Resoconto del Gods of Metal 2012, 23 giugno terza giornata, Milano

Milano. Sabato 23 Giugno, dopo la conclusione ritardata dello show dei Guns N’Roses di Venerdì, l’annullamento dell’esibizione dei Black Veil Brides e il conseguente spostamento in avanti dell’orario di inizio paiono quasi come manna dal cielo per chi – inossidabile – è già alla terza giornata di Gods Of Metal e comincia ad accusare i primi segni di stanchezza, così come felicemente atteso è il passaggio di qualche nube che seppur portandosi dietro il pericolo di pioggia ha il pregio di placare l’arsura di queste giornate più da ferragosto che da fine giugno.

Ma non è questo quello che conta, la cosa importante è che passati i controlli di routine all’ingresso il programma della giornata preveda deliri folli sotto il palco e grandissima musica.

Si comincia in orario di pranzo con una band italiana, i Planethard, che dopo gli inizi nel genere dell’hard rock più classico possibile in stile Mr. Big, con il nuovo album, “No deal”, sposta il baricentro del proprio sound su vibrazioni più metalliche e tempi più serrati. E’ questo l’orientamento anche dell’esibizione al Gods della formazione meneghina, tutta rabbia e sudore, batteria dura, riff oscuri e fulminanti e nervosismo da pogo. 40 minuti di quello che si potrebbe definire alternative metal all’italiana, con la band che suona i pezzi del nuovo album secca e coinvolgente nonostante forse qualche pecca a livello fonico che però non incide pesantemente sul risultato, impreziositi dall’entrata in scena della guest star Masha Mysmane, frontwoman degli Exilia che sale sul palco armata di voce e chioma rosa shock per l’ottimo duetto sulle note di “Abuse”.

Fa sempre piacere ascoltare una buona band italiana, anche sotto il sole dell’una di pomeriggio…. A seguire si vola nuovamente negli States e, come molto spesso in questi giorni, nuovamente in California con la comparsa di un uomo mascherato e coperto da mantello e cappuccio, non può che essere lui, Lizzy Borden e la sua omonima combriccola. Il repertorio dei Lizzy Borden travolge i presenti con bordate di metal anni ’80, tutto riff, scenografia e approccio teatrale, una prestazione tonica e divertente che fa cantare gli spettatori – anche in questo caso in numero risicato, data la temperatura infernale dell’asfalto – e che riesce a non essere ripetitiva, tra i continui cambi d’abito e maschera del frontman, una cover in chiave metal di “Edge Of Glory” di Lady Gaga e qualche siparietto, tra cui la vampirizzazione di una ragazza sul palco e l’esecuzione della tarantella in versione chitarristica di Dario Lorina e AC Alexander, che per l’occasione indossano la maglia dell’Inter prendendosi come prevedibile applausi da uno schieramento e fischi dall’altro….

Un bello spettacolo comunque, che lascia una bella soddisfazione addosso e fa da preludio all’ingresso di una delle band più interessanti sulla piazza per quel che riguarda i live show: gli Hardcore Superstar sono quattro svedesi che non hanno niente a che vedere con tutta quella branca di metal pesante tipico delle regioni nordiche, niente voce in growl e niente riferimenti alla mitologia scandinava, Jocke Berg e soci suonano hard rock e lo suonano veramente bene, potenti, carichi a mille e prestanti sul palco con le loro canzoni piene di riff acidi e ritornelli facilmente memorizzabili che fanno cantare chiuque si trovi nel raggio d’azione del sistema audio. I quattro si giocano il tutto per tutto ad ogni pezzo, creando uno spettacolo incredibilmente dinamico e agitando la folla, che risponde bene ai cori, agli incitamenti del cantante e all’improvvisata doccia a base di birra sulle note di “Last Call For Alcohol”.

I 50 minuti di esibizione corrono veloci e sul finire di “We Don’t Celebrate Sundays”, inno simbolo del gruppo di Goteborg, il pubblico ringrazia per il divertimento con un lungo e copioso applauso, i freddi svedesi si portano a casa il calore del pubblico e se lo meritano fino in fondo…. Oggi il metal pesante non è in scaletta e dopo gli Hardcore Superstar ci spostiamo nel bel mezzo delle alpi, per la precisione nel Canton Ticino, regione natìa dei Gotthard, sestetto elvetico di ritorno sulla scena italica dopo la prematura scomparsa del cantante Steve Lee.

