L'immagine conturbante: intervista di Alessio Galbiati all’artista Francesca Fini
L’immagine conturbante.
Sono molte le forme possibili dell’immagine in movimento, inutile confinare la passione per esse al solo cinema, perché è nella moltitudine delle sue concretizzazioni che il cinefilo (contemporaneo) trova il proprio appagamento, la soddisfazione della propria dipendenza. «Ho la mia dose o non ce l’ho» diceva Jean Epstein a proposito dei serial cinematografici degli anni dieci. È sano dunque allargare i confini, abbattere gli inutili steccati che contengono il piacere in categorie pre-costituite delle quali non se ne sente l’esigenza, necessarie unicamente al “mercato” dell’Arte, come a quello sotto casa. Da qualche tempo anche le riviste cinematografiche provano gusto ad estendere il proprio gusto, alla ricerca di una ri-definizione del proprio specifico, come pure d’un maggior numero di lettori.
Francesca Fini è una donna–immagine: produttrice di immagini (statiche ed in movimento, reali e sintetiche) attraverso l’utilizzo di differenti linguaggi: dalla performance alla regia, dall’interaction design alla (hyper) grafica, passando per una miriade di ibridazioni e contaminazioni. Nel corso degli anni si è cimentata con diversi media, esordendo addirittura nel ’96 con il romanzo (di autobiografica formazione) “Così parlo Mickey Mouse”, per passare poi a lavorare per il cinema e la televisione. La sua formazione multidisciplinare è divenuta la forza e la caratteristica dalla quale partire per costruire una propria organica ed originale carriera artistica. Il corpo è per lei territorio sensibile con il quale esplorare suggestioni e riflessioni sull’ancestrale (a)modernità dei bisogni e delle necessità dell’uomo (meglio, la donna) e della sua rappresentazione, ma soprattutto campo di battaglia entro il quale, e con il quale, articolare azioni e gesti che diventino altro da sé. Corpo manufatto ibridato con tecnologia concettuale d’ispirazione cyberpunk (low-tech femminista alla luce del “Manifesto cyborg” di Donna Haraway, testo-faro dell’artista romana).
Le immagini in movimento di Francesca Fini sono ordigni conturbanti, turbano evocando passioni ed emozioni, mettono in scena un corpo amplificato dalla tecnologia che mantiene intatta la propria natura animale e biologica. I video delle sue performance, sempre d’ottima fattura, riescono ad essere non mere registrazioni ma veri e propri piccoli film colmi di sorprendente ed ammaliante genialità.
A.G.: Videoarte è divenuto un termine ombrello sotto al quale far convergere una miriade di forme artistiche differenti; già di per sé la videoarte, essendo un linguaggio e come tale catalizzatore di altro da sé, contiene-rielabora-trasforma altri linguaggi e forme artistiche. Dalla sua nascita, con le prime opere di Nam June Paik, fino ai giorni nostri, la videoarte è stata ed è tutto ed il contrario di tutto. Con i video di Francesca Fini ci si trova di fronte alla concretizzazione audio/video (dunque cinematica) di performance artistiche uniche. I tuoi video sono infatti la registrazione di operazioni artistiche uniche ed irripetibili, molto spesso concepite proprio per il solo occhio digitale della telecamera – unico spettatore ammesso alla messa in scena. Insomma: cos’è per te la videoarte e che definizione daresti alla tua ricerca artistica entro questa forma d’espressione?
Francesca Fini: Dici bene riguardo la videoarte, e infatti io non me la sento di avventurarmi in definizioni e previsioni, diventando una delle tante voci del coro. Ultimamente ho assistito ad un fenomeno interessante; mentre il Guggenheim ha indetto un coraggioso concorso su Youtube, selezionando poi una ventina di filmati di grande qualità tecnica ed estetica (tanto da spingere alcuni frequentatori del canale a parlare snobbisticamente di “i-pod commercials”), altrove si pensa che per essere artisti bastino i concetti, e si esalta la povertà estetica e tecnica come se fosse un valore (come si dice: se fai delle belle foto sei un bravo fotografo, se fai delle brutte foto sei un’artista).
