Tracklist de “Time of the signs”, album d’esordio degli Hate Boss
Il 30 marzo 2012 è uscito il disco d’esordio della band trevigiana Hate Boss. L’album “Time of the signs” è disponibile nei negozi tradizionali e nei principali digital store, prodotto da Redled Records e distribuito da Venus.
“Time of the signs” contiene nove tracce di rock elettronico.
“Il titolo del nostro album è un chiaro riferimento e omaggio al famoso disco di Prince – spiega la band – Il tema portante è quello dei segni, intesi a vari livelli: non un vero e proprio concept album, ma comunque un progetto ispirato da un mondo in continua evoluzione”.
Questa la tracklist di ““Time of the signs””:
“Palm Beach”
“Shapes”
“Time of the signs”
“Decode”
“Age of flames”
“Kim Peek”
“Brighter”
“Sailing”.
PALM BEACH
É un pezzo fatto di pancia, volevamo qualcosa che ci facesse ballare e volevamo provare a mescolare un pò di stili diversi, ma non sapevamo da dove iniziare. Un giorno, nel nostro studio, Emanuele ha cominciato a giocherellare con il pitch di un synth, suonando quello che poi sarebbe diventato il tema “ossessivo” presente nei bridge. Qualche giorno dopo, Mattia ha proposto di utilizzare un ritmo sincopato stile dance hall, su cui Simone ha poi aggiunto delle chitarre che ribattono il tema. É un pezzo da ballare e cantare senza pensare, senza sapere quello che si vuole dire.
SHAPES
Questo pezzo è un continuo start/stop, dove la vera forza è data dalle pause. Qui la chitarra fa da controcanto alla voce, con un testo dedicato al trend delle “forme geometriche”, una forma di venerazione per le forme in sé, al di là del loro significato. Nel bridge la situazione sonora cambia completamente: è la chitarra che si distoglie dai clichè e diventa portante, con una serie di accordi sospesi, eterei, che rendono l’idea dell’ultraterreno, del divino.
Questo pezzo, che dà anche titolo all’album, racchiude un pò tutto l’immaginario del disco. Il tema portante sono i segni, intesi a vari livelli: dalla vera e propria simbologia che ormai la fa da padrona nel mondo, ai segni premonitori, quelle situazioni, date, sensazioni che danno la direzione, o quantomeno, la suggeriscono. Il concetto ha iniziato a girarci in testa dopo il terremoto in Giappone, avevamo l’impressione che non fosse successo per caso, ma che fosse una sorta di avvertimento del mondo nei nostri confronti. Ma il testo non è disfattista, anzi, invita a credere a questi segnali che indicano il percorso da intraprendere per migliorare. La musica rispecchia quello che è il messaggio: la strofa, tutta basata su un unico accordo, è sospesa e in tensione, per poi liberarsi nel ritornello con un’aria molto più distesa.
DECODE
È il pezzo più vecchio presente nel disco: abbiamo iniziato a scriverlo nel 2010, appena formati. Avevamo questo coro nato per scherzo che ci piaceva molto, ma continuava a suonarci o troppo rock, o troppo dance, comunque troppo banale. Il campionamento iniziale ha poi completamente cambiato volto al pezzo. Qui si fa una riflessione su quello che attualmente è il nostro modo di immagazzinare i dati: il computer. Dopo aver letto un articolo in cui si parlava di come, rispetto ad ogni civiltà che ci ha preceduto, noi immagazziniamo il nostro sapere con un sistema che prevede un lettore per poterlo decodificare. Un giorno Mattia ne ha parlato con il nostro amico Francesco Putano, che ha colto al volo il significato intrinseco della riflessione, e ha scritto un testo perfetto per quello che volevamo esprimere.
Ad inizio 2011 eravamo di ritorno da un concerto a Bologna in cui nell’aftershow avevamo passato dei dischi, tra cui alcuni pezzi dubstep, e ci eravamo chiesti come sarebbe stato riprodurre quel suono così tecnologico con degli strumenti acustici. Dopo una serie di prove il risultato non era granchè, e stavamo per accantonare l’idea. Emanuele però ha proposto di renderlo molto ritmico, e farlo diventare quasi tribale. Così abbiamo iniziato a suonarci un sacco di percussioni sopra, e per calcare la mano abbiamo utilizzato dei suoni di synth quasi trance. La svolta è venuta poi da Simone, che con un tema di chitarra quasi post-rock ha dato la svolta al pezzo. L’unico appunto dubstep nel pezzo rimane il clap dimezzato sulla cassa in 4/4.
