre delle massime universali, che inducono a ritenere che il pensiero dell’autore sia deduttivo, cioè ricavato per deduzione da principi primi, universali ed indimostrati.

La formulazione delle leggi a cui l’agire politico deve ispirarsi trovano il loro punto di partenza in  una visione pessimistica dell’uomo: gli uomini per lui sono”ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitivi dei pericoli, cupidi di guadagno. Il principe dovendo agire “in fra tanti che non sono buoni”, non può fare “in tutte le parti la professione di buono”, perché andrebbe sicuramente incontro alla rovina, pertanto, come già si è detto, il politico deve essere centauro, metà uomo e metà bestia, praticando secondo le circostanze, ora la bestialità, ora l’umanità. Politica e morale vanno scissi: comportamenti che sono malvagi per la morale, possono essere buoni, cioè produttivi ed efficaci in politica, ed azioni moralmente buone possono essere deleterie per lo stato. Il fine ultimo dell’agire politico, infatti è il bene dello stato, è il bene comune,  la salvaguardia della convivenza civile. Ma quest’ultima per mantenersi ha bisogno del radicamento di virtù civili, quali l’amore di patria, l’amore per la libertà, la solidarietà che sono il cemento del vivere collettivo.

Orbene, per radicare tali virtù negli uomini, generalmente non buoni, sono necessarie precise istituzioni: le leggi, le milizie, la religione che così, valutata nella sua funzione politica e non nella sua dimensione spirituale, diventa, come è sostenuto anche nei Discorsi,  “instrumentum regni”, ossia strumento di governo.  Quanto sinora detto evidenzia, quindi, due concezioni della virtù: quella del politico eroe, che brilla nei momenti di eccezionale gravità e la virtù del buon cittadino, che opera dentro stabili istituzioni dello stato, ma Machiavelli sa anche che  l’uomo nel suo agire ha precisi limiti e deve fare i conti con una serie di fattori esterni, che non dipendono dalla sua volontà.

Questi limiti assumono il volto capriccioso ed incostante della “Fortuna”, tema della civiltà umanistico- rinascimentale, frutto di una concezione laica ed immanentistica che esclude la presenza della Provvidenza nel mondo, intesa come disegno divino teso alla realizzazione di qualcosa. Machiavelli ritiene che essa sia arbitra a metà delle vicende e lasci regolare l’altra metà agli uomini, anzi essa può costituire “l’occasione” del suo agire, la materia su cui può imprimere, grazie alla sua virtù, la forma da egli voluta, ma vi è anche un altro modo per opporsi alla fortuna e quindi un’altra dote che concorre a determinare la virtù del principe: il saper “riscontrarsi con i tempi”, ossia l’essere duttili nel sapere adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che si presentano.

Potremmo aggiungere altro, ma i concetti fondamentali del pensiero di Machiavelli  credo che siano stati complessivamente esposti  e, sicuramente, è emerso il carattere rigoroso e scientifico del suo pensiero. Non altrettanto può dirsi dei Discorsi che, come si è già detto, si presentano sotto forma di riflessioni sparse, ma le differenze  in apparenza non riguardano solo la forma, ma anche livelli più profondi perché mentre nel Principe tratta la forma di governo monarchica ed assoluta, nei Discorsi, sotto l’influsso anche della frequentazione del circolo degli orti Oricellari, composto da giovani aristocratici di tendenza repubblicana, indica la repubblica come la forma più alta e preferibile di organizzazione dello stato. In apparenza però si è detto, perché di fatto il principato è considerato idoneo alla creazione dello stato, mentre la repubblica successivamente appare la forma di governo migliore per mantenerlo e garantirne la continuità.

Il Principe di Niccolò Machiavelli però, come ogni opera d’arte, presuppone una scelta di modalità espressive, di stile. La filosofia condivisa dallo scrittore, come si è già detto, è quella averroistico-aristotelica e naturalista, che pone a base di tutti gli organismi viventi e quindi anche dell’organismo sociale, l’esistenza di leggi comuni che li regolano.