Ho sentito esaltare e demolire Bill Viola, da grandi personaggi del mondo dell’Arte, con argomenti altrettanto convincenti. Ed è proprio come dici tu: la videoarte è tutto e il contrario di tutto. Secondo me la videoarte, proprio per la sua natura di catalizzatore di linguaggi, è arte all’ennesima potenza; ovvero un campo minato su cui saltano i cervelli, perché non col cervello ci si dovrebbe avventurare, ma con l’istinto. Un istinto alla “Karate Kid”, che ti fa muovere come un giunco ascoltando lo spazio ad occhi chiusi, è lo strumento principe di indagine dell’arte contemporanea. A volte non capisci perché ma sai che qualcosa è profondamente contemporaneo, mentre altre cose non lo sono affatto. Che qualcosa è avanguardia, videoarte, e altre cose non lo sono. Questo mistico istinto è la chiave per decifrare la videoarte. E io mi muovo istintivamente – in questo momento della mia vita artistica – in un luogo di confine tra la videoarte e la performance art. Il mio bisogno di raccontare una storia – e fissarla per sempre attraverso il video – deve passare attraverso un’esperienza personale improvvisa, contingente, unica e irriproducibile, che è la performance art. La performance art, e il mio immergermi in un’esperienza catartica dai risvolti imprevedibili, mi consente di essere leale con il mondo, offrendogli autenticità. Mentre la scatola visuale a volte molto complessa in cui la mia performance si muove e viene immortalata, mi consente di essere leale con me stessa, di non tradire il mio amore assoluto per la Bellezza. Un esempio di questa urgenza che diventa metodologia è “Oasi nel deserto”, in cui la mia performance, ispirata al cinema surreale, mi vede trascinare una sdraio da spiaggia alle tre di notte nella zona residenziale di Tor Bella Monaca, vestita come una diva anni ’50. Arrivo davanti ad un muro buio come la notte, appoggio la mano e la parete si apre magicamente, rivelando una spiaggia assolata, che è creata da una proiezione
video. Io mi siedo sulla sdraio a bermi quel sole artificiale che si mescola ai graffiti nel muro fatiscente. Il significato della performance credo sia chiaro; ogni deserto ha la sua piccola oasi, che diventa metafora dell’immaginazione, invocata dal graffito virtuale impresso temporaneamente dal video e da quello reale e perpetuo inferto da un artista sconosciuto. Ma anche l’oasi ha il suo deserto, e io consumo in perfetta solitudine una performance situazionista irripetibile, destinata in quel momento solamente a me stessa e alla telecamera che inquadra la scena.
A.G.: Quali sono le modalità produttive delle tue opere? Vorrei provassi a raccontare la tua autarchica predisposizione alla produzione anche attraverso la descrizione dello studio autocostruito entro il quale gran parte delle tue opere prendono vita.
Francesca Fini: Questa pratica “autarchica” di lavoro l’ho adottata nei miei ultimissimi video “War”, “The shadow” e “Western meat market – the birth”, e sta diventando una metodologia, una cifra stilistica per così dire. Provenendo dal mondo dell’audiovisivo ho raccolto nel corso degli anni un know how tecnico, una capacità narrativa – e direi anche certe deformazioni professionali – che non possono non influenzare il mio modo di fare arte. Quando penso ad una performance o ad un’installazione, io penso anche subito allo sguardo che la catturerà perché possa essere diffusa. Le mie sono videoperformance in molteplici sensi; perché spesso includono il video o l’interazione con il video, ma soprattutto perché la principale modalità di diffusione di queste opere è l’audiovisivo. Ovvero sono opere in cui la performance art – linguaggio temporaneo per antonomasia – diventa l’esperienza unica e irripetibile che condivido con il destinatario finale, a cui arriva sotto forma di audiovisivo. In tal senso le opere audiovideo che produco rientrano nel variegato mondo della videoarte, proprio perché sono concettualizzate nel momento in cui viene concettualizzata anche l’opera. Naturalmente in arte non si inventa mai nulla e io mi sento vicina alla ricerca video di Vito Acconci, al suo particolare modo situazionista di fare videoarte attraverso se stesso e il suo corpo.
