“The Warriors – I Guerrieri della notte” film di Walter Hill: la riconquista dell’onore perduto

Non so se Solomon Yurick avesse mai letto l’Anabasi, magari su Classic Comics, la rivista creata dal genio di Albert Lewis Kanter nel 1941 che rappresentava a fumetti le grandi opere della letteratura. Oppure, chissà, Senofonte gli apparve in sogno, inviandogli un messaggio da un’altra dimensione col disegnino della battaglia di Cunassa quando, a metà degli anni Sessanta, allo scrittore newyorchese di origine ebrea balenò l’idea di scrivere “The Warriors”, una novella illustrata dagli accattivanti disegni di Frank Modell.

The Warriors I Guerrieri della notte film
The Warriors I Guerrieri della notte film

Messaggi da altre dimensioni o meno, un paio di migliaia di anni e qualche secolo dopo Solomon Yurick rielaborò quel mito e lo calò nella realtà delle bande rivali della New York degli anni Sessanta, declinandolo dalla prospettiva di una di queste, i Dominatori di Coney Island. E come per i mercenari greci, costretti a un avventuroso ritorno in patria dopo la disastrosa spedizione di Ciro il Giovane contro il fratello Artaserse II per la conquista del trono di Persia, anche i suoi Dominatori avrebbero dovuto attraversare territori ostili controllati da bande rivali, per far ritorno a Coney Island, la loro patria.

E se i greci sopravvissuti alla vista delle acque gridarono “Thálassa! Thálassa!”, anche la gang newyorchese, per bocca di Hinton, novello Senofonte, davanti all’Oceano Atlantico avrebbe affermato: «Quando vediamo il mare, significa che siamo a casa». I Dominatori quindi. Una gang composta da ispanici e afroamericani, invitata come tutte le altre gang della Grande Mela a un megaraduno organizzato per il 4 luglio dal capo dei Troni, Ismael Rivera, con l’intenzione di preparare un esercito rivoluzionario che si sarebbe impossessato della città.

Ma accadde un deprecabile imprevisto: un colpo di arma da fuoco, forse partito dalla pistola di un poliziotto, uccise Ismael, la tregua fra le bande andò a pallino, e a quel punto i Dominatori avrebbero dovuto attraversare territori nemici occupati dai vari Borinquen Blazers, Colonial Lords e Castro Strompers, gang decise a impedire loro l’agognato ritorno a Coney Island.

Bene, a distanza di quindici anni, il produttore cinematografico Lawrence Gordon si impossessa di tutta questa epica e ne affida la regia a un trentasettenne regista californiano, Walter Hill, già aiuto regista di Woody Allen e sceneggiatore in numerosi film di quel decennio, che, dopo aver prodotto “Alien” di Ridley Scott, traspone su grande schermo l’avventura narrata dal Yurick nella sua novella.

Nasce “The Warriors”, inizialmente stroncato dalla critica, ma in seguito pellicola di culto e successo internazionale. Rispetto al romanzo di Yurick, nel film, le bande, composte anche da bianchi oltre che da ispanici e afroamericani, cambiano i nomi: ai Troni e ai Dominatori di miltoniana memoria si sostituiscono i Riffs e i Warriors, e nella gang di Coney Island Cleon, Swan, Ajax, Rembrandt, Snow e Cochise prendono il posto di Papa Arnold, Hinton, Hector, Bimbo e Lunkface. Invariata invece la sede del raduno, il Van Coutland Park nel Bronx, dove ogni gang si deve presentare con nove componenti disarmati.

«Vi siete contati? Io vi dico che il futuro è nostro, se voi riuscite a contarvi. Ci sono sessantamila soldati delle gang e solo ventimila elmetti: tutti noi uniti possiamo controllare la città. Possiamo distruggere la criminalità legalizzata, quella del potere. Sono gli uomini al potere che ci hanno spinti l’uno contro l’altro. Ci impadroniremo di un quartiere per volta, perché la città è nostra e noi la vogliamo.»

Le lapidarie parole del guru Cyrus, il capo dei Riff, la banda più potente della città, infiammano il raduno, ma c’è sempre qualcuno che rovina tutto, e Luther, il mellifluo capo dei Rogues, lo personifica nel momento in cui spara a Cyrus, uccidendolo.

