Contest letterario di poesia e racconto breve “Versi e Racconti di Lombardia”

“La poesia e la prosa trascinano la mente in un mondo che esula da qualunque faccenda della banale quotidianità, chi scrive cammina sollevato da terra, il suo sentire è piena percezione di qualcosa di superiore e nobile, i pensieri costituiscono momenti di completa pienezza e la conclusione di un racconto, di una poesia, dona serenità e soddisfazione completa a ciò che si può ben definire felicità e totale appagamento!” ‒ dalla prefazione di Teresa Stringa

Contest Versi e Racconti di Lombardia
Contest Versi e Racconti di Lombardia

Regolamento Contest Versi e Racconti di Lombardia

1.Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Versi e Racconti di Lombardia” è promosso da Oubliette Magazine, dagli autori e dalle autrici dell’antologia e dalla casa editrice Tomarchio Editore. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.

La partecipazione al Contest è gratuita.

Tema libero.

 

2. Articolato in due sezioni:

A. Poesia (limite 100 versi)

B. Racconto breve (limite 1000 parole)

 

3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.

 

4. Premio:

N° 1 copia del libro “Versi e Racconti di Lombardia” con le raccolte di Francesca Santucci, Gian Carlo Storti, Giuseppe Terranova, Marcello Sgarbi, Marco Leonardi, Maurizio Fierro, Miriam Ballerini, Oswaldo Codiga, Paolo Chioda, Roberta Sgrò e Teresa Stringa, edito nel 2024 dalla casa editrice Tomarchio Editore. In copertina “Villa storica del cremasco” dipinto di Ugo Stringa; in quarta un’illustrazione di Simona Trunzo.

Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.

 

5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 7 gennaio 2025 a mezzanotte.

 

6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:

Alessia Mocci (Editor in chief)

Franco Carta (Poeta e scrittore)

Carolina Colombi (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)

Simona Trunzo (Autrice illustratrice e collaboratrice Oubliette)

Teresa Stringa (Poetessa e scrittrice)

Miriam Ballerini (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)

Rosario Tomarchio (Poeta ed editore)

 

7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.

 

8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.

 

9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina di Facebook.

 

10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.

 

11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.

 

Buona partecipazione!

103 pensieri su “Contest letterario di poesia e racconto breve “Versi e Racconti di Lombardia”

  1. IL GLICINE DA VINCI
    (L’anello del tronco)

    Dalla colonna sale
    il niello di velluto,
    ruotano libellule
    sopra il mento glauco
    del fossile binario,
    l’ornitio rinvolge a Ponente
    l’imbrunato nubilo.
    Mi sorprende la fiumara
    di glicini e l’aurora di violino
    sui Navigli,
    i cespi di springeri
    ordinati sui carretti,
    la cenerognola schiribilla
    in un volto di ametista.
    I giardinieri tagliano
    rami e ginestre,
    gambi di craspedia,
    i colletti di schizanthus
    e dal planisfero rampollano
    barchette di carta e girandole,
    si ridesta l’ombra stagna.
    S’appoggia, èlice giuntura,
    allo smasso di puntelli,
    finata si svergola
    la forma conica del lucernaio.

    Thea Matera

    SEZ. A
    Accetto il regolamento

  2. “Astolfo sulla luna”
    (Orlando Furioso di Ludovico Ariosto)

    O graziosa luna, è la sciocchezza
    e la ricerca affannosa e l’amore
    che portano a smarrire il senno sopra
    la crosta. Tutto quanto viene perso
    sulla terra, arriva sul tuo volto
    fulgente, o luna: beni materiali
    e morali: il tempo perso, lagrime,
    ozio, sogni, sospiri d’amor, senno…
    E come Astolfo, ho raggiunto i crateri
    per riprendere l’ampolla gassosa
    del senno che ho perduto: sono molte
    cose che affliggono l’umanità
    ed è facile sperdere saviezza.

    Alessio Romanini
    Sezione A
    Accetto il regolamento

  3. AFFERRA IL GIORNO

    Era l’8 gennaio 1985. Alessio aveva nove anni e da poco erano finite le feste di Natale ed era ricominciata la scuola dopo che la “Befana” si era portata via tutte le feste nel grande sacco di iuta che portava sulla curva schiena.
    La Tramontana soffiava gelida dietro le vette delle Apuane. Un freddo vento veemente gemeva e mugghiava dalle imposte. Gli alberi spogli dalle loro viridi foglie tremavano al passaggio della Tramontana, mentre i poveri augelli non riuscivano più a trovare cibo e riparo delle fronde.
    Il lago di Massaciuccoli, che costeggia il comune di Massarosa fino ad arrivare a Torre del Lago nel comune di Viareggio, dove il grande compositore Giacomo Puccini, trovò ispirazione per le sue più grandi composizioni liriche; in quell’anno, il respiro gelido ghiacciò interamente la sua diafana superficie. Era cosa ben rara che accadesse ciò, visto la temperatura mite e la vicinanza al mare; ma il 1985 le fauci del verno erano così spalancate che gettarono sulla “Versilia” un’ondata di gelo che non si era mai vista prima.
    Quando il mattino dell’otto gennaio, Alessio dischiuse le piccole palpebre per recarsi a scuola, un sussulto ghermì il suo cuoricino di meraviglia: “La neve!”
    I nonni e le prozie che vivevano con la sua famiglia erano tutti agitati e preoccupati per questa improvvisa gelata. I campi erano ricoperti di soffice neve, bianca come zucchero di vaniglia che ricordava il pandoro. Uno strato gelido ricopriva il marrone suolo. La candida neve aveva nascosto tutto quanto. Come un bianco manto aveva ricoperto ogni colore.
    1
    Era tutto così niveo! Non era possibile camminare con le auto per andare a scuola. Ben presto giunse notizia che le scuole a causa della straordinaria nevicata sarebbero rimaste chiuse per qualche giorno. I tubi dell’acqua congelati erano saltati. Le strade ghiacciate avevano causato incidenti. Un caos terribile!
    Ma Alessio, con suo fratello ed i cugini erano gli unici felici, come tutti i bambini della “Versilia”. Con guanti, sciarpa, e giubbetto imbottito; i fanciulli si ritrovarono nell’aia a fare a pallate di neve ed un bel pupazzo, con un arancione nasone fatto con una bellissima carota. Poi all’uomo di ghiaccio, come fosse un pagliaccio, viene aggiunto un cappello di lana con il pom-pom di colore blu rosso ed una sciarpa sul freddo collo dello stesso colore. Alessio con suo fratello e i cugini erano veramente felici!
    La sera il cielo piombo portò una nuova perturbazione. Alessio rimase a lungo ad appannare il vetro con il caldo fiato per guardare fuori dalla finestra quel bianco infiocchettare. Non aveva mai visto cadere la neve dal cielo. Gli sembrava di sognare… ma quel sogno era reale. Stava nevicando proprio in quel preciso momento che il suo cuore palpitava sopra il davanzale di marmo di casa sua. Sembrava una magia! I suoi genitori e gli anziani parenti erano preoccupati per il protrarsi della gelata; lui non capiva questa agitazione. Era così bella la neve! Avrebbe voluto che durasse per tutto l’inverno.
    La perturbazione durò fino al 15 gennaio. L’incessante Tramontana, portò i bianchi fiocchi anche sulle spiagge di Viareggio. La grigia sabbia sparì sotto uno strato di dieci centimetri di neve.
    2
    Non si era mai visto da quelle parti il mare nevoso. Che suggestione! Che spettacolo! Spirava il ventaccio tra gli scheletrici alberi, che si opponevano con forza a questa tempesta.
    Il seguente mattino, si destò in fretta il piccolo Alessio, perché voleva toccare ancora il soffice manto ghiacciato. La sensazione era meravigliosa. La neve così fredda e madida, ghiacciò le piccole mani causando secche rughe su l’ingenua pelle. Ma era bello sentire quella sensazione sconosciuta che prima di allora lui non aveva mai provato.
    Dopo il quindici gennaio la perturbazione mutò il suo volto. Un forte vento di Libeccio, che proveniva dal più mite mare, portò la pioggia che cancellò ogni traccia di quel candore.
    Ed oggi che Alessio ha i capelli del color della candida neve, e le rughe solcano la vetusta pelle; può narrare ai figli adulti quell’antico racconto. Metafora di vita che scorre muta come un rivo nel cuore, e dentro i suoi flutti porta ricordi e il dolore del ritorno. Parlare dei momenti felici e di ciò che non può più tornare; ma quanto si possa amare questo straordinario dono che è la vita, apprezzando ogni suo semplice momento. Conservando negli atri del cuore tutta la bellezza di ciò che rende i momenti gioiosi. E se la vita fugge, noi non dobbiamo lasciarla andare… Cogliamo quel momento fugace!(Carpe Diem!) “Affidati il meno possibile al domani!” (Cit.)