A tale scopo, visto che ho la presunzione di essere una delle poche persone che sanno riprendere davvero un’opera di performance art, ed essendo anche in genere la protagonista delle mie performance, mi trovo ad affrontare il paradosso fisico di dover essere contemporaneamente davanti e dietro la videocamera. Sono riuscita a rendermi indipendente costruendo insieme al mio compagno uno studio fotografico un po’ speciale, nel seminterrato della casa dove abito. È una sorta di scatola performativa completamente rivestita di cotone nero, per assorbire la luce e isolare l’azione. Tutto intorno ci sono gli stativi con le luci, i microfoni e telecamerine tascabili HD orientate strategicamente. Il totale dell’azione è invece registrato frontalmente dalla mia inseparabile Sony HDV.
Utilizzo un manichino posizionato dove si svolge l’azione per orientare le telecamere e fare le luci, poi accendo questa macchina infernale e do il via alla performance. Performance che vivo in questo modo per la prima volta, in solitudine, nel box performativo che ho costruito nella mia casa, davanti alla telecamera, generalmente di notte e nel silenzio assoluto. La vivo senza aver fatto prove preliminari, se non dentro la mia testa, o dopo aver eseguito dei semplici test per la strumentazione e i devices tecnologici che dovrò utilizzare in fase performativa. Ovviamente quella stessa performance mi capiterà in seguito di ripeterla, magari più volte, in teatri e gallerie d’Arte, davanti ad un pubblico, come sono spesso invitata a fare. Ma non avrà mai più il sapore autentico della prima volta, quella che ho catturato in video e per me stessa. Una performance può anche nascere ed essere concettualizzata davanti al video. È il caso di “War”. La mia idea era di riempire la stanza di palloni colorati con dentro della vernice, e poi farli scoppiare. Non avevo un’idea precisa di dove andare a parare, in quel caso. Avevo in mente l’action painting, ma niente di più concreto. Volevo provare a capire dove mi avrebbe portato quest’esperienza. Ho allestito il box, riempito di pittura i palloncini. Dopo le prime esplosioni, con la pittura che mi colava dalle mani e sul vestito, ho capito che in realtà era come se stessi uccidendo qualcuno. I palloni erano faticosi da rompere, dovevo comprimerli, schiacciarli con tutta la forza che avevo, con tutta la violenza che trovavo, dovevo strangolarli per farli esplodere. Una fatica mostruosa che mi lasciava svuotata, sconvolta, ad ogni esplosione, come se stessi facendo qualcosa di orribile. Eppure non riuscivo a smettere.
Così è nato “War”.
A.G.: Anche dal punto di vista cinematografico la produzione dei tuoi video non sembra essere lasciata per niente al caso. Utilizzi sempre telecamere di buon livello, spesso più d’una, adotti una fotografia complessa ed una cura particolare all’audio è immediatamente riscontrabile. Anche in questo caso fai tutto da sola?
Francesca Fini: Sì, ho studiato direzione della fotografia in ambito digitale, sono sound designer e video editor. Quindi curo io la fotografia, monto io il materiale multicamera che produco, e mixo il suono che, soprattutto nelle mie ultime performance, è prodotto dal vivo grazie a strumenti di interaction design.
Lavorare alle mie cose in solitudine mi piace moltissimo, anche se spesso coinvolgo altri performer e li invito a partecipare ai miei esperimenti.
A.G.: “Western Meat Market – the birth” è la tua ultima creatura. Un video di 7 minuti in cui esplori il concetto di carne maneggiandone dei pezzi inseriti in un contesto/messa-in-scena sviluppato all’interno di una installazione di interaction design. Un’installazione, entro la quale sarà l’esperienza sensibile, il contatto, a far risuonare suoni e le immagini. Un’opera dal forte impatto visivo ed emozionale che sintetizza/concretizza, appunto nel video, parecchie delle pratiche artistiche da te praticate: performance, interaction design, videoarte, regia, sound editing e live cinema. Vorrei sapere quali sono state le idee guida per la realizzazione dell’opera e come, tecnicamente, l’hai resa possibile.
