“Women of Vision”: l’esposizione fotografica sulla donna di National Geographic, fino all’11 gennaio 2015, Torino

Spesso si dice che «dietro un grande uomo si nasconde una grande donna», una frase non sempre condivisa, ma che dimostra quanto il ruolo della donna debba essere valutato per la sua interezza e complessità. Ebbene, parafrasando questo detto, si potrebbe dire che anche dietro un obiettivo fotografico si nasconde una grande donna, come le fotografe del progetto Women of Vision promosso da National Geographic. Qual è la novità di questo progetto? Cerchiamo di scoprirlo insieme.

«Ci sono storie, a questo mondo, che possono raccontare solo le donne», questo è lo slogan adottato dagli organizzatori e dalle artiste dell’esposizione fotografica che si terrà fino all’11 gennaio 2015 nelle sale del Palazzo Madama a Torino. Un evento unico nel suo genere poiché per la prima volta saranno presentate le opere fotografiche delle artiste, le vere protagoniste della mostra, al contrario di quanto capita di frequente giacché: «Sono gli uomini che vanno in giro per il mondo a raccontarlo, le donne generalmente stanno più vicino a casa. Questa mostra ribalta questa situazione. Chi l’ha fatta ha sicuramente faticato molto più dei colleghi, portando all’interno della società punti di vista nuovi e forti», ha spiegato Marco Cattaneo, il curatore della rassegna che è nata da un’idea di Patrizia Asproni, presidente della Fondazione Torino Musei, e realizzata con il Gruppo Editoriale Espresso che da sedici anni pubblica la versione italiana di National Geographic.

Ma qual è la particolarità di queste fotografie? In realtà, gli scatti delle artiste mostrano gli elementi che la società a volte trascura, come la condizione femminile delle zone economicamente emarginate – ne sono un esempio, le fotografie di Stephanie Sinclair scattate in Yemen nel 2011, o di Maggie Steber che risalgono al 2010 –, ma anche i ruoli che normalmente sono attribuiti agli uomini, come le donne dell’esercito raccontate dalle immagini della stessa Sinclair. Insomma, le novantanove opere vogliono far emergere il punto di vista delle donne, sollevando il velo sui tabù e sui pregiudizi.

Le fotografe arrivano là dove i colleghi maschi non possono giungere, in ambienti in cui è vietato loro l’accesso. Infatti, le artiste hanno avuto la caparbietà di sostenere le idee e di farsi largo in un mondo in cui da sempre domina il punto di vista degli uomini, come ho anche spiegato nell’articolo dedicato alla Women in…. Art di Bari. Eppure, le novantanove opere sono l’esempio evidente dell’arte che sta finalmente aprendo le sue porte alle donne e le rende maggiormente partecipi nella realizzazione dei progetti culturali.

Così, oltre ad offrire uno sguardo diverso e inedito della vita e della società, la mostra si arricchisce ulteriormente dell’impegno umanitario di fotografe come Stephanie Sinclair, la quale ha prestato una delle sue più importanti opere, Troppo giovani per dire di sì (giugno 2011, Hajjah Yemen), per la copertina del catalogo che ritrae una bambina di dieci anni, Nujood Ali, la quale ha deciso di fuggire dal marito violento. Con il progetto Too Young to Wed la Sinclair, infatti, si è assunta l’onere di documentare, per undici anni, il dramma delle spose bambine. Un compito arduo che, in ogni caso, è servito a riscuotere l’opinione pubblica e a sollevare il problema nelle culture in cui accade quest’usanza inaccettabile.

In questo caso l’arte si unisce alla capacità di documentare gli episodi e gli aspetti incerti cui purtroppo è soggetta la compagine femminile. Infatti, come ha affermato Chris Johns, il direttore editoriale di National Geographic, nell’introduzione al catalogo della mostra: «I contributi delle fotogiornaliste ai servizi pubblicati da NatGeo sono impressionanti per dimensione e profondità, ma soprattutto per l’umanità che li pervade. La fotocamera ha molto a che fare con la volontà di sapere. Le donne cui è dedicata questa mostra, che scattando fotografie hanno esplorato il mondo, sono animate da questa voglia di sapere, di vedere e far vedere».

Women of Vision, dunque, è un progetto ambizioso e lodevole per i motivi che ho cercato di esporre, tanto più che coinvolge ben undici fotografe. Pertanto, oltre alle opere di Stephanie Sinclair, saranno esposte anche quelle di Jodi Cobb – la quarta artista a entrare attivamente nello staff –, che ci offre delle immagini nuove delle donne che assolvono mansioni per loro impensabili come le soldatesse, ma anche le lavoratrici delle miniere e le contadine. D’altra parte Jodi Cobb ha dichiarato che: «Quando sono entrata in redazione nelle fotografie del National Geographic le donne avevano una funzione puramente decorativa: gli uomini erano sempre mostrati in azione, mentre l’unico compito delle donne sembrava quello di “essere carine”. La mia ambizione diventò allora mostrare le donne all’opera nelle loro missioni quotidiane».

La motivazione della Cobb è essenziale affinché si possa capire che il vero percorso della parità di genere è un altro, e non è di sicuro quello offerto dalla società delle immagini che, sempre più spesso, genera frustrazione nelle donne alle quali vengono proposti loro dei modelli irraggiungibili, ma non per questo attendibili e universali. Le donne, infatti, dovrebbero essere valutate non solo e non tanto per il loro aspetto – una caratteristica, questa, che tuttavia sembra ancora vigere in alcuni ambienti lavorativi –, ma per la loro preparazione e competenza. Questi sono gli aspetti esaminati in Women of Vision ed è anche grazie a Jodi Cobb che affiorano con la tutta la forza che serve per rivelare i volti e la realtà delle donne saudite che sono obbligate a indossare l’abaya, in altre parole l’indumento femminile che le donne musulmane devono portare per non attirare su di loro gli sguardi; o come le geishe giapponesi che sono considerate solo per il loro corpo e non per la loro intelligenza.

«Le donne che ho incontrato volevano tutte le stesse cose: identità, sicurezza, amore, rispetto. Un’istruzione e la possibilità di rendere migliore la propria vita e quella degli altri. In molte culture la subalternità femminile ha radici in tradizioni secolari, ma la loro condizione è destinata a cambiare via via che diventano più istruite e ottengono più credito per il loro lavoro», spiega ancora Jodi Cobb la quale, a questo punto, dichiara il vero obiettivo dell’esposizione che accoglie anche le fotografie delle artiste più giovani come la ventisettenne Kitra Cahana che, per la sua giovane età, ha già le idee molto chiare: le donne devono intervenire nelle situazioni in cui ha sempre predominato il lavoro dell’uomo, per esempio nei reportage che, il più delle volte, sono firmati da questi ultimi.

Assistere alla mostra di Torino sarà, quindi, importante per il visitatore il quale avrà la possibilità di osservare il mondo da una prospettiva diversa. Perché, diciamocelo, sarebbe meglio superare quei canoni non avvalorati da spiegazioni efficaci. Bisogna andare oltre le etichette, giacché nell’ambito culturale ognuno ha il diritto di esprimere la propria soggettività.

 

Written by Maila Daniela Tritto

 

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