    Alessio Romanini
    Sezione B
    Accetto il regolamento

    3

    1. Anche a Legnano, nel gennaio 85,grande nevicata(io di anni ne avevo 30). Ma tu abiti ancora da quelle parti? Perché io e mia moglie abbiamo una casa a San Vincenzo (LI), mi piacerebbe venirti a trovare.

  4. LA GUERRA
    .
    Tra il sambuco e il serpente
    quegli scoscesi passi di colline
    soffocate allora di foglie gialle
    e croci improvvisate.
    .
    Nessun ricordo del tuo mare,
    una foto di lei sgualcita nella sacca,
    e un timido, giovane bacio sulla guancia.
    .
    Un sogno in rosso che dipinge le pietre,
    un attimo per averla negli occhi
    mentre il cuore è una lacrima
    e avevi solamente diciotto anni.

    Abner Rossi
    accetto il regolamento, sez- a

  5. UN GIRO IN MOTO

    “Te lo regalo se vieni a prenderlo”. Alcuni minuscoli spostamenti del mouse, fecero giungere Lisa, dal suo profilo alla pagina che la stuzzicava.
    Trovò offerte di ogni sorta.
    C’era addirittura gente, che regalava libri. Lei non l’avrebbe mai fatto.
    Privarsi di un libro, sarebbe stato come donare un pezzo di cuore.
    “Causa doppione, regalo nuovissimo volume: “La lama dei sogni di Robert Jordan” insieme ad un giro in moto.”
    Ecco! Questo tipo posso anche capirlo.”
    Il libro era di suo interesse, il giro in moto, meno.
    La sua mente razionale, pensò – Ok, vorrà dire che il prezzo del libro sarà il giro in moto.
    Fosse stata Marta, la sorella, avrebbe sicuramente pensato al contrario.
    Si mise in coda con un ok. Nel giro di mezz’ora fu contattata da “Damon. “Ti aspetto Venerdì 17 Giugno ore 17 a Piazza indipendenza. Mi troverai lungo il fiume seduto sulla panchina, dietro al monumento ai caduti”
    Certo, Lisa avrebbe avuto meno dubbi, se il profilo del tipo fosse stato corredato da nome, cognome e relative informazioni.
    Insomma, a pensarci bene, quello si poteva definire un incontro al buio.
    Alla data stabilita, munita di coraggio si recò all’appuntamento.
    L’uomo stava seduto con lo sguardo rivolto verso il fiume.
    In giro, non c’era nessun altro. Lisa lo raggiunse.
    Lui alzò la mano in segno di saluto.
    Lei, alla visione di quel volto, rimase di sasso. Forse era un sosia?
    – È uno scherzo? – Chiese.
    Quando, l’uomo si presentò, capì invece che era proprio lui, in carne ed ossa. Vabbè, per essere precisi molto più in ossa.
    Il suo regista preferito, anche se lui non ne era a conoscenza. Le confessò che il paese di Calcinaia era luogo adatto all’ambientazione del suo film noire: “UN GIRO IN MOTO.”
    Poi sentenziò: – Un ottimo film, per divenire tale, ha bisogno di sperimentazioni reali sul territorio, altrimenti rimane “na ciofeca!” –
    Per fortuna l’amico scrittore: Paolo Dati dopo aver letto la sceneggiatura, ha ben compreso, che questo luogo avrebbe fatto al caso mio. – Concluse DARIO ARGENTO alzandosi e prendendo sottobraccio Lisa per condurla davanti alla Kawasaki, che non attendeva altro che poter sfrecciare sulle strade della bella campagna Toscana.
    Accetto il regolamento, sez. b

  6. Il resto

    Tra le braccia,
    lui
    Lo osservo
    Lo chiamo
    Lo scuoto
    Eppure ha gli occhi aperti
    Nessuna risposta
    “Stai tranquillo la bua te la faccio curare io”
    Le mani piene di polvere
    sono bagnate
    Non è acqua
    Provo ancora a svegliarlo,
    nulla.
    Guardo intorno
    cerco aiuto
    Come il mio fratellino
    tante persone
    Nei visi si vedono
    solo gli occhi
    Il resto è polvere
    Il resto è sangue.

    Accetto regolamento sez A

  7. Pioggia di stelle – Sez. B – Accetto il regolamento

    Stavo per addormentarmi.
    C’era un’arpa fosforescente in fondo alla stanza.
    Me l’aveva regalata mio padre.
    Non era una vera e propria arpa
    ma solo un oggetto per l’arredamento.
    La guardai fisso per mezz’ora circa,
    catturato da qualcosa che veniva da molto lontano,
    da luoghi magici.
    Chiusi per un attimo gli occhi e li riaprii
    nel mezzo di un crocicchio.
    Un unico segnale indicava la strada alla mia destra.
    La percorsi.
    Terminava davanti a una fitta parete di alberi.
    Un bosco.
    Quando m’inoltrai all’interno del querceto,
    vidi arrivare Silvia che mi prese la mano.
    Indossava un vestito bianco con macchie nere,
    molto corto,
    il carnato delle gambe come le sfumature
    rosa del cielo all’alba.
    Ma era notte fonda.
    Il sentiero ci condusse fino ad un lago.
    Stupefatto notai un’arpa che somigliava molto
    a quella della mia stanza.
    Una donna stupenda con una folta chioma riccia
    vi suonava una musica celestiale.
    A tratti inquieta.
    Note che profondavano nei recessi della notte.
    Apogei che solo un’anima vera può sentire.
    Le dita del vento accarezzavano le foglie degli alberi,
    come fossero strumenti musicali anch’essi.
    Due melodie si incontravano.
    Contrappunti.
    Silvia non disse una parola,
    mi guardò e fece un sorriso meraviglioso
    che le schiarò il viso
    come una perla.
    Ci spogliammo ed entrammo nel lago.
    La musica sortiva leggere crespature sul pelo dell’acqua,
    come fosse un fiato, una carezza.
    Le nostre bocche si unirono.
    Silvia aveva il profumo dei fiori più rari.
    Improvvisamente avvertimmo un suono d’acqua,
    una sorta di “plop”,
    e attraverso l’acqua scura del lago
    vedemmo qualcosa di luminoso scendere
    fino a toccare il fondo.
    Subito dopo cadde un altro
    di quegli strani oggetti luminosi.
    Il vento accarezzò per un attimo i capelli di Silvia,
    che sembrava sgomenta.
    La sfiorò come volesse far scaturire musica
    anche da quella creatura
    della quale mi ero innamorato.
    Caddero ancora altri oggetti luminosi.
    Impiegammo un po’ di tempo a capire cosa fossero.
    Alzammo gli occhi al cielo
    e una pioggia di stelle discese su di noi.
    Erano stelle piccolissime,
    quanto il palmo di una mano.
    Sorridemmo.
    “Questo non mi era mai capitato” disse Silvia
    guardandosi intorno.
    “Figuriamoci a me” risposi.
    “Prendiamone una in mano!”.
    Dopo aver pronunciato queste parole,
    Silvia mi guardò come una bambina
    in attesa di una risposta che non arrivò.
    Così, quando una di quelle minuscole stelle
    cadde vicino a lei,
    la prese gentilmente in mano.
    Una lacrima le scese sul volto.
    “Non credevo si potesse piangere per amore.
    Sapevo che si può piangere di tristezza
    e di gioia,
    ma non per amore,
    e non intendo dire per gli effetti dell’amore,
    ma solo per amore. Nient’altro”.
    Quando mise la stella sulla mia mano,
    un bisbiglio soave s’incise nel mio cuore.
    Un intarsio d’amore.
    Anche sul mio volto scese una lacrima.
    Un’unica lacrima.
    Sulla quale avrebbe potuto specchiarsi Dio.
    Quella piccola stella mi amava.
    Non saprei dire in che modo,
    eppure lo sentivo chiaramente,
    così chiaramente che in quel momento
    non c’era nient’altro.
    Il mondo era scomparso.
    Qualcosa di ineffabile prese forma nella mia anima.
    Un origami. Una luminaria eterna.
    Un fiore di luce.
    Un istante che convertì per sempre,
    i miei abissi.