Nic Maeder, suo australiano sostituto, affronta con sapienza brani nuovi e classici della band conquistandosi subito l’attenzione del pubblico che nonostante qualche problemino nel dosaggio dei volumi apprezza e applaude; da qui in avanti sarà poco più di un’ora all’insegna dell’hard rock duro e puro, vocalmente buono nonostante Maeder non abbia i numeri per arrivare in alto come faceva Lee, e suonato senza sbavature tra classiconi come “Top Of The World” e “Gone Too Far” e pezzi neonati come “Right On”, che dal vivo convincono forse più che sull’album. Due i veri picchi della performance, il primo con la dedica di “One Life, One Soul”  all’indimenticato frontman da parte di Maeder, e il secondo con una cover ottimamente eseguita dell’atomica “Hush” dei Deep Purple. Un ritorno convincente e corroborante per una band che nonostante la tragedia che l’ha travolta ha saputo reagire e promette bene anche per il futuro….

C’è un altro ritorno che da gradito diventa graditissimo, perché quando poco prima delle 6 la gente torna ad accalcarsi vicino alle transenne ancora non sa di stare per assistere alla miglior prestazione in assoluto tra gli “attori non protagonisti” di tutti i quattro giorni del Gods Of Metal…. Sul palco, puntuali come orologi svizzeri arrivano quattro ragazzi provenienti dal suolo d’Albione: Ed Graham seduto sul seggiolino della sua batteria, Frankie Poullain con le sue quattro solide corde sotto mano, Daniel Hawkins alla chitarra ritmica e il fratello Justin, che oltre a sfoggiare una miriade di tatuaggi e degli inediti baffoni è pronto a sparare sulla folla i suoi splendidi assoli e la sua potente voce in falsetto. La band è al completo, i Darkness sono finalmente tornati insieme dopo la scissione del 2005 e dopo un periodo non certo felice per il frontman viziato da alcool e droghe pesanti, ma non sono i vizi di Justin a tenere banco e nemmeno vecchi screzi e dissensi, ora la band è tornata unita e un ritrovato spirito di gruppo li fa suonare proprio come la gente sotto il palco sperava…

Si parte con la carica elettrica di “Black Shuck” e ad ogni ritornello i cori del pubblico accompagnano il falsetto penetrante di Justin, le successive “Growing On Me” e “The Best Of Me” tengono alto il ritmo e agitano il pubblico prima della prima bomba: “One way ticket” è un fiume in piena che fa saltare e alzare le braccia in aria a tutti i presenti che cantano a tempo dalla prima all’ultima parola quasi fosse un inno (e un po’ in fondo lo è) mentre Justin si prende la scena anche quando non canta con il primo di una lunga serie di assoli chitarristici quasi inaspettati. A seguire c’è “Get Your Hands Off My Woman”, per l’ennesimo delirio entusiastico di fronte al palco che però si smorza subito dopo a causa di un guasto tecnico all’intero impianto, i ragazzi ci hanno dato dentro tanto che la corrente finisce per saltare e costringe il gruppo ad uno stop di un buon quarto d’ora; i musicisti tornano dietro le quinte per permettere ai tecnici di intervenire mentre Justin scende dal palco e decide di riparare al problema firmando autografi e facendosi fotografare con i fortunati delle prime file della zona Pit, un bel gesto che il pubblico apprezza e applaude e che – c’è da dirlo – non tutti avrebbero compiuto (fosse capitato durante l’esibizione dei Guns facilmente Axl sarebbe già stato sulla via dei camerini…).

Fortunatamente il guasto viene sistemato e il concerto può ripartire, Justin si avvicina al mircofono e mostrandosi ancora una volta umile chiede scusa per il problema e per il conseguente taglio della scaletta perchè “purtroppo abbiamo degli orari da rispettare per lasciare spazio a chi verrà dopo, ma quando torneremo in Italia suoneremo di più, promesso!”. Detto questo si riparte con una carrellata di superclassici, “I believe in a thing called love” e “Love is only a feeling” su tutti, che esaltano la folla ancora una volta, fino ad arrivare alla cover di “Street spirits” dei Radiohead e al tripudio conclusivo con Justin che scende dal palco con la chitarra in mano, sale sulle spalle di un addetto alla sicurezza e si fa scarrozzare in mezzo al pubblico regalando qualche momento magico anche a chi, non avendo il posto Pit, ha dovuto godersi il Gods Of Metal dalla lunga distanza. E’ così che dovrebbero essere tutti i concerti: coinvolgenti, festanti, eseguiti con tutto l’impegno e la passione possibili. Darkness voto 10, e giù il cappello signori!

Sempre di cappello si tratta, ma ora è tempo di rimetterlo in testa e non certo per il sole, anche perchè non si parla di un cappello qualsiasi, ma di una tuba nera, fasciata da una cintura identica a quella più celebre del Re Lucertola Jim Morrison…. La tuba nasconde uno e un solo nome, quello del ricciolone Saul Hudson, ma basta chiamarlo Slash e lo spettacolo è assicurato; dopo la performance pirotecnica di Axl e soci di ieri, l’esibizione del chitarrista è attesissima e vista quasi come una risposta alla “sfida” lanciata dall’ex compagno di avventure, ma molto più probabilmente Slash la vede sempicemente come un’altra esibizione e un’altra occasione di regalare emozioni a sei corde a tutto il pubblico, e che Axl faccia un po’ come gli pare!