Qualcuno però ha visto tutto, si chiama Cleon, è uno dei nove componenti dei Warriors, ma per l’infido Luther è un gioco da ragazzi incolparlo, additandolo ai Riffs; sono loro i colpevoli, i Warriors di Coney Island! È quello il momento in cui inizia l’odissea dei Guerrieri, accusati ingiustamente e costretti ad attraversare i territori della città controllati da bande che hanno l’ordine di fermarli a ogni costo, incitati da Dolly Bomba, una d.j. che parla da una misteriosa stazione radio. Il viaggio sarà lungo, durerà una notte intera, ma alla fine giustizia sarà fatta, e la dea Nenesi colpirà il vigliacco Luther per mano dei Riff guidati da Masai, che nella scena finale restituiranno ai Warriors l’onore perduto.

Insieme allo slang biascicato dai membri delle gang, i graffiti, che fin dai titoli iniziali ci accompagnano nella visione, è l’altra modalità comunicativa utilizzata da Walter Hill, che sdogana su grande schermo la graffiti art e lo fa per mano di Rembrandt, l’artista dei Warriors “armato” dell’inseparabile bomboletta spray, sorta di testimone iconografico di una forma d’arte metropolitana a volte ripugnante e decisamente scorretta, ma che si presta alla perfezione a definire il codice estetico che accompagna la pellicola. D’altra parte, era stato un misterioso artista newyorchese a inaugurarla all’inizio di quel decennio, girando la nazione e lasciando sui muri delle città circa trecentomila firme a nome “Taki 183”. Pubblicando nel 1971 un articolo dal titolo “Chi è Taki?”, il “New York Times” lanciò la moda dei tags, le firme apposte sui muri di case e palazzi, forma di proto-graffitismo inizialmente confinato ai quartieri più degradati di Harlem e South Bronx, ma che poi si espanderà in tutta New York. Le pareti e i convogli della metropolitana diventano allora il supporto ideale per esprimere, con slogan e disegni ermetici tracciati con bombolette spray, il disagio dei marginali e dei diseredati che popolano le strade della metropoli. Nel film, la ricostruzione notturna di New York è qualcosa che non si dimentica: semideserta, livida, dove gli unici abitanti sembrano essere bande di spostati e i pochi poliziotti che li inseguono, perfetta cornice di un dramma che si dipana dal tramonto all’alba.

I Guerrieri devono tornare a Coney Island, e se la metropolitana tappezzata di graffiti è metafora del viaggio, Union Square e Times Square non sono solo stazioni indicate nella mappa, ma rappresentano una sorta di geografia interiore, con gli inciampi e i pericoli che si è obbligati a superare per far ritorno a casa e, in definitiva, per riconoscere chi si è.

E allora le Lizzies, i Baseball Furies e i Punks, che cercano di sbarrare la strada ai Guerrieri in fuga, sono altrettanti tappe di un’odissea notturna che simboleggia la lotta per sopravvivere. Perché la lotta seleziona i suoi alunni, non sceglie chi conserva la sua tenerezza o chi rimane prigioniero dei propri vizi; sceglie chi è capace di farsi indurire dal percorso della vita. Non tutti ce la fanno, e i sei Guerrieri rimasti, accompagnati da Mercy, una ragazza della banda degli Orfani troppo bella e orgogliosa per passare inosservata agli occhi di Swan, e che forse rappresenterà l’eccezione a quanto affermato da un componente della banda “Le donne significano guai”, alla fine potranno urlare il loro “Thálassa! Thálassa!”

I Warriors, teppisti sguaiati che arrancano in una marginalità senza un domani, uniti però da un formidabile collante emotivo che fa di loro una banda speciale: la riconquista dell’onore perduto. Riappropriarsene, è il desiderio che anima e dà sagoma ai personaggi di Hill, un desiderio non negoziabile, che viene esaudito proprio nella loro degradata patria, quella Coney Island che fa dire a Swan «Se ne sia valsa la pena di combattere per tutta la notte per tornare in un posto così». Il viaggio, i nemici, l’onore, la casa: matrici epiche di una notte che non si dimentica, con quelle parole pronunciate nella scena finale del film, un attimo prima che la d.j. Dolly Bomba lanci “In The City” degli Eagles.

Masai, capo dei Riff: «I Guerrieri non uccidono, sono leali».

Swan: «I migliori».

 

Written by Maurizio Fierro

 

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