  8. LEI

    Sta lì, immobile.
    Non vicino alla circonferenza.
    Proprio nel centro.
    Si guarda intorno, senza vedere.
    Canticchia tra sé e sé il ritornello di una canzone
    d’epoca indefinita.
    Nessun movimento.
    Solo le pupille ogni tanto si muovono.
    Il signore con il cane le gira attorno senza accorgersi
    della sua presenza.
    La signora con la veletta e le guance incipriate a passi lenti la saluta.
    Emilie con la sua borsa colma di frutta fresca,
    acquistata al piccolo chiosco di Mary, le sorride.
    Carolina si ferma a guardare i conigli nani.
    L’orologio del campanile segna le dodici e quaranta.
    Niente zucchero filato dice Patty a Jennyfer.
    Vociare di bambine con la collana di nocciole al collo.
    Elsa legge un messaggio sul cellulare e accende lo sguardo.
    Il campanile non ha più orologio.
    Al posto del chiosco di Mary,
    una curiosa installazione tridimensionale.
    No, non per lei.
    Sempre lì immobile,
    Con le mani nelle tasche.
    Tiene fermo il suo tempo.
    e ogni tanto ci gioca a dadi.

    Sezione A accetto il regolamento

  9. QUEL GIORNO, A SICHEM

    “Se vendevamo pesce, farina e miele, invece di stoffe, oggi ci andava meglio…”
    “E’ vero, Eli”, concordo.
    Erano arrivati degli uomini, circa un’ora prima. Dei giudei. Stavano facendo provviste, per loro e per il Rabbi che li guidava.
    Eli, mio fratello, si china a riporre una stoffa prima di riprendere a parlare.
    “Hanno lasciato il Rabbi al pozzo, era stanco, poverino…”
    “Dovresti avere più rispetto”, lo interrompo stizzito.
    Lui non fa una piega, afferra un dattero e comincia a succhiarlo, poi ne sputa l’osso sottile e ricomincia a parlare.
    “Oggi, al pozzo, ci andava la tua Ruth. Mi immagino la scena: lei, splendida quarantenne, che alza la veste mentre sale il gradino di pietra antica, gli lancia uno sguardo di ossidiana, poi china pudicamente il capo mentre scopre le braccia candide e afferra la corda e su e giù e su e giù con quelle mani curate, finchè il secchio colmo appare e lei lo prende, si avvicina allo straniero, lo sfiora, gli sussurra: hai viaggiato a lungo, se vuoi posso dissetarti…”
    “Dovresti avere più rispetto”, gli ripeto mentre il viso mi si imporpora.
    Lui non fa una piega.
    “Oppure, oppure” – sghignazza – “Il tuo Rabbi sarà stato così stanco e assetato…o così idiota… da non capire cosa è, la donna che ha di fronte e gli chiederà lui stesso da bere. Allora lei si avvicinerà all’uomo e gli chiederà con voce che incatena: “Perché tu, un Giudeo, chiedi da bere a me, una donna samaritana?” e rimarrà lì, labbra socchiuse dall’ultima a, ad un niente dalle sue…” Non ce la faccio più. Mi avvento su di lui, lo scaravento a terra.
    “Smettila! Tu non sai di chi parli! Non è solo un Rabbi, quell’uomo. Dicono che sia un profeta, un potente profeta! Raccontano che poco più di un anno fa, a una festa di nozze, abbia addirittura mutato dell’acqua in vino!”
    Lui spazzola la polvere dalla veste,
    mi guarda e di nuovo sghignazza.
    “Oh, che prodigio prodigioso! Se è tanto potente, che trasformi le pietre in pani…anzi, no, in armi e soldati per combattere i Romani. Che il Dio dei nostri padri ha lasciato violentassero la nostra terra… “
    Mentre parla si rialza, mi passa a fianco e uscendo strappa dai ganci la tenda dell’entrata.
    “… E mia figlia. Dodici anni, aveva, lo sai bene. Ed era innocente, lei “
    Il modo in cui dice lei mi fa voltare.
    Là, sulla soglia della bottega, Ruth.
    La mia Ruth. Avvolta dalla stoffa strappata da Eli e che il vento le drappeggia addosso, sembra una regina.
    Sta ansimando, ha il volto arrossato; e una strana luce negli occhi.
    Osservo appena mio fratello allontanarsi senza degnarla di uno sguardo, poi mi avvicino a lei, lei che senza parlare afferra le mie mani, le mette a coppa sul suo viso…
    Io alzo gli occhi nei suoi.
    Quei pozzi dove quante volte ero caduto, per scoprirmi, alla fine, più assetato di prima.
    Sento appena le sue parole. “Oh Jacob, Jacob quell’uomo il Rabbi, tutto, tutto!” farfuglia concitata, e io non capisco, ma che importa, perché ora mi stringe, come mai prima; poi l’acqua cade dagli occhi sulle sue gote, sulla pelle ancora liscia, quasi di bimba, e io le bacio e finalmente mi disseto.

    Sezione b, accetto il regolamento

  10. Sez. A

    “Rivelazione”

    sota a ti se viv la vita

    Auto cromate
    per folla cromata
    crisi cromata
    in gelo cromato.

    flemma
    e disperazione
    se sta mai coi man in man
    Sospiri sommessi
    folla repressa
    vita a scadenza
    di senso si fa senza.

    testa
    e maledizione

    anca mi a sun de Milan

    Dichiaro di accettare il regolamento.

