“Echi di follia” di Gabriele Di Giovanni: un tragitto ossessivo e inevitabile
Echi di follia è il quinto romanzo noir di Gabriele Di Giovanni, edito da Andata e Ritorno Edizioni, e il primo che non vede protagonista il commissario Mussolini, personaggio fortemente amato dal pubblico reggiano, come mi capitò di riscontrare in data 23 novembre 2024, durante la presentazione del romanzo presso i Chiostri della Ghiara di Reggio Emilia. Alcuni hanno chiesto all’autore: Quando tornerà?

Mio primo quesito. Perché si scrive? Risposta prudente: dipende…
Mio secondo quesito. Perché si scrive un romanzo? Risposta più azzardata: si ha in mente una storia complessa, che preme per uscire…
Mio terzo quesito. Perché si scrive un giallo o noir a dir si voglia? Risposta immediata: si cerca di dimostrare una teoria! Oppure si tenta di dissimulare la dimostrazione di una teoria. Oppure di falsificarla! Ma risposta (forse) non c’è o sta soffiando nel vento.
Secondo l’opinione di Karl Popper, è comprovabile solo quel che sarà, prima o poi, almeno parzialmente, giudicato erroneo. Dio è improbabile, il che non significa che non esista. Che un dato ente sia improbabile è una teoria religiosa. Chi mi garantisce che Egli non atterrerà un fantastico dì (non sarebbe la prima volta) sulla Terra? Che non scenderà dalla scaletta di un’astronave, palesando la sua essenza/esistenza? Al che vedrei fior di atei, agnostici e di ignoranti di dio (tipo me) che s’affretterebbero a inginocchiarsi, chinando sommessamente il capo.
A me la differenza fra thriller, giallo classico e noir francese poco importa. Sono libri di misteri da svelare. Ecco ora alcuni esempi di divinità letterarie.
Agatha Christie, dea della costa britannica, diceva: io sola so chi è il colpevole, e questo fin dalla notte dei tempi. Tu lo scoprirai (forse) a pagina 22, ma poi qualcosa ti distrarrà, e rivolgerai la tua attenzione ad altri. Invece no, è proprio a pagina 22 che ti diedi l’imbeccata, e tu ci sei cascato due volte, prima a raccogliere la verità e poi a gettarla ai porci, insieme alle perle.
Cornell Woolrich, più che americano, nume newyorchese: a me quel che intriga non è intrigare te, ma confonderti, atterrirti, sconvolgerti, farti bramare la fine. Per me non conta l’epilogo, ma l’intera via crucis che ti condurrà alla pagina estrema, dopo di che te ne scapperai via sconvolto, ok?
Patricia Highsmith, ninfa yankee e anche no: i miei gialli, che piacciono tanto a un docente universitario di nome Gian Mario Anselmi, non sono solo gialli, ma anche rossi, neri, blu, verdi, viola e pure al gusto di pistacchio. Sono romanzi oscuri con la copertina luminosa e giallastra. Se non ti piacciono sono fatti tuoi, io li ho scritti essenzialmente per me e per chi mi ama.
Valerio Varesi, profeta parmigiano e anche no: il mio commissario e io non stiamo poi così bene su questa terra, in questa società inquinata, e vorremmo evadere, ma non sappiamo dove recarci, per cui abbiamo deciso di descriverla, e alla fine staremo meglio, non troppo però, non avendo ogni volta risolto tutto, anzi, non deve essere completato alcunché, finché c’è mistero c’è speranza, questo me l’ha spiegato il mio messia, Friedrich Dūrrenmatt, hai capito?
Gabriele Di Giovanni, mistico arşân tésta quêdra: ho ascoltato la voce dei miei maestri e me ne son fatta una ragione, se la teoria resta scientifica, significa che un giorno sarà corretta, almeno di quel poco o tanto che mi permetterà di confidare ancora nella mia capacità di capire.
