“La lente scura” di Anna Maria Ortese: il nostos impossibile
Non ho difficoltà a immaginare Anna Maria Ortese, lo sguardo celato da un paio di lenti scure, in viaggio lungo le strade di ferro, d’asfalto e di terra battuta della penisola italiana e del continente europeo, quasi le ultime immagini che la ritraggono, ormai anziana, nella casa di Rapallo abbiano soppiantato per sempre, nella mia immaginazione di lettrice assidua e innamorata, le pupille di triste e sognante attesa che immortalano le poche fotografie dell’autrice da giovane.

In questa raccolta, “La lente scura”, che raggruppa reportage scritti fra il 1939 e il 1964 insieme a ben sedici scritti inediti, la lente scura è ovviamente il filtro attraverso il quale la scrittrice analizza e descrive la realtà: un velo di “malinconia e protesta” che le permette di trasfigurare il mondo in quadri astratti e visionari, permeati da metafore e ossimori, dove ad essere ritratta è la marginalità delle esistenze, il confino di classe, il fallimento della Ragione, l’irraggiungibile chimera della Verità.
Il cammino di Anna Maria Ortese non conosce tregua, il suo sguardo continua ad aprirsi sul mondo e gli itinerari non appaiono mai prestabiliti. Quando ciò avviene, un imprevisto, l’ubbia di un momento, il terrore irrazionale dell’aereo (si pensi all’interminabile viaggio in treno per raggiungere la delegazione italiana a Mosca), introducono un elemento di instabilità, di variazione, di casualità.
Questa dimensione caotica trova espressione anche nella prosa, definita dalla stessa autrice come una “scrittura sbandata e ansiosa, spezzata, esitante“, nonché nella struttura asimmetrica dei reportage all’interno del libro “La lente scura”, organizzati secondo una tripartizione che resiste ogni contiguità cronologica, geografica e perfino tematica.
L’impulso che dà l’abbrivio al peregrinare, per quanto occultato sotto una plausibile pretesa o una scelta razionale, sia essa la composizione di un reportage oppure la ricerca di una casa da affittare per alcuni mesi, è sempre da ricercarsi in una dimensione psicologica, strettamente intima.
L’incitamento al viaggio è di natura emotiva, umorale, cangiante come i cieli favolosi e variopinti su cui spesso indulge l’attenzione della scrittrice, quasi ai limiti della superstizione nel caso del soggiorno a Londra, che s’interrompe bruscamente per il cenno di un gatto randagio.
Nel microcosmo interiore della Ortese le distanze si piegano in torsioni paradossali (valga come esempio il biglietto Milano-Napoli-La Spezia per raggiungere la Liguria), mentre i paesaggi urbani rivelano una trama di rimandi e analogie, memorie e similitudini che aboliscono ogni categoria spazio-temporale.
Su questo continuum, dove i confini di presente e passato si stemperano gli uni negli altri, aleggia l’impossibilità insanabile di sentirsi “a casa”: la precarietà, lo sradicamento sono il contraltare del desiderio disperante di un luogo in cui essere. Desiderio di fondo è quindi la ricerca di una patria, una terra dove avere cittadinanza in quanto donna, in quanto scrittrice, in quanto appartenente a una classe sociale svantaggiata. Come un fuscello spazzato da violenti flutti in mare aperto, la scrittrice si lascia sospingere dal silenzio piovoso di una Milano notturna all’ostilità sprezzante delle anticamere borghesi d’una Roma opulenta e indifferente, da una Napoli ch’è la matrice immaginifica da cui prende consistenza l’identità ortesiana ai latifondi di derelitta umanità del Meridione, dove tra pietre abbacinanti si conducono esistenze al limite della sussistenza.
Tale è il bisogno di mettere radici che la scrittrice finisce vittima di un rapporto masochistico e squilibrato con i luoghi che vorrebbe eleggere a sua dimora: quando avverte il rifiuto di una città, la Ortese si scopre ad anelare il ritorno alla stessa metropoli dalla quale, solo pochi giorni prima, era fuggita al colmo della disperazione.

Il suo peregrinare, com’è prevedibile, si dimostra un nostos impraticabile: questa patria non ha alcuna esistenza geografica, alcun addentellato con il reale. L’unica patria possibile esiste invece negli incontri con l’alterità minuta e umile del dopoguerra italiano o della Russia sovietica, nelle scarne parole sbocconcellate da una giovane tabacchiera pugliese, nelle orbite fameliche e scavate dei figli dei briganti siciliani.
Identità marginale ed emarginata, la scrittrice può trovare la propria heartland immateriale soltanto nell’umanità dolente che popola il mondo, nel “poco” o nel “nulla”, negli “Occhi – Occhi – Occhi e Voci dolci, umane, chiarissime“; in ultima analisi, dunque, nell’utopia: “La vita si muove, viaggia; e alta sui paesi come sulle campagne perse ‒ mentre i convogli del tempo continuano a inseguirsi ‒ alta sui paesi deserti e campagne mute, resta la mirabile, cara, fedele Utopia”.
Written by Michela Pistidda
Bibliografia
Anna Maria Ortese, La lente scura, Adelphi, 2004