“La freccia del tempo” di Martin Amis: la vita è un vano viaggio?
Mi costa parlare del mestiere che svolgeva, nei dintorni di Auschwitz e di Harteim, un certo Tod Friendly, protagonista de La freccia del tempo di Martin Amis.
Dico solo che era uno dei più orrendi e frequenti nella storia dell’uomo, l’animale che, al pari di taluni imenotteri, tanta rabbia e dolore da sempre reca ai rappresentanti della sua specie. Sua: nel senso che talora si pensa che appartenga di diritto al Grande Capo e ai suoi servi (come ben spiegò Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo).
Tutto si può perdonare nella vita, tranne l’orrore che ti stringe alla gola e ti vieta il pensiero. Sarebbe opportuno farlo, ma non ci si riesce, a meno che uno non sia un santo, tipo Padre Kolbe. L’unico santo a cui si finisce per somigliare è quello morto. Dopo il decesso tutti paiamo uguali, buoni e cattivi, belli e brutti, savi o idioti. Per un po’, certe diversità, tipo l’altezza e la lunghezza degli arti, restano a testimonianza delle varianti fisiche. Poi tutto si riduce a polvere, che si può anticipare ardendo la salma. Un amico scelse di farlo e poi, lui che non era credente, finì per trasvolare in cielo: grigio fumo. La cenere restò a uso e consumo dei suoi cari.
Motto dialettale che m’insegnò la tenera madre, che mai me la mandava a dire e che mi trasmise la sincerità (nonché alcune provvidenziali finzioni): a mór ânch i catîv, muoiono anche i cattivi.
È un gran bel libro La freccia del tempo, questo di Martin Amis: allegro e simpatico: cme un s-ciâf a l’orba: un ceffone ricevuto quando la luce non ci vede manco lei, come in Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler. Amis: La freccia del tempo lo sto leggendo più o meno contemporaneamente a Grande sertão di Guimarães Rosa. Iniziati quasi insieme, li finirò più o meno nello stesso giorno. Il tuo tomino è di 174 pagine minuscole, scritte fitte. Quello di Rosa è di quasi 500, grossino, scritte fitte. Lo spazio-tempo è un’illusione, dice Julian Barbour (e lo ribadisce Carlo Rovelli). Il tuo capolavoro lo leggo dopo pranzo, consumato presso una consanguinea, per mezz’oretta al dì. Quello di Rosa me lo pappo, sorseggiandolo, per varie ore al dì, quando non m’occupo d’altro, tipo scrivere e vivere.
Trattasi di due opere confuse: parole liquefatte e messe una sull’altra, fino a formare un insieme coordinato (dall’autore, ovviamente). Nel romanzo di Rosa la narrazione procede a balzi, avanti e indietro. Nel tuo pare che vada in un’unica direzione. Il tempo pare che vada unicamente in una direzione. Il tempo pare: nel frat-tempo lo spazio gira (loops) su se stesso, così garantisce una certa fisica. Il Kósmos è privo di centro e s’allarga sempre Altrove, dove non era e dove un giorno non sarà forse più. Ogni tanto, invecchiando, il mio pensiero precipita nella mia infanzia. Quando ero piccolo sognavo di diventare immediatamente adulto.
Un bel dì una suora ci dice che, in Paradiso, basta schioccare le dita e si va dove si vuole, a Milano, se serve. Non vedo l’ora di non esserci più. Andando a catechismo, nel bel mezzo delle strisce pedonali, sono investito da un’auto. Ho solo sette anni: sopravvivo, mannaggia! Mal ne abbia!
Sto pensando al romanzo A ritroso di Joris-Karl Huysmans, la storia di una vita, che scorre prima in un senso e poi in un altro, apparentemente opposto. Ma è sempre lui a camminare (altro titolo del romanzo è Controcorrente): fuori e dentro dell’inganno che è il vivere comune, la finzione che cela il generale egoismo e che condiziona le scelte. In assenza di una fede in qualcosa di eterno, la nostra mente sbanda un po’, si ferma, le si bloccano le sinapsi. Poi riprendono a girare e lei sceglie di continuare; ma quando uno si alza non si ricorda più qual è il verso che sta percorrendo. La direzione è quella: dal nulla, al qualcosa, al nulla. La freccia dello spazio-tempo non perdona! Checché ne dica Zenone, essa arriva ogni volta al bersaglio. Se non cade per terra prima, per carenza d’energia. O siamo noi a scoccarla o è lei che scocca noi. Che sia il medesimo evento?
“Eneb” – dice un umano.
“Eneb” – risponde l’io narrante – “Ats emoc?”
“Ats emoc iel e?”
E poi quella continua: “Mmm mmm…” – vocaboli bifronti…
Dopodiché tutto rientra nella norma (del lettore). Pare sia così. L’io scrivente è un cinico per bene, alla ricerca della verità perduta, l’unica interessante. La propria.
“La luna mi piace davvero guardarla. La sua faccia, in questo periodo del mese, è particolarmente idiota e codarda, come l’anima esiliata o rimossa dalla terra.” – finalmente una buona notizia…
“… la macchina di Tod era ridotta a un’autentica padella. Neanche noi eravamo in gran forma…” – Todd è l’Alter Ego di cui meno si sa. Lo si può intuire, ma è sempre in ritardo.
“Forse l’amore sarà come guidare…” – le due mani sul proprio bene, gli occhi vigili sul resto del Kósmos che ci ordina di andare dove dobbiamo andare (cit. Totò).
“… tu hai cinque cambi per andare indietro e uno solo per andare avanti.” – facendo attenzione agli Altri, in entrambi i versi.
“Quando guidiamo, non guardiamo nella direzione in cui stiamo andando…” – che sappiamo a menadito – “… ma a quella da cui siamo venuti…” – quella dove sorgono più problemi (eventuali cozzi).
A Tod, “scommetto che gli manca il periodo in cui eravamo là.” – prova a chiederglielo!
“… le parole hanno un senso palese, anche se Todd le legge sempre all’indietro.” – la comunicazione fra due umani è fondata sull’interpretazione dell’altrui verso. Il futuro è una risposta a una domanda formulata nel passato: vale anche il contrario.
Tod “non sa che sono qui” – è un segreto covato in un alveo illusorio.
“Cautamente i clienti entrano a marcia indietro nelle camere significative.” – l’unica manovra consentita per uscirne iviv.
“Tod ed io ci sdraiammo sulle lenzuola spiegazzate.” – due corpi e un’anima stretti fra loro.
Tra me e il pargolo che succhia il latte l’anima è condivisa. Io sono un’oscura folla d’individui.
“… quel gran culo bianco prese ad avanzare verso di me.” – costringendomi alla marcia indietro.
“La moglie e il figlio che avremo un giorno Tod ed io…” – ognuno è convivente e connivente con se stesso. Chi si matrimoniò quel giorno è un Ioutiedortla.
“La crudeltà di Tod era davvero spregevole…” – e poi c’azzecchi, uno sull’altro, tanti di quegli epiteti che ti rendono un infame.
A pagina 48 de La freccia del tempo discetti sulla “differenza umana” fra te e Tod per quanto attiene la differente analisi sulla differenza umana. Il disprezzo che si prova per il razzismo altrui è il più torbido dei razzismi.
“… non avevo opinioni preconcette su nessuno, né in un senso né nell’altro (tranne che per i medici; ma questo da dove veniva?)…” – un consiglio: bada ai fatti mentre avvengono, più che ai ricordi. Lo consigliava Jiddu Krishnamurti: sii consapevole dell’attimo, non farti opprimere dalla paura di smarrirlo!
Tod “è uscito con un’altra: Elsa. Solo per colazione, fortunatamente. È stato un incontro pieno di astio e lei ci ha coperto di terribili insulti.” – ci: tu eri l’obbligato solidale.
“Ho notato in passato, naturalmente, che la maggior parte delle conversazioni avrebbero molto più senso se le si facesse scorrere a ritroso.” – chiedilo a Huysmans se non è così! Ìs! – ti direbbe.
“… nel momento in cui mi affeziono realmente a loro, cominceranno ad allontanarsi in modo irreversibile.” – basta fare mente locale e prima o poi riappariranno, sotto forma di speranza.
“Lui sta viaggiando verso il proprio segreto. Parassita o passeggero, io viaggio con lui.” – anche lui è un parassita in fieri.
Quando parli di “disordine” e di “ordine” – mi fai gemere dalle risate: trattasi di gemelli così identici che anche loro ignorano chi sono.
“… due tipi umani differenti, egualmente rappresentati, sei di un tipo, mezza dozzina dell’altro…”: se non è zuppa è granita con brioche bollente. Va’ a Messina e capirai.
Leggo nel citato Grande sertão, a pagina 258: “… tutti i miei ricordi io li volevo con me. I giorni che sono passati se ne stanno andando in fila per il sertão. Tornano, come i cavalli, i cavalieri sul far del giorno – quando danno la azione ai cavalli…” – si dice o no rivivere il proprio passato? Trattasi di metafora mnemonica, l’unica che può identificarci. – “… Tutto quello che è già stato, è il principio di quello che verrà ad ogni momento…”
Lo spazio è curvo. Che lo sia anche il tempo? Tót à fîn – assicurava Rosalinda Borghi, madre. “Nella mia fine è il mio principio” – integrava Agatha Christie, scrittrice.
“Le invisibili linee di velocità fanno pensare a un differente nesso di sequenze e processi.” – che percorrono un lindo e tumultuoso kaos.
“… diplopia…” – “… dispnea…” – “… tachipnea…”
Ennesimo rantolo: “Sono stanco di essere umano.” – è ora di finirla! Che cosa? La Parte prima.
Tocca alla Seconda: “… Il rumore del mare che s’infrange sembra bello, ma è insincero: lusinga per ingannare, lusinga per ingannare.”
Miracoloso è “guardare le mele incancrenite che risanano”. Un prodigio dopo l’altro: “… la terra aveva bei capelli, folti e ordinati, e sotto un bel cuoio capelluto, non come là, non come prima, quando era tutta butterata e rattoppata. La terra è innocente. Non ha mai fatto nulla.” – calpestata com’è da ciascuno di noi!
“Gli esseri umani vogliono essere vivi. Muoiono dalla voglia di essere vivi.” – e di tirare calci alla Morte: alive & kicking.
“Era il 1942. Avevo venticinque anni.” – bei tempi, estesi spazi.
“Herta sta demolendo gli indumenti del bambino.” – fare e disfare è tutto un brigare.
“Io sono onnipotente. E anche impotente. Sono pieno di potere e privo di potere.” – dall’alto domino la (mia) nullità. Sognare un mondo senza tempo! E poter dire: la freccia del tempo è spezzata!
“Il tempo non aveva freccia, non qui.” I sogni son desideri, i desideri son sogni.
“La mia posizione sugli ebrei è stata sempre priva di ambiguità. Mi piacciono.” – perché quel mia è in corsivo? In quale verso sta correndo?
Nein dice Herta quando mi prende la mano, e se la mette, per un rabbioso momento, tra le cosce.” – e non sa manco lei perché.
“… la società tedesca debitamente si allargò per fare posto ai nuovi venuti.”: otsuacolo orev nu!
Etrap Azret alla omaissap? Poco c’è d’aggiungere.
“Avevo tredici anni.”
“Adesso ho tre anni e vivo…”
Cosa possiamo ancora rimembrare?
Una gran confusione, liquidi a profusione, da inebriarsi!
Chissà com’è quel Mondo della Luna, dove si dice che noi poppanti viviamo prima di nascere?
“Odilo Unverdorben e il suo cuore avido. E io dentro, che sono arrivato nel momento sbagliato – o troppo presto o quando era ormai troppo tardi.”
Tranquillo: cambia poco e quel poco è una pallina che scorre!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Martin Amis, La freccia del tempo, Mondadori, 1996