Sono le 7.35, il sole ormai è in fase calante e la temperatura si fa più sopportabile grazie anche alla pioggia che arriva a rinfrescare l’asfalto, ma anche così non fosse nessuno delle migliaia di spettatori sarebbe disposto ad arretrare e perdersi questo live, che puntuale inizia su un palco tutt’altro che pirotecnico, con nient’altro che la strumentazione e un telone con l’immagine della copertina di “Apocalyptic love”, album pubblicato da Slash con l’affiatata collaborazione di Myles Kennedy e dei Conspirators. Sono proprio Myles Kennedy e i Conspirators, al secolo Todd Kerns e Brent Fitz, a salire sul palco con Slash, una squadra ormai rodata da diversi anni di live in giro per il mondo e che aggiunge la ciliegina finale ad una già ottima torta musicale composta dalle sole sei corde del Nostro.

All’ingresso la folla già esplode, e potrebbe andare in visibilio anche se Slash suonasse “Fra Martino”, invece si parte con “One Last Thrill” e dopo un minuto sotto il palco già si urla e si poga, Slash è un macigno, fisicamente visti gli enormi muscoli, ma soprattutto musicalmente, sicuro, pulito, impeccabile ad ogni riff, fulminante ad ogni assolo e colpisce al cuore armato solo di plettro. Myles Kennedy e la sua voce si insinuano agilmente tra le vibrazioni elettriche della Les Paul e volano fin lassù dove non molti riescono ad arrivare, Todd e Brent non sono da meno, il primo istrionico e ispiratissimo, sia con le linee del suo basso sia nei cori di alcuni brani, e il secondo massiccio e senza il minimo cedimento con le sue fide bacchette in pugno. Ad ogni nuovo pezzo una nuova esplosione, ad ogni minimo accenno di un assolo qualcuno del pubblico che urla “Vai così!”, ad ogni ammiccamento di Myles le urla delle ragazze in estasi e in ogni attimo piovono applausi, le mani si alzano e le voci inneggiano a Slash, lui nel frattempo fa il suo lavoro suonando con l’intensità con cui un fabbro picchia il ferro caldo, non cerca (anche se non avrebbe nessuna difficolta) di strafare, suona la sua Gibson come il più normale dei chitarristi di una band, senza abiti di scena e senza mai togliere spazio ai suoi compagni, fa gioco di squadra e come un novello Pirlo sta defilato, fraseggia con Todd e Brent, prende palla e serve passaggi ben calibrati e assist memorabili al centravanti Myles, salvo poi prendersi le sue libertà e partire in solitaria armato di corde metalliche e polpastrelli magici.

Anche la scaletta è tutto tranne che autocelebrativa ed egoistica, grande spazio ai brani di “Apocalyptic love”, l’hattrick imponente di “Standing in the sun”, “Back from Cali” e “Doctor Alibi” dal precedente “Slash”, soltanto “Slither” dal repertorio dei Velvet Revolver e poi, come è giusto che sia, cinque bordate imparabili dalla zona Guns N’Roses. Su quei cinque palloni che si insaccano violentemente in rete per il delirio dei tifosi Slash marchia a fuoco i titoli “Nightrain”, “Rocket Queen”, “Out ta get me”, e naturalmente “Sweet child o’mine” e “Paradise city”. La gente non si trattiene più, salta e urla a più non posso, qualcuno urla “DJ Ashba, senti come si suonano i Guns!” e i fatti gli danno pienamente ragione…

Con “Paradise city” il concerto si chiude e Slash si avvicina al microfono per la prima e unica volta per ringraziare a nome di tutta la squadra, ma chi ringrazia davvero è il pubblico che più soddisfatto di così non potrebbe essere, perchè è quando scendono in campo i fuoriclasse che la gente si diverte, e Slash un fuoriclasse lo è, senza se e senza ma….