Per Geymonat, di cui condividiamo l’opinione, Machiavelli va anche oltre perché il suo pensiero non presuppone schemi aprioristici, ma si fonda direttamente sull’osservazione del comportamento dell’uomo del suo tempo e, considerato che in virtù della sua visione  naturalistica, l’uomo è sempre uguale a se stesso, anche sulla conoscenza degli antichi: “la lunga esperienza delle cose moderne et… continua lezione delle antique” (Dedica del  Principe). Chabot e altri studiosi parlano anche loro di Machiavelli induttivo, Machiavelli a massime universali, scritte con apodittica sicurezza, precursore nell’ambito socio-politico dello scientismo galileano.

Però, quanto asserito sembra contraddetto dal continuo ricorrere dell’ autore a  massime universali, scritte con apodittica sicurezza, di conseguenza per Mario Martelli le regole generali non sono ricavate dall’osservazione dei particolari, ma sono principi preesistenti alla luce dei quali l’autore classifica i singoli casi, perciò è la filosofia neoplatonica dell’ambiente fiorentino a prevalere  nella formazione di Machiavelli.

Ma allora cosa giustifica le esemplificazioni che accompagnano  le massime?

Coloro e’quali e ….per fortuna diventano, di privati,  principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono;…” (massima)

Io voglio all’uno e all’altro di questi modi detti,…….addurre dua esempi: F Sforza e Cesare Borgia…” (Il Principe, cap. VII).

Riteniamo che Machiavelli è induttivo e deduttivo, ma per giustificare tale asserzione apparentemente assurda, bisogna considerare il Principe non solo un trattato politico, ma anche un’opera letteraria.

Se vagliamo infatti Il Principe come “trattato politico”, esso presenta senz’altro  un procedimento induttivo, altrimenti non avrebbe avuto senso tenere in così grande  considerazione l’osservazione dei comportamenti umani, fossero gli uomini del suo tempo o quelli del passato.

Ma se consideriamo Machiavelli, come autore anche di un’opera letteraria,  pare che egli, al di là della razionalità induttiva attraverso la quale è pervenuto alle sue conclusioni, poi  preferisca una modalità espositiva deduttiva : praticamente cela i processi osservativi dei particolari, attraverso i quali perviene alle regole generali e propone subito al lettore le conclusioni, i principi generali, ai quali seguono le esemplificazioni. Insomma Machiavelli è  induttivo nel pensiero, deduttivo nella forma. Presumibilmente tale scelta è manifestazione di  adeguazione, almeno estetico-formale e perciò esteriore, all’ambiente neoplatonico fiorentino, né, considerato quanto suddetto, tale  modalità espositiva si oppone al procedere anche per “dilemma”, cioè attraverso  opposizioni e disgiunzioni che coinvolgono il lettore con razionale passione (si consenta l’ossimoro!) nella scelta che dall’interesse specifico dell’autore, deriva. Questo procedere per dilemma, chiamato da Marchand “sistema dilemmatico propagginato”, scinde le forme di governo in due possibilità contrapposte ed escludenti di una, per poi scindere quella rimasta sempre in altre due, comunque le possibilità considerate sono sempre esistenti nella realtà effettuale, confermando in tal modo il carattere induttivo della metodo machiavelliano (esempio: lo stato può presentare la forma di repubblica o di principato, i principati sono o ereditari o nuovi, i principati nuovi o sono nuovi del tutto o misti  e così via… Cap.I).

Come nel pensiero Machiavelli rifugge dall’astrazione e vuole essere aderente al concreto, così il suo periodare, come sostiene nella Dedica, evita il linguaggio ampolloso e la retorica: il dire segue il pensiero, per cui se il pensiero è complesso diventa tale anche lo stile, altrimenti è secco, conciso, lapidario che si impone solo grazie alle cose che deve dire ed ama metafore e paragoni fatti di immagini corpose, concrete, materiali, così lo stato deve mettere le barbe, ossia le radici come gli alberi, la fortuna è come un fiume in piena che allaga i piani e abbatte alberi e casa, il politico, come già è stato riferito, deve essere mezzo uomo e mezzo bestia, come un centauro e deve sapere essere ora volpe ora leone.

 

Written by Francesca Luzzio

 

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