MONKEY
E’ il pezzo più “punk” del disco. Un pezzo fatto di campionamenti ed effetti (curati da Tommaso Mantelli), synth e chitarre distorte che si sovrappongono ad una ritmica dance, quasi disco. Il cantato ironizza su un modo di dire inglese “…is the new black”, cioè “…è la nuova tendenza”. L’ironia è nei confronti della moda, che tenta di far passare il messaggio che è necessario essere sempre al passo, ma essendo ciclica, si ritrova in un circolo vizioso che mal si sposa con il messaggio che vuol far passare. Da qui “Black is the new Black”.
Kim Peek è stato forse il più famoso “Savant” della storia. I Savant sono persone afflitte dalla malattia di “ricordare tutto”, con il problema di utilizzare il cervello per immagazzinare qualsiasi informazione, anche le più superflue, togliendo spazio al normale utilizzo per le più semplici azioni. Per capirci, Kim Peek è il personaggio ispiratore del film “Rain Man”. Mattia, dopo aver visto un documentario su questo tema ce n’ha parlato, e ci sembrava un tema interessante da affrontare: una persona che conosce tutto, assurdamente, non è la più intelligente del mondo. Dato il ricordo del film, la base è un elogio al periodo storico, gli anni 80, e più precisamente a quel Moroder che ha reso celebre la musica elettronica italiana nel mondo.
BRIGHTER
Un pezzo che parla di rotture, di rapporti che volgono al termine. Di come, quando ti senti tradito, vorresti ti venisse urlata in faccia la verità, piuttosto che nascosta. La musica, spezzata e nervosa nell’introduzione, si rilassa nella strofa, quasi rassegnata, per poi esplodere nel ritornello, in cui si chiede di dire la verità, di esporsi, di urlare, piuttosto di tenersi le cose dentro.
SAILING
Il pezzo che chiude il disco riflette il suo titolo. É uno strumentale che rappresenta una sorta di “quiete dopo la tempesta”, la navigazione sommessa di una barca in balia delle onde dopo una burrasca. Cercavamo un pezzo che rallentasse un pò il ritmo, e così un giorno Mattia e Simone si sono messi a suonare solo i synth, utilizzando uno di questi per la ritmica ossessiva, registrandoli. Il risultato era un quarto d’ora di psichedelia senza un gran senso, che però ci affascinava. Abbiamo quindi editato la traccia portandola a circa 4 minuti, e continuava a funzionare. A quel punto l’abbiamo utilizzata come provino, e in studio l’abbiamo risuonata in presa diretta. Buona alla prima.
Bio:
Gli Hate Boss nascono nel 2010 nella provincia di Treviso, a Conegliano. Dopo aver pubblicato il primo ep “So Much” ed il singolo “Get Out” con la collaborazione di Tommaso Mantelli (Captain Mantell, Il Teatro degli Orrori), la band partecipa a numerosi festival e suona nei più importanti rock club italiani, calcando il palco di artisti del calibro di Motel Connection, Does It Offend You Yeah, Zombie Nation, Boys Noize, Chicks on Speed, Bloody Beetroots e molti altri.
Gli Hate Boss sono Mattia “Low” Tomasi (voce – basso – synth), Simone “Zacca” Zaccaron (chitarra – synth), Emanuele “Ema” Lombardini (batteria) e Alessandro “Ale” Tomasi (elettronica – synth). Il loro progetto artistico nasce nella data palindroma 01.02.2010, a Nord Est, più precisamente a Conegliano (TV), ma se non fate quattro chiacchiere con loro non vi accorgereste della loro provenienza.
Il sound degli Hate Boss, infatti, ha confini europei, è originale ed assolutamente innovativo.
Nella “casa rossa”, il loro project studio, gli Hate Boss raccolgono bassi fatti in casa, chitarre hard rock, batterie di plexiglass, vecchi synth analogici, nuove cianfrusaglie elettroniche, strumenti etnici souvenir di viaggi esotici, pentolame e ogni possibile oggetto che possa creare suoni, dinamiche e vibrazioni.
Amano l’elettronica di SBTRKT, il punk funk degli anni 80, la dance di Moroder, la cassa in quattro senza il charleston in levare, le texture di chitarra e i bassi grassi del moog.
Spingono dalle casse pura energia, quell’energia unica, nuova e diretta che sa unire la dance dei Daft Punk, il tiro dei Queens of the Stone Age, la ricerca sonora di Trent Reznor, il funk di George Clinton, la sensualità di Prince e l’immediatezza del pop.
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