Eppure nonostante il live forse più apprezzato della manifestazione non è Slash a chiudere la serata, ma alcune sue vecchie conoscenze che rispondono ai nomi di Tommy Lee, Nikki Sixx, Vince Neil e Mick Mars. Se Slash ha deciso di affrontare il Gods con una scenografia che più scarna non si può, la stessa cosa non si può certo dire dei Motley Crue, che hanno fatto montare sul palco già la mattina il roller coaster di Tommy Lee, e alle 10 fanno il loro ingresso sulle note di “Wild side” tra luci, fumo, proiezioni video e due gentili donzelle in abbigliamento che più corto non si può, inutile dirlo, il Gods of metal esplode e i maschietti apprezzano…

Da qui in poi è uno spettacolo 100% Motley Crue style, con il gigantesco Nikki Sixx che ancora una volta si dimostra il più duro a perdere colpi, quel pazzo scatenato di Tommy Lee che vien da pensare che si sia fatto aggiungere un paio di braccia tanto riesce a far tuonare i suoi tamburi, Mick Mars in una forma strepitosa a prendersi al volo tutti gli assoli possibili e infine Vince Neil, un animale da palcoscenico in tutti i possibili significati di questa definizione, sprezzante, sfacciato, con l’immancabile abbigliamento smanicato a mostrare bicipiti e tatuaggi, capace di stare sul palco con la stessa semplicità con cui ci si sdraia sul divano di casa. Carica il pubblico come pochi il buon Vince, e la sua energia fa passare in secondo piano un calo vocale che lo porta a qualche comprensibile cedimento, ma per ogni svarione della voce di Vince c’è un’assolo coprente di Mick o una deriva rumorosa di Nikki, e dove non arrivano loro ci pensano le due ballerine sul palco che si guadagnano facilmente l’attenzione, perlomeno quella del pubblico maschile…

Una scaletta non troppo lunga quella della band californiana, 15 pezzi se non si contano i momenti strumentali e i deliri della drum machine dello scatenato Tommy Lee, ma esplosiva e a tratti nostalgica – per quanto possa essere nostalgica una qualsiasi esecuzione delle tonnellate di watt di una canzone targata Motley Crue – che va a pescare “Live Wire” e “Too Fast for Love” per un botta e risposta dall’album d’esordio datato 1981 che scalda e agita, ma anche dai lavori più recenti, ed è il caso della successiva “Saints of Los Angeles”, title track dell’ultimo lavoro in studio dei quattro, e poi ancora brani nuovi e pezzi datati, classici tutti da cantare e musiche tutte da godere, da “Don’t Go Away Mad” a “Looks That Kill”, da “Same Ol’ Situation” fino a “Smokin’ in the Boys’ Room”, e poi uno dei momenti più attesi, quello di Tommy Lee e del suo Roller Coaster, il binario circolare su cui poggiano la batteria e la drum machine dell’ormai quasi cinquantenne che però non accenna a voler mettere la testa a posto, ora è il suo momento, la drum machine comincia a sparare i primi ossessivi ritmi, un’enorme mano compare nel vidiwall e appoggia le sue dita sulla batteria, la “prende” e la trascina in giri della morte che fanno andare in delirio gli spettatori, Tommy Lee continua a suonare la drum machine e non accenna a fermarsi nemmeno quando si ritrova a testa in giù, sale e scende per un po’ e poi chiama a sè Domenico Benfante, il vincitore del “Motley Crue Roller Coaster Competition” – concorso in cui l’obiettivo era convincere Tommy Lee a concedere un giro sul roller coaster con un autoscatto – e lo fa accomodare dietro la batteria, pronti, via! Si ricomincia, ritmi compulsivi della drum machine, per Domenico un sogno che si avvera e per tutti gli altri un pizzico di invidia…

Ma il tempo sembra passare in un lampo, terminato il delirio del roller coaster è già il momento dei botti finali, un quartetto di pezzi che difficilmente si sarebbe potuto immaginare migliore: “Dr. Feelgood”, “Girls, Girls, Girls”, “Home Sweet Home” e “Kickstart My Heart” chiudono un concerto dalla portata titanica, nonostante la relativamente breve durata (non un minuto oltre l’orario previsto di fine) e qualche defiance vocale del comunque incredibile Vince Neil, i Motley Crue salutano tra gli applausi con fuochi d’artificio e un’enorme scritta sul vidiwall che recita “30 years of CRUE, Grazie Milano” che dire? Grazie a voi!

È difficile dire quale sia stata l’esibizione più apprezzata, se quella di Slash o quella dei Motley Crue, probabilmente quella del buon ricciolone è stata un pelino più sentita, mentre i Crue – per quanto spettacolari e incisivi – sono stati più “da spettacolo”, certo è che entrambi hanno dato tutto e entrambi hanno lasciato qualcosa nelle orecchie e nei cuori di chi ora si avvia verso casa, stanco, rintronato dai volumi alti, ma con il sorriso stampato in faccia, potere della musica….

 

Written by Emanuele Bertola

Photo by Emanuele Bertola

Per leggere il resoconto della prima giornata del Gods of Metal (21 giugno 2012) clicca QUI.

Per leggere il resoconto della seconda giornata del Gods of Metal (21 giugno 2012) clicca QUI.

 

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