Recentemente ho avuto il modo di conoscere un altro autore reggiano, Giuseppe Benassi, la cui testa è di un filino più quadrata di quella di Gabriele, a livelli tra il quantistico e l’omeopatico, che ama svelarsi al pubblico nelle sue presentazioni, le quali paiono stringenti arringhe a volte, essendo egli a lawyer with a quadrangolar head. Per Giuseppe il noir nasce da un’esigenza di crescita in quanto persona. Dei citati autori, è il più esistenzialista. Ogni libro è e rimarrà per sempre un mistero umano (nonché cosmico) da svelare.
Stavo dimenticando l’ultimo giallista, che anche lui non ha mai smesso di tentare di levare uno a uno i veli a una certa Maya: Arthur Schopenhauer, della cui opera qualcosa ho letto, e tanto altro mi sta facendo la posta da anni su un ombroso scaffale. La mia è una farsa: gli elementi appena descritti appartengono a tutti gli autori, non solo ai citati. Lo dice Jorge Luis Borges, non ricordo dove e perché: esiste un unico autore di racconti, non necessariamente noir, un’unica trama e un numero indefinito di colpevoli: i lettori.
No. Non lo disse mai o, meglio, usò ben altre parole. Il concetto è che ogni lettore riscrive il racconto che legge. Lo scrittore inizia i conteggi, il lettore li rivede (donando alla storia il suo provvidenziale errorino di calcolo).
Ancora non ho detto nulla dell’ultimo romanzo Echi di follia non mussoliniano di Gabriele. Né ho rivisto i suoi conteggi, ammonticchiando i miei refusi ai suoi (eventuali in entrambi i casi). Ma se non avessi tentato questa mia prima reazione, non mi sarebbe uscita mezza parola.
Come dice e pensa bene Stefano Raspini, Reggio Emilia è celebrata per il suo manicomio. A Parma hanno il Va’ pensiero etc, a Modena le macchine rapide, a Bologna i tortellini. Noi li chiamiamo cappellettti, ma sono un’altra cosa. Il pittore Antonio Ligabue fu ivi internato. Il padre di Giuseppe, Piero, psichiatra, fu il Direttore per circa 30 anni dell’Ospedale Psichiatrico San Lazzaro. Nei pressi di esso, ora c’è una delle sedi dell’Università UniMoRe. Ogni volta che ci passo, mi pare di sentire un profondo senso di pace, anche perché non è più luogo di espiazione, ma di cura (non solamente mentale) ed è sede dell’AUSL cittadina. Già ero al corrente che il luogo era rinomato fin dal diciannovesimo secolo, nonché luogo di congressi a livello internazionale sul tema della follia. Se uno ha un mal di pancia, o un malanno fisiologico qualunque, viene compatito, confortato e curato. La malattia mentale è spesso intesa come un disturbo arrecato agli altri. In primis è di chi è sofferente, ma il bisogno di internare chi ne è affetto, mai del tutto risolto, sorge dalla necessità di separare il malato dal sano. Come apprendo leggendo il tuo romanzo. Gabriele, un tempo il San Lazzaro ospitava un “lebbrosario”. L’esigenza del sano di non mischiarsi al malato è portatrice di un dolore che pare necessario, cogente. Anche oggi si parla di TSO: Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Il lettore s’identifica con tutti i personaggi, che già furono parte dell’anima dell’autore, e tale entanglement è quel che rende l’opera letteraria così socializzabile. Se ti rechi al Louvre, sei come schiacciato da tutte quelle opere straordinarie. Se ti avvicini, scopri che si tratta di un dipinto del Botticelli, del Beato Angelico o di Andrea del Sarto. E sei costretto ad accostarti a essa e a leggere la targhetta, a meno che tu non sia un eminente studioso di storia dell’arte. Nel caso di un’opera letteraria è sufficiente sedersi su un sofà e assorbire con calma il messaggio ricevuto, in magica solitudine, senza che nessuno ti corra dietro. Nessuno, a parte colui che te l’ha inviata: l’Autore. E si tende ogni volta a scegliere. Ogni valutazione è legittima, doverosa, seppur discutibile.