Francesca Fini: “The birth” è la prima di un set di azioni performative con cui voglio raccontare il rapporto della nostra cultura con l’idea di carne, spogliata dai suoi riferimenti sessuali e intesa come l’essenza stessa, materiale e fisica dell’altro, lo spazio che occupa, il suo odore nell’aria, e la sua interazione con noi. La carne è fatta di tutto, ed è un conduttore di mondi con i quali cerchiamo una qualche forma di dialogo, di negoziazione. Io racconto questo cortocircuito, il cortocircuito della magia del tocco e del riconoscimento della presenza dell’altro, del mondo, di qualcosa di sfuggente ma innegabile, attraverso l’interaction design. Nella performance mi trovo davanti ad un altare coperto di carta stagnola. L’altare è sorretto da pile di libri e candele accese; i lumi della ragione con cui noi occidentali esorcizziamo la paura del vuoto. Ho un capo di un elettrodo a basso voltaggio nel braccio, che polarizza tutto il mio corpo, attraversato parte a parte da un flusso di energia a tratti percepibile. L’altro polo dell’elettrodo è fissato alla carta stagnola che riveste l’altare. Quando tocco la carne, questa fa da conduttore e il circuito si chiude, inviando un segnale a un sintetizzatore digitale che lo traduce in una sinestesia di suoni e immagini grafiche. Così è come se dessi voce a quella carne, come se la facessi cantare. All’inizio il canto è asettico, costituito da una ripetitiva sequenza di note di pianoforte, ma poi si trasforma in una sinfonia di versi. Ogni volta che tocco la carne, questa risponde con il verso di uno degli animali della Terra intrappolati in un ecosistema in declino. E una parte interessante della performance è quello che non si vede, quello che succede dopo, quando lavo questa carne purificata, questa carne a cui ho fatto cantare il suo ultimo canto di
morte, e la offro per cena ad un gruppo di amici.
A.G.: Trovo assai interessante nei tuoi lavori la centralità data al corpo umano, corpo che diviene al contempo soggetto ed oggetto, struttura sopra alla quale riconfigurare un reale possibile. Un corpo, sempre di genere femminile e (quasi) sempre il tuo, immerso in una realtà tecnologica, rischiarato dalla “teoria del cyborg” di Donna Haraway. Il corpo nelle tue performance diviene concretizzazione artistica del cyborg teorizzato da Haraway: «un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, una creatura che appartiene tanto alla realtà sociale quanto alla finzione». È dunque, la tua, una ricerca/indagine sulle forme possibili dell’essere umano cibernetico?
Francesca Fini: «Essere un cyborg è la condizione del ventunesimo secolo, non un’identità o uno stile di vita opzionale» (Geert Lovink, Dark Fiber). Cito Lovink perché di fatto siamo tutti già dei cyborg, per quanto quest’idea possa risultare spiacevole. Abbiamo imparato ad amplificare e ad appuntire i nostri sensi attraverso delle protesi cyborg non rendendoci conto della portata e del significato dei gesti che compiamo quotidianamente. In una mia performance io sviluppo il tema visivo cyberpunk del display tv al posto della testa. Tengo questo display davanti alla faccia, poi lo lascio scivolare lungo il corpo. Il video nel monitor replica le parti di me che vengono “inquadrate” durante la performance, come in un radiografia pop: il cuore si squarcia e pulsa, la pancia si apre e rivela un segreto. Molti mi hanno detto che sono rimasti turbati da questa visione, da questa mescolanza tra l’immagine nel display e il mio corpo, da questo riflettersi continuo di reale e virtuale, senza pensare che questa mescolanza è il cocktail quotidiano della loro esistenza, quando soffiano la vita nell’involucro vuoto dei loro avatar, nelle chat o nei social network, davanti ad un computer (che magari non è fissato alla loro faccia, o innestato nel loro corpo, ma è di sicuro la protesi irrinunciabile della loro vita, come una gamba finta che togli quando vai a dormire). Io conosco persone che non riescono più a spostarsi in città senza il navigatore o entrano nel panico quando non trovano il cellulare, perché improvvisamente scoprono di aver perso la “connessione” con il mondo, che oramai non è più quello fisico che abbiamo davanti, ma un intreccio di esperienze aumentate, comunicazioni e informazioni virtuali a cui accediamo attraverso protesi che ci amplificano. E per un momento perdere il cellulare è come perdere la vista.
Io sono un cyborg, il mio corpo è già quello di una creatura che appartiene tanto alla realtà sociale quanto alla finzione. La mia missione però è essere il cyborg perfetto, il cyborg consapevole, che non subisce gli apparati e le protesi, ma le piega al suo volere. Il mio essere donna ha molto a che fare con questo desiderio di rubare la saetta a Zeus, perché la sete di riscatto e di controllo di ciò che è precluso o proibito è ancora più forte.
A.G.: Nelle tue opere nulla è preordinato, tutto è irripetibile/unico. Crei delle situazioni, dei set, configuri una tecnologia che governi l’azione, accendi le telecamere e riprendi quello che succede. Il grado di improvvisazione è massimo pur se calato all’interno di un “sistema” assolutamente preordinato. “Strict randomness” direbbe George Brecht. Ritengo che parte del fascino delle tue opere risieda nella tensione fra ordine e caos che sei in grado di realizzare, tensione che si concretizza in immagini in movimento dotate di una forza sorprendente conferitagli dall’unicità irripetibile della quale sono formate (la stessa dei sogni?). Ma come gestisci questo metodo di lavoro e soprattutto perché lo ricerchi, in ogni tua opera, con così tanta costanza?
Francesca Fini: Questa è la mia ossessione. Come dice Giovanni Albanese, amico e grande artista, in arte bisogna essere ossessivi. Io ho trovato in questo equilibrio tra ordine e caos, la formula magica della mia ossessione, che mi consente di creare qualcosa che reputo degno di essere diffuso. Qualcosa in cui autenticità, verità e bellezza (che per me è sinonimo di ordine) riescano a convivere. Come ho detto all’inizio, non concepisco l’arte puramente concettuale, il gesto performativo eclatante, ma non cedo all’ipnosi estetica di molta arte installativa contemporanea, che diventa grazioso giochino fine a se stesso.
Ci deve essere verità sentita, forte, una voce che spacca i timpani, ma modulata all’interno di uno spartito perfetto. Io cerco un equilibrio, convinta che nell’equilibrio e non nell’eccesso si consumi la fiamma più ardente, quella che ti arriva al cuore. Il resto mi annoia o mi spaventa.
In questo sono una creatura che appartiene ad una corrente di pensiero aristotelico totalmente fori moda.
A.G.: I tuoi video, le tue video performance, sono visibili online gratuitamente. Scelta non scontata per un’artista che si muove fra gallerie d’arte, festival e musei… come sei giunta a questa scelta? È unicamente dettata dalla necessità alla diffusione/promozione oppure c’è qualcosa di più?
Francesca Fini: Io credo fermamente nello sharing di immagini, stimoli, suggestioni e idee. Chiunque è libero di trarre spunto dalle mie opere, dai miei esperimenti, magari per sviluppare qualcosa di diverso e più complesso.
A.G.: Se un internauta, o un essere umano nel mondo reale, volesse farsi scorpacciate della migliore videoarte contemporanea quali realtà “reali” e web ti sentiresti di consigliargli?
Francesca Fini: E qui la scelta è ardua, ci sono moltissime risorse in giro di grande qualità. Sicuramente un bel sito è Ubuweb (www.ubuweb.com), con un grande archivio di documenti storici sull’arte sperimentale e le avanguardie. Ci trovate molti video irrinunciabili, da quelli di Acconci al bellissimo film “Balkan Baroque” su Marina Abramovic, ma anche le più recenti commistioni tra arte visiva e pubblicità fatte da Murakami. Altro archivio, più indirizzato verso la videoarte nello specifico, è Tank TV (www.tank.tv). Altro contenitore di videoarte è la famosa “Perpetual Art Machine” (www.perpetualartmachine.com).
Per quanto riguarda la performance art mi sento di consigliare il “Contemporary Performance Network”, dove è possibile incontrare altri artisti, partecipare alle artist calls e scoprire residenze artistiche in tutto il mondo (www.contemporaryperformance.com).
Per chi è orientato verso le contaminazioni tra live art, danza sperimentale e tecnologia, c’è “DanceTech.net”, un network davvero interessante, soprattutto per la presenza di una webtv per addetti ai lavori, che diffonde stimoli e suggestioni di grande qualità. (www.dance-tech.net).
Siti utili:
www.francescafini.com | www.francescafini.tumblr.com | www.tendieci.blogspot.com |www.vimeo.com/channels/francescafini | www.celesteprize.com/francescafini |
www.imdb.com/name/nm3357525
Fonte:
http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=11775
Video performance Francesca Fini:
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=duOKOEnw070&w=560&h=315]
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