  11. RITRATTO
    Sahara.
    Sei come
    La dignitosa nudità
    Di questa faccia.
    Pergamena dell’onda
    Bionda ermetica
    Di rovente amore,
    Hjmalaia setacciata.
    Spettri di carovane
    Solcano
    Le nostre rughe di sabbia.
    Sei come
    La soffocante spaziosità
    Di questo amore.
    Sciabolate di silenzio
    Contemplano miraggi,
    Uccelli d’acqua
    E un’aquila di mare
    Dalla testa Bianca.

    accetto il regolamento sez. a

  12. TI DIRO’…

    Quando fioriranno i dondolanti platani
    e sciorineranno in aria il loro profumo
    e il suo alone inonderà di letizia il mio cuore
    ti dirò…

    Quando le maestose querce
    svetteranno verso il cielo
    e le loro foglie saranno bagnate
    di sole e di luna
    e le stelle le faranno brillare nel mio cuore
    ti dirò…

    Quando gli olmi, dai loro immensi ombrelli
    di mille sfumature di verde,
    bisticceranno con le nuvole
    e ripareranno le bufere
    che si abbattono nel mio cuore
    ti dirò…

    Quando i tristi salici non piangeranno più
    e copriranno di gioia tutto ciò che mi circonda
    e regaleranno felicità a iosa al mio cuore
    ti dirò…

    Quando i sonnacchiosi pini son carichi di frutti
    e le pigne sembrano palloncini
    che stanno per scoppiarti in cuore
    ti dirò…

    Quando i cipressi stracceranno le nuvole
    e con le loro guglie toccheranno l’azzurro
    che splenderanno ai raggi abbaglianti del sole
    ti dirò…

    Quando gli ulivi d’argento urleranno di gioia
    e regaleranno pace, quiete e amore
    ad ogni angolo del mio assetato cuore.

    Ti dirò che…
    Te lo dirò.

    Giovanna Li Volti Guzzardi – Melbourne
    accetto il regolamento sez. a

  13. DESERTI
    Lunghi giorni appassiti
    dentro lo scacco
    di viole inattuate.
    E l’orologio si carica d’autunno,
    un nuovo autunno di alberi infelici
    tra le foglie piovose
    e deserti di cielo.
    Quaggiù ogni volo è lento,
    la ruggine che invade gli occhi
    di blandizie infingarde,
    i desideri che si fanno menzogna
    sulle palpebre socchiuse al sonno,
    il giaciglio di spine
    di quest’amore acuminato.
    E ci rimane un mare sonoro
    che estrae dal mantello
    fiori irti di spuma.
    Il folle bisogno
    di tornare alla vita.

    Daniela Ferraro
    sez.A
    Accetto il regolamento del concorso

    1. MERAVIGLIOSO!
      Sono le ore 8,15. All’interno di una delle tante stazioni cancellate in Calabria e ridotte a solitarie sale d’aspetto dei pochi treni che ancora pazientemente vi fanno sosta, il signor V. F. timbra frettolosamente il biglietto comprato all’agenzia figgendo lo sguardo sui binari che vanno perdendosi in lontananza. Fa caldo…deterge con la mano la fronte imperlata di sudore, riallaccia con cura le scarpe da tennis infilate con troppa frettolosità. Bisogna calzare comodo, lo attendono ben tre cambi di treno prima di arrivare a destinazione laddove, una volta, si giungeva invece direttamente e comodamente seduti sfogliando il giornale del mattino assieme a solitari pensieri. Ancora uno sguardo sulla fumosa distesa dei binari nell’attesa di ravvisare la sagoma scura del treno stagliarsi all’orizzonte tra il bagliore di un sole sfacciatamente sempre più opprimente e accecante. Un’imprevista, improvvisa folata di vento che interrompe la calma piatta della stazione deserta, un foglio giallastro di carta che svolazza impazzito per qualche istante per poi arrendersi alle mattonelle consunte del marciapiede. Reca scritto in alto “Meraviglie di Calabria” con sotto l’immagine sbiadita di un santuario arroccato su una collinetta. Il signor V.F. si stringe nelle spalle torcendo dolorosamente il collo scarno ed arrossato per via di una rasatura troppo frequente quanto maldestra. Ci vorrebbe un caffè ma il bar è chiuso. Una volta bisognava fare la fila al bancone facendosi avanti a spintoni tra l’allegramente convulso parlottare degli altri viaggiatori. E lì c’era Lei, costantemente indaffarata nel porgere con una mano i caffè e con l’altra nel cercare di trattenere quel ciuffo nero ribelle che continuava, ostinato, a ricaderle sugli occhi. Quando le era vicino, poteva sentirne agevolmente il profumo. Era alla frutta, forse alla mela verde. Rimandava sempre, comunque, ad un qualcosa di fresco. Chissà come si chiamava…Non aveva mai avuto il tempo – né il coraggio – di chiederglielo” Il coraggio è solo per chi ha la cresta.”- Aveva solennemente declamato suo padre portando la mano, con rapida mossa, alla calvizie del capo teso e lucido come una palla da bowling – E lui, di coraggio, non ne aveva di certo. E neppure suo padre. Un profondo sospiro che rimane a mezza bocca interrotto dai primi colpi di tosse dell’altoparlante. Il signor V.F. afferra debolmente la valigia, sua fedele e paziente compagna sulla “via crucis” giornaliera da ripercorrere con santa e lodevole rinnovata tenacia. L’avere ottenuto, del resto, quel lavoro di rappresentante grazie all’interessamento di un arguto zio prete era stata una vera e propria manna dal cielo. “I primi mesi lavorerai quasi gratis ma – e qui aveva levato le lunghe mani nodose verso l’alto, in atteggiamento sacrale – bisogna pazientare. Dio tutto vede e a tutto provvede” “Si avvertono i signori passeggeri che il treno delle ore 8,22 è stato soppresso”. I pensieri che smettono di correre interrompendosi, attoniti, nell’urto contro un imprevedibile ostacolo. E’uno scherzo? No. “Si avvertono i signori passeggeri che il treno delle ore 8,22 è stato soppresso”- Ripete la voce con impersonale malignità.- E adesso? Il lampo improvviso del ricordo di quando gli era scappato l’unico treno sotto il naso lasciandolo lì, da solo, capelli ritti e braccia spalancate come un patetico spaventapasseri in mezzo ad un campo di stoppie. Il risolino impertinente di due ragazzi affacciati al finestrino del treno mancato, i loro sornioni saluti tra il fumo e gli sbuffi in fuga. “Si stava meglio quando si stava peggio”. Un gruppetto di inebetiti, mancati passeggeri gli blocca momentaneamente il passaggio: qualcuno scuote il capo, qualcuno borbotta in modo incomprensibile, la pelle traslucida tra i fitti rivoli di sudore. Un sempre più crescente senso di malessere, quasi di “mal d’Africa”, eppure il grande cartello sospeso all’ingresso della stazione reca su scritto “S*** Calabro”.
      “Meraviglioso…” Le mani che corrono alla nuca per trattenerne l’esplosione in una miriade di lapilli infuocati…e la valigia, caduta pesantemente per terra, spalanca le due grandi labbra in una grottesca risata. “Meraviglioso!”.
      Daniela Ferraro
      Sez.B
      Accetto il regolamento del concorso

  14. SEZ A ACCETTO IL REGOLAMENTO

    IL VOLTO DEL CANCRO

    Non ho più quei grandi occhi nocciola
    ne finti amici vicino
    ad un tratto son sola,
    quell’eterno sorriso da bambina
    è del tutto scomparso stamattina.
    Mi son guardata allo specchio
    e ho abbassato lo sguardo,
    mi è mancato il coraggio
    del cancro son diventata l’ostaggio.
    La mano tra i capelli
    che scivolano giù per terra
    come dei sottili ramoscelli,
    il volto da rughe marcate segnato,
    labbra sottili, pochi denti e fiato affannato.
    Non sento più le mie gambe,
    ma un sudore ghiacciato,
    il corpo trema ed è molto agitato.
    Non sono più io,
    porto una maschera nuova,
    terrore dolore e troppa paura
    fragile dentro e fuori tanto dura.
    Ho i crampi, all’improvviso vomito,
    un segnale inquietante,
    mi ritrovo per terra agonizzante.
    In ospedale danno la sentenza perfetta,
    non c’è appello ma solo amarezza,
    non c’è più il tempo di un saluto ai miei cari,
    ma solo una foto all’ indomani
    su uno dei tanti giornali locali.
    Non c’è un protocollo né un salvavita,
    ti dicono ad un tratto che la tua vita è finita,
    mi raccolgo in preghiera, che Dio mi dia ascolto,
    se ho fatto peccato che mi sia tolto,
    aumenta la febbre mi batte forte il cuore,
    nemmeno un guerriero sopporta tanto dolore,
    lui fa troppo male, si chiama tumore.
    La spia rossa ora nella stanza lampeggia,
    all’improvviso un forte rumore riecheggia,
    lo sguardo atterrito del personale
    mi fa capire sono al finale.
    Il volto del cancro è quello mio,
    quello che uso per dirvi addio.

  15. Era sempre una grande festa
    ***
    Era una giornata non troppo calda. Seduto sulla mia poltrona preferita mi guardavo un documentario alla televisione, dove mostravano delle meravigliose immagini di persone di ogni età, impegnate nella vendemmia in una minuscola valle circondata da colline. Anche se non conoscevo il posto apprezzavo la sua bellezza. Quanto avrei desiderato esserci anch’io tra quelle persone, prendere tra le mani quei meravigliosi grappoli d’uva, tagliare il picciolo che li sosteneva alla vite e depositarli nell’apposito cesto.
    Stanco chiusi gli occhi e cominciai a ricordare quando ragazzino insieme ai miei amici ci divertivamo a fare quel lavoro che avevo visto in televisione.
    Eravamo abituati a giocare sempre insieme, nella grande cascina dove vivevamo. Quando nei primi giorni d’autunno i nostri genitori ci chiedevano di aiutarli nella vendemmia. Certo non era un gran ché di filari, due o tre sul lato destro del nostro orto, al fianco di sedano, rape e verza. L’uva ricadeva in grappoli dalla vite, quasi da obbligarci a piegarci per raccoglierla.
    Per noi quello non era un lavoro, ma un vero divertimento, quell’uva tra le mani per noi era come uno strumento di piacere.
    Specialmente il giorno dopo, quando ci proponevano di entrare in grandi recipienti, dove a piedi nudi schiacciavamo senza nessuna pietà quei grossi grappoli d’uva che, con regolarità gli uomini versavano al loro interno. Come impossibile dimenticare il colore rosso, quasi come fosse sangue, mischiato all’inebriante profumo di mandorle che emanava l’uva schiacciata. Non so se per i vapori dell’uva che noi respiravamo, o altro, per tutto il tempo che le nostre esili gambette si muovevano, il sorriso abbondava sul nostro viso.
    Non eravamo cosi felici però la sera, quando si cominciava ad avere problemi di prurito alle gambe. Anche se i nostri genitori cercavano di alleviare questi inconvenienti con delle pomate, non bastava, le nostre gambe parevano essere state punte da migliaia di zanzare.
    Fortunatamente il sonno dava qualche tregua a questo nostro grattare e al mattino quei tristi momenti erano dimenticati.
    Era bello vedere poi, giorno dopo giorno, quelle botti posizionate in fila sotto il portico, nell’attesa che quel meraviglioso nettare avesse quella consistenza ideale per essere estratto.
    Quando finalmente il contadino più anziano, dopo avere annusato più volte e assaggiato il contenuto delle botti, anche su insistenza dei compagni che aspettavano con ansia il vino nuovo, dichiarava che si poteva estrarre, si preparava una grande festa nella cascina.
    Eravamo tutti presenti quel giorno, mentre le donne pulivano continuamente le damigiane, dove gli uomini avrebbero versato il vino.
    Dopo circa due mesi dalla spremitura, forse era ancora troppo presto per estrarlo, ma gli uomini oramai da troppo tempo senza vino, erano ansiosi di assaggiare quello che le loro viti e il buon Dio avevano dato.
    Si notava subito dai loro volti e commenti, se quell’anno la vendemmia era stata buona, e devo dire che mai li abbiamo visti lamentarsi.
    L’unica cosa che non riuscivamo a capire erano ogni anno le solite frasi:
    “Forse l’anno scorso il vino aveva un grado in più, e un po’ più secco.”
    Oppure:
    “Quest’anno è mosso, ideale anche per le signorine.”
    Certo a quei tempi non capivamo cosa volessero dire con quelle parole, ci sarebbe bastato assaggiare quel vino un po’ spumeggiante, che avevano nei bicchieri e che muovevano con regolarità quasi automatica della mano, Purtroppo ci veniva regolarmente rifiutato, alludendo che eravamo ancora troppo piccoli per bere del vino.
    Questo ci creava sempre più la voglia, o forse il piacere di riuscire a fregarli nel cercare di bere quel benedetto vino, che noi avevamo pigiato. Purtroppo questo assaggio non avvenne mai.
    Certo, alcuni giorni dopo anche a noi davano da assaggiare del vino che usciva nuovamente da alcune di quelle botti, ma era molto più chiaro, aveva un colore rosa pallido e profumava di ciliege. Non sapevamo il perché, di questo cambio di profumo e colore.
    Questo l’abbiamo scoperto alcuni anni dopo.
    Quei furboni di contadini dopo avere estratto tutto il vino, chiudevano il foro della botte, muovevano i grappoli oramai striminziti al suo interno e la riempivano nuovamente, ma questa volta non con dell’uva pigiata, ma con dell’acqua, e questo ci pareva strano, molto strano. Solamente il Signore era riuscito a trasformare l’acqua in vino, e noi eravamo certi che quei contadini non sarebbero riusciti a eguagliarlo.
    L’acqua mischiata agli acini rimasti nelle botti, dopo alcuni giorni di permanenza insieme davano nuovamente del vino, anche se molto più chiaro.
    I contadini però, non lo chiamavano più vino, ma un nome abbastanza strano:
    “Isenò” *in dialetto.
    *Acqua sporca. Italiano.
    Vino leggero, dicevano, ideale da bere per i ragazzi e le donne.
    Oramai da tempo questo non succede più nella nostra cascina.
    Anch’io, adesso che ho una certa età, ho una bella cantina, dove numerose bottiglie di vino Rosso e bianco, provenienti dalle zone di uno dei laghi più belli d’Italia, il Garda, fanno bella mostra di sé nelle apposite scansie.
    Per ricordare i vecchi tempi insieme ai miei amici, ogni autunno ci riuniamo per festeggiare con un pranzo, quasi sempre piatto unico, spiedo con polenta, accompagnato da un buon bicchiere di vino, alla salute di tutti, presenti e defunti.

    Giuseppe Loda
    Sezione -B
    Accetto il regolamento

  16. PIGOLIO DEI NATI TRA LE FRONDE
    “Se riesci a comporre un verso
    che soddisfa un contadino
    devi esserne contento.
    Un fabbro non lo capirai mai.
    Il più difficile da accontentare è il falegname.”
    Olav H.Hauge: “Versi”

    Un disordine di fogli, di capelli, di campane lontane.
    Ecco cosa immaginare all’ombra del grande noce,
    tanto vecchio da piegarsi in capriole stanche
    sopra il grano piantato invece in file ordinate.
    Le nuvole che cadono sopra di noi non fanno rumore:
    solo piccoli cerchi distratti, come cadessero in un mare.

    Tutto sappiamo passare perché tutto ha inizio e fine.
    E al vento e al sole s’accompagnano ebbri i silenzi,
    il pigolio dei nuovi nati tra le fronde, il crescere
    delle radici tra i sassi, sorridendo noi delle incomprese cose.
    Certi siano i giochi già fatti, spiate le stagioni, le nudità.
    Certi le onde vadano a squamarsi sempre da un’altra parte
    e ci sia tutto il tempo di cui abbisogniamo per raccogliere
    e avidamente consumare l’esistenza in sibili, in sogni,
    nelle assenze che dimentichiamo, nei fremiti della resa.
    Allorché chicchi da sgranare matureranno all’ombra
    di un grande noce, sotto cui, bambini, si giocava
    e voci ordivano i giorni che sarebbero venuti.

    *accetto il regolamento del contest* sez. a

  17. Il profumo della felicità

    E ti appartengo
    in quell’ultimo bacio
    che hai regalato
    alle mie labbra.
    E trattengo
    con unghie e denti
    quel sospiro
    che aveva il profumo
    della felicità.

    © Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento

  18. Sto andando in pezzi

    La nave era vasta
    e cavalcava il vasto oceano.
    Io osservavo le onde oscene
    e dicevo: oh oh!

    Sto andando in pezzi,
    scendendo tra le piaghe del sale
    con i miei ettari di legalità
    e nessuno me lo perdonerà.

    Per calmare i passeggeri
    hanno allestito uno spettacolo,
    mentre io vado giù,
    decapitata come Medusa.

    Tutto è molto tranquillizzante,
    se non per il fatto che sto andando in pezzi
    e una gamba è già lì sul fondale,
    piantata come quella di un manichino.

    E ora sento
    che potrei immaginare un finale,
    qualcosa che non sia stato detto,

    per esempio che laggiù potrei trovare
    oltre alla mia gamba, le mie unghie laccate
    accanto alle conserve di sorrisi di signora
    dal cervello disfatto.

    Ed è anche probabile che non affonderò
    tra i vecchi ingombri,
    ma che il mare mi risputerà come seme di mela.

    Ma ora sto andando in pezzi,
    scendendo tra le piaghe del sale
    con i miei ettari di legalità
    e nessuno me lo perdonerà.

    sez. a accetto il regolamento

  19. Elegia del giardino smarrito

    Un giardino smarrito
    vive oltre l’ultimo sentiero,
    nel luogo più remoto
    dove tace ciò che altrove è rumore.

    Le foglie brillano come trasparenti lampade,
    accese dal riflesso dell’attesa,
    e l’aria trattiene il fiato
    come chi arriva in silenzio.

    Non c’è un passo quotidiano a turbare il suolo,
    regna una quiete che sembra radicata.

    Presenza che basta a se stessa.

    V’è una grazia disadorna tra i rami,
    un pensiero che non giunge alla bocca,
    un’idea incompiuta che attende la sua forma.

    E il giorno non osa piegarsi a questo spazio:
    resta sospeso al margine del mondo,
    accennando appena il suo passo,
    perché sa che qui nulla qui deve mutare.

    Nel giardino smarrito,
    persino il tempo è straniero:
    ciò che fiorisce non muore,
    ciò che cresce trattiene i suoi frutti.
    E chiunque lo attraversi, non trova,
    né porta via.

    Angela Maria Malatacca – Sezione A – Accetto il regolamento

  20. VECCHIAIA

    Non dirmi cretino
    se osservo due fili di chioma
    abbracciate al cuscino
    nevoso biancore
    sopra due occhi di miele

    E’ lento il respiro
    in silenzio ci sbeffeggia la sveglia
    è passato tanto tempo
    il grigiore assottiglia la speranza

    Non dirmi cretino
    se la notte rimiro una foto
    tra il verde-giallo di un prato
    un volto, le chiome, i tuoi occhi

    Dimmi pure cretino
    ma non voglio svegliarmi
    scoprendo sul tronco un ramarro
    come fossile scordato dal tempo

    Io questa notte
    ti voglio eterna
    nel segreto della pace
    del silenzio che non si scioglie

    sez. a accetto il regolamento

  21. Tramonto d’amore.

    Il tempo scorre
    sulle paure del mio essere mortale
    rimpiango giorni senza affanni
    ubriaca di verità che al contempo
    come spada ferisce e innalza alla gloria
    la nebbia si dirada alla tua luce
    gocce di luna dipingono la tua immagine
    il tuo “ti amo” rompe il silenzio
    mi rende bellissima
    la tua gravità mi rende satellite
    dell’angelo non hai solo il portamento
    da semi Dio mi insegni l’amore
    leghi a te i miei capelli
    mentre plasmi le tue braccia
    a mia nuova prigione.
    Fuggire o desistere
    perdermi in te
    è dilemma di sopravvivenza
    e la mia arsura aumenta.
    Mentre mi disseti gentile
    al calice del tuo amore
    le tue labbra sigillano le mie:
    non ho più voglia di capire.
    Quel “ti amo” mi fa strada
    mentre inizia il tramonto più bello
    carpisco il calore dell’ultimo raggio di sole
    nel viaggio che mi ha condotto a te.
    Sez A – Accetto il regolamento
    Laura Dessi

  22. Lazzaro

    Sei nuovamente fra noi, nati
    con la caparbia voglia di non morire
    che ti chiedono come hai vissuto – sì
    vissuto – tra tafani e vermi nel buio illimitato
    se hai vagato come un uccello
    in cieli liquidi e sconosciuti
    se scricchiolava la sabbia sotto i tuoi passi
    se la notte era velluto verde
    se una luce brillava di angeli azzurri
    o di folgori nelle tempeste
    se ripensavi alla tua vita passata
    o se tutto era spento come la realtà
    innegabile di un sasso.
    Il tuo corpo lo ha preso in mano Cristo
    e l’ha rilanciato nel fiume turbolento della vita
    a rivedere i goffi albeggiare
    il monotono scorrere dei giorni
    le notti affollate di incubi .
    Ora che sei nuovamente fra noi
    nell’urgente tenerezza della carne
    non puoi che soffrire
    il ribollire del tuo sangue
    nell’incessante ondeggiare dei desideri.
    La mente che non smette di sognare spera
    di suturare la ferita della morte con l’oblio.
    Se chiudi gli occhi non senti
    il sapore della nuova vita e l’aspro
    futuro di una nuova morte?
    Non hai paura di tornare tra le sue braccia?
    Braccia! O il nulla da cui
    sei stato provvisoriamente liberato?
    – – – – –
    Sez. A
    Accetto il regolamento
    Marcello Comitini

  23. THE BEAUTY AND THE BEAST

    Tra le parole del chiacchiericcio degli astanti agli altri tavoli della veranda del ristorante, sul piccolo corso d’acqua, si udivano intervallati dalle note di una musica rilassante, i rumori del vino scorrere nei calici, delle posate stridere sulle ceramiche, del traffico che mollemente passava come la coda di un pitone lambendo il locale adiacente al ponte.
    I cristalli di valore e le posate garbatamente posizionate al loro posto, geometricamente intorno ai piatti, ricordavano che anche l’etichetta avrebbe fatto parte del conto alla fine della cena. Si sentivano voci dalla erre moscia altolocate e sprezzanti, discussioni distanti dalla realtà della maggior parte delle persone mortali, mignoli alzati su tazzine porcellanate.
    Intorno a loro le vie che portavano in centro erano affollate, lambivano i contorni della basilica palladiana, facendo scorrere come biglie su un piano inclinato le persone immerse nel sabato sera alla ricerca di un locale dove cenare o bere qualcosa. La bellezza li attorniava e dava adito all’idea che chi vive immerso in una bellezza del genere ha comunque una speranza. “La bellezza salverà il mondo” diceva Dostoevskij. Eppure ultimamente sembrava che la bellezza non bastasse più ad elevare e ad uscire dagli schemi, a sparigliare le percezioni rassicuranti della mediocrità. Vivere nella bellezza diventava scontato e la scontatezza faceva imbruttire. Il fiume scorreva placidamente, riflettendo le luci natalizie, portandosi appresso le risate della gente sul ponte, i rumori dei loro passi e la loro felicità. Era lì da un’eternità a svolgere quel compito e nessuno ci faceva caso. Perché pensare di dover vivere come palline su un piano inclinato? Perché non fermarsi a guardare la corrente portare la propria immagine a valle? Mentre tutte queste strane domande gli passavano per la testa, come un elenco della spesa, si chiese perché era lì, sulla veranda del ristorante, sul ponte di pietra, sul piccolo corso d’acqua che assorbiva e rifletteva l’immagine di quei momenti.
    Alzò lo sguardo e la guardò negli occhi, rideva di gusto e non si chiese se stesse ridendo di qualcosa che era successo, di qualcosa che quasi inconsciamente aveva detto o semplicemente di lui. Quando lei rideva faceva allegria e il fiume portò la loro immagine giù verso il mare come un messaggio di felicità.

    Giovanni Ferrari
    Accetto il regolamento, sez. b

  24. Boccascena e il mantello d’Arlecchino

    Persa. Non provava altra sensazione. Pensandoci meglio, si sentiva anche oppressa, claustrofobica, come rinchiusa in un bunker grigio, con le fredde luci dei neon. Era davanti allo specchio, chiudendo un occhio alla volta, fissando l’iride. Le sembrava che una fosse più chiara dell’altra. Immaginazione. Forse un po’ di strabismo di Venere. Sensuale. Si perse tra le pagliuzze ocra che, diventando immense, la ingoiavano e la risputavano inevitabilmente sul freddo vetro. Persa.
    Era invidia. La sua, aveva qualche screziatura gialla. Persa.
    Quanto avrebbe voluto provare invidia buona, semplice ammirazione, ma non esiste l’invidia buona. E rise amaramente, pensando a chi si barrica dietro alle parole e cerca uno scudo per proteggersi dalla verità. Bruciava, eccome, avere perso. Una bella colata di acido proprio nello stomaco, lenta e crudele.
    L’invidia è la carie delle ossa, ne puoi sentire l’odore, immaginare il colore imputridito sapendo che è lì, insolente. É uno dei sette vizi capitali, mica fuffa, una dichiarazione di inferiorità, comprovata dal fallimento personale. Ed io, ho fallito.
    Persa.
    Che altro avrebbe potuto fare? Raccomandazioni, cena e annessi con uno dei giurati, si era perfino fatta la mastoplastica riduttiva e ritocchini vari su indicazioni del suo agente. Ma non era bastato.
    Che altro volete? Ditemelo? Il talento c’è, lo so che c’è, quindi? Cosa mi manca? Perché non io?
    Un conato di vomito la piegò sulla tazza del WC, spruzzando aceto e bile ovunque. La pelle si stava squamando, bastava toccarla e perdeva piccole scaglie luminescenti.
    Più magra di così? Lo posso fare. Certo che posso.
    Si asciugò la bocca e andò in cucina scrollando i video sul cellulare. Prese un bicchiere e lo riempì d’aceto, bevendolo tutto d’un fiato. Quasi non sentiva le budella contorcersi mentre osservava le altre, quelle che erano state prese.
    Lacrime acide, collose e minuscole, le scesero sul viso e lì, rimasero.

    accetto il regolamento, sez. b

    1. Un racconto dallo stile molto originale la cui narrazione è resa con pennellate fredde e asciutte che intrecciano sentimenti contrastanti, pur delineando compiutamente l’unicità della condizione psicologicamente drammatica di colei che si sente rifiutata (nonostante i compromessi con la propria dignità) da quel mondo a cui aspira.

  25. Sez A
    Napoli 17-9-2024
    ore 11:55
    sfumature
    Dov’è più quel tempo
    che mi correva vicino
    con i colori del divenire
    Dov’è più quel silenzio
    che con la voce chiara
    mi raccontava vivo
    il futuro gaio assente
    Dov’è più quell’ amore
    che vero, mi accarezzava
    illuminandomi tuta la vita
    Immagini,ora, si presentano
    sgranate e senza filigrana
    sfumando, poi, in ombre
    Il sapore asciutto di dolce
    si tramuta in acido veleno

    Igor Issorf @@##

  26. Sez B – accetto il regolamento

    Sogno di vita, o triplo sogno
    La notte, dopo un duro giorno lavorativo, era stata tranquilla e con un bel sonno ristoratore, ma quella strana mattina Filippo non voleva proprio svegliarsi. La sveglia, quasi vivendo in prima persona la situazione, aveva più volte risuonato per avvisarlo del nuovo giorno arrivato Lo stesso sole dapprima, in modo tenue, poi sempre più intenso, aggiungendo il caldo abbraccio della luce, era penetrato oltre il vetro della finestra della stanza posizionata sulla altura del vecchio borgo isolato fuori del tempo. Da ultimo la stessa radio ,avendo osservato l’inutilità dei tentativi, aveva diffuso ad alto volume le suadenze di quella melodia leggera ed intensa tanto nota e cara a Filippo, tanto che la riascoltava più volte nella giornata ,ma niente. L’unico risultato fu che Filippo si sprofondò ancora di più sotto le coperte morbide di colore cenere e continuò a dormire profondamente, senza sapere immaginare l’arrivo del nuovo giorno ed incurante del suo lavoro impegnativo che lo aspettava. Filippo ora si trovava nel bel pianoro a picco sul mare sottostante nel giardino di quella bella villa esotica che gli era arrivata in donazione appena una settimana fa, senza sapere da parte di chi. Il Donante doveva conoscere bene il garbo e il buon gusto insieme all’arte del bello che era ben presente nelle corde di Filippo, amante del bel mondo dell’Arte ed a tempo perso Direttore dei Conti Generali della Sanità.

    Alto, con occhi e capelli neri, di aspetto atletico, con la memoria più forte dell’acciaio, in grado di immagazzinare nella sua mente, solo con lo sguardo tutti i dati economici giornalieri delle ASL ed ospedali, in contemporanea, ogni giorno, controllava tutti i conti generali della Sanità. Senza avvalersi dell’ausilio di alcun computer era capace di tenere tutto sotto controllo, senza commettere alcun errore. In oltre vent’anni di attività’, iniziata così per gioco, dopo aver partecipato e vinto una gara pubblica basata, sulla declamazione a memoria di ben tre manuali completi di Economia applicata ai conti generali, senza sbagliare neanche un rigo ,seguita da una simulazione di un’organizzazione di un Programma di contenimento costi e spese con pareggio preciso tra debiti ed introiti
    L’eccezionalita’unita alla brillantezza della performance unica, gli valsero un prestigioso riconoscimento e la chiamata diretta da parte del Presidente Generale, per il posto che da allora, ricopriva con merito
    Immerso in una ampia e comoda amaca, dal colore sgargiante, sorseggiando lentamente un gustoso Mojito, sulle note. di una vecchia canzone beguine, ammirava profondamente lo sguardo e gli occhi in particolare, di Lora, di professione spia biotecnologica, la sua compagna affezionata e sincera, che lo aveva raggiunto finalmente lì dopo tante fughe e rincorse. I due ,anni addietro si erano conosciuti durante lo svolgimento della Conferenza internazionale sulla sicurezza telematica in medicina a Parigi Filippo espose, in quell’occasione, brillantemente una sua innovativa relazione sui nuovi farmaci cosiddetti invisibili, suscitando il vivo interesse di gran parte degli illustri ospiti internazionali ed innalzando notevolmente il tono del prestigioso evento, Da subito il suo carisma scatenò in Lora, parigina doc, slanciata dalla bellezza bionda algida , ammirazione e forte attrazione non solo sul piano fisico, altresì psicologica Là stessa che si trovava lì per incontrare in incognito un’ emissario di una temuta potenza mondiale per consegnarli di persona, l’ultimo prototipo sperimentale che la ricerca scientifica aveva prodotto nel campo dei vaccini senza traccia e senza memoria, forte sentì l’impulso di abbandonare l’impresa ed al contempo correre per complimentarsi con lui con un forte abbraccio ed un bacio
    Tale comportamento non risultò indifferente a Filippo, che ricambiò con altrettanta enfasi e fu subito amore
    Quella sera stessa erano a cena ad un bel tavolo preparato con garbo e gusto presso uno dei tanti caratteristici ristoranti della torre Eiffel e dove si giurarono eterno amore
    La distanza e la non proprio trasparente attività di Lora, non furono certo condizione favorevole per i loro incontri successivi, che venivano sempre decisi all’ultimo momento, erano non di lunga durata e sempre in luoghi diversi, dovendo sempre svolgersi in assoluta sicurezza, per entrambi e mai alla luce del sole
    I due, comunque, riuscivano ad amarsi alla follia pur tra mille problematiche internazionali. Ora si ritrovavano definitivamente e si raccontavano l’amore, mentre Pepe, il loro pinscher, scodinzolava e guaiva esprimendo la sua contentezza. Ancora la sveglia cominciò a trillare più forte per ricordare a Filippo che era ora di andare a mettere ordine nei conteggi alterati delle forniture quotidiane appena arrivate. Filippo ancora, nel dormiveglia, si alzò bloccò in modo deciso la sveglia che continuava a suonare e poi si diresse verso il pannello telematico di controllo, posizionato dietro la porta d’ingresso e staccò definitivamente il contatto della sua abitazione dal mondo. Lui, voleva vivere dentro il suo triplo sogno per sempre e non tollerava più interruzioni di alcun genere che potessero interrompere la dolce magia del suo desiderio profondo

  27. Sez A

    Minini Michela

    Accetto il regolamento

    SOLITUDINE

    La solitudine
    del proprio io
    è il fruscicchio
    ricoperto di piume di seta
    in albe
    ancora da scoprire.

  28. Il tempo galantuomo

    Dai miei verdi castani occhi
    scorgo la leziosità dei rintocchi
    del campanile al calar dei tramonti
    sui ridenti e verdeggianti monti…

    Concepire tanta velata lealtà
    in una svelata e complessa slealtà
    del mondo radio visione,
    allo scomodo podio dell’avversione.

    Missiva torna al mittente,
    una ronda iperbole di ricevente
    sbigottita domanda del fare
    allo scomodo podio del disfare.

    Così la venerata Musa del controllo
    misura la strategica fascia al collo,
    consuma Crono in centesimi minuti
    dei secondi beffeggia gli Arguti.

    E il galantuomo tempo vaneggia
    sul ticchettìo di lancetta scheggia
    chiamata all’ordine su tutto.
    Esce e rientra nel quadro distrutto.

    Jonny Souto, sez.A Accetto il regolamento

  29. Sera

    Il tepore della sera
    richiama nostalgie lontane
    di luoghi e persone
    custodite dal tempo
    nelle distese dell’ anima,
    negli scrigni delle rimembranze.
    La sera rinnova
    il ricordo,
    riscalda
    le reminiscenze
    come oniriche fiaccole eterne.

    Anna Rita Furcas
    Sezione A
    Accetto il regolamento

  30. Poesia d’ amore

    Mi accoccolo nel tuo cuore
    in un sogno di eterna primavera
    per riempire i lunghi silenzi
    sognare cose mai viste
    dove il tempo non esiste
    e si spande intenso
    il profumo del bianco mirto

    Lasciami nel mio angolo di cielo
    nulla qui mi manca
    in questa sorgente di vita
    con grappoli d’ amore
    colmero’ ceste di dolore

    Le mie mani son piene di fiori
    mi accoccolo nel tuo cuore
    tenerezza immensa
    grembo di ogni cosa

    Qui incomincia e muore la vita
    in pulsazioni d’ amore
    ritmi lenti di note leggere
    palpiti nascosti nell’ immenso
    dove vola il mio canto libero

    Maria Rita Farris
    Sezione A
    Accetto quanto contenuto nel Regolamento

  31. SEZIONE A – accetto il regolamento

    Cerchi sul lago

    Era giunta a fine
    quella storia caduca, fredda
    come la stanca senilità.
    Senza più colore alcuno,
    s’ovattavano di caligine
    suoni sbiaditi, incompresi:
    un tempo antichi sussurri
    di giocosa passione ardente.

    E sprofondava inesorabile
    il mio amore,
    come un innocuo sasso
    scaraventato nel cobalto
    d’un placido lago campestre.

    Annegava il respiro dei sogni,
    in un dileguarsi di anelli,
    all’inesorabile deriva
    su quell’acqua che, scellerata,
    si faceva cheta e liscia
    come la tua cipria pelle,
    ormai insensibile,
    alle mie tristi dita puerili.

    Si ancorava così, mesta,
    l’essenza di un sentimento
    sul fondale più oscuro del cuore,
    celato in superficie dalla danza
    dei rosei fiori dell’oblio
    nella brezza gentile
    di un’incerta alba nuova …

  32. La mente innamorata

    Il gioco consiste nell’osservare una nuca e solo quella. Da quanto visto, immaginare il viso, assegnare dolcezze o angolosità al viso stesso, stabilirne il colore, l’età. Disegnare ciglia e sopracciglia, formare gli occhi in lapislazzuli o in basalto o in smeraldo. Scolpire i denti candidi e regolari, minuti e vivaci. Infine, con la trepidazione dell’artista, attendere che lei si volti per comparare la tua creazione alla realtà.
    Lei si voltò e tutto era come immaginato. Dunque, non era stato solo una fuggevole complice intesa quella in casa di Dan. La domenica seguente, avevano passato la giornata fra un museo e lunghe passeggiate, completando i racconti iniziati al primo incontro.
    Se allora Mircea era apparso come un arcangelo, ora la sua presenza aveva acquisito una corposità balcanica, fatta di piccole attenzioni, di scoppi d’ilarità alternati a silenzi che gridavano i loro segreti al sole. La ragazza avrebbe solamente voluto appoggiare la testa alla sua spalla. Ma in quel giorno mancò il momento magico. Una bella giornata finita con un abbraccio sotto il portone. Pazienza, si era detta Angie, in fondo almeno non mi ha chiesto nulla. Non che mi sarebbe dispiaciuto, ma è proprio un gentiluomo. Speriamo di rivederlo.
    La memoria, il racconto degli avvenimenti in noi si compone frase dopo frase, e nell’ambito di questa, parola dopo parola. Le stesse parole vengono snaturate, usate per definire non l’esatto avvenire, ma quanto noi soggettivamente pensiamo sia accaduto. In fondo siamo tutti narratori e solo alla fine del racconto tutte le parole prendono il giusto posto e l’esatto significato come doveva essere. Angie riprese la sua posizione, guardò avanti, respirò a fondo e si voltò di nuovo. Mircea sorrise.
    Angie sorrise. Il racconto era alla fine.
    Stanchi di narrarsi e arrampicarsi per le stradine del borgo che portavano agli che portavano ai resti della medievale Castelsepio, tornarono alla casa che dava sul Monastero di Torba mostrando le sponde sassose del Sepio.

    Ridendo, con i corpi e i cuori accaldati decisero di fare una doccia.

    Assieme.

    Poteva essere una storia come tante altre. Un racconto inviato ai sensi, non al cuore.
    Da dimenticare.
    Gesti e parole, che finito l’incanto, disturbavano. Invece, Angie non ebbe il coraggio di guardare il membro di Mircea. Gli passò il dito sulle costole, sul petto e sul fianco. Il tutto ben conservato per l’età, aveva un che di rassicurante. Poggiò la testa sul suo braccio, giusto