Ho provato un’immensa pietà per la vittima: “Arminio Dalmasso morì il 5 settembre.”: è la frase di esordio del Prologo de Echi di follia. Pare quasi un’esecuzione conseguente a una fatale sentenza.
Eppure, ed è un miracolo letterariamente ricorrente, la sua voce continuerà a risuonare fin quasi alla fine. Le sue lettere, indirizzate al suo solidale, si susseguiranno fino a pochissime pagine dalla conclusione dell’opera. In esse colgo la bellezza di un sentimento vero, razionale, quieto, speranzoso, umano, terribilmente sincero. Ma non avrei voluto essere in lui mentre provava quei sentimenti. O forse sì? A costo d’essere internato? Le sue missive sono i gioielli del romanzo!
La figura di lei, la mandante, mah! non so che dire. La bellezza è talvolta assassina, portatrice di lutti ma, se non ci fosse, saremmo irrigiditi come uomini scuri e vani: hollow men, direbbe Thomas S. Eliot.
Bĕllus: deriva da due-nŭlus, diminutivo di duenus, forma antica di bonus. Ma tutto è relativo, per fortuna e disgrazia. Non tutto ciò che piace è bello, non tutto ciò che è bello piace, pôvra brutâja se gh’en fòs mia piaşâja, povera bellezza se non ci fosse la possibilità di piacere almeno un po’. Povera bellezza se non ci fosse un John Keats che sa eternarla: a thing of beauty is a joy for (almost) ever. L’avverbio fra parentesi appartiene ai miei residui dubbi.
A pagina 106 de Echi di follia scopro che il bar di Via Emilia San Pietro 2, oggi svanito come un sogno, dove talvolta feci colazione, si chiamava Busetti, “al pian terreno dell’omonimo Palazzo”, recentemente martoriato, e che a lungo praticai per ragioni di lavoro. Che fine ha fatto la scala di marmo, che ricordava un po’ quella del Museo Archeologico di Napoli? Chi è stato il mandante dell’esproprio?
Intorno a pagina 114 de Echi di follia incontro i luminari della psichiatria italiana, che ancora non conoscevo.
A pagina 177, l’agatiano arşân semina un indizio (il primo a materializzarsi, che prima vagava come un’onda).
Attenzione, però: potrebbe essere un beffardo trompe-l’œil.
A pagina 123 de Echi di follia mi decido a controllare su linea il nome della rivista “Pruspron” – Prosperone, essendo San Prospero il protettore della mia città – e quello del suo eroico fondatore: “Giovanni Ramusani” – appassionato del verbacolo reggiano e poeta esimio, il cui verso: “Oppursia pistêr l’acqua al gallein;” – è mirabile: ché quella congiunzione pare irreale, vera e… quasi eterna.
Non do mai voti, caro il mio discente-docente (che tale è sia l’inclìto autore che il disgraziato lettore), però ogni tanto faccio eccezioni.
Sai scrivere molto bene, a leggerti si giunge facilmente alla fine e non si è mai del tutto stanchi, ma un po’ trafelati sì. Tante curve, ognuna delle quali pare inevitabile. Il paesaggio, d’altronde, è stupendo, e il traffico si rivela ossimoricamente geodetico e lineare.
Dopo di che il lettore giunge, come diceva Totò, dove intendeva recarsi.
Al prossimo libro, tuo o frutto del sangue di qualcun altro.
Così va il mondo… come il quadro di Cirillo Manicardi così intitolato, il cui nipote Enrico è un metafisico pittore.
E un po’ di irrealtà aiuta a aiutare a comprendere ‘sto insano Kósmo.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Gabriele Di Giovanni, Echi di follia, Andata e Ritorno Edizioni, 2024
Una bella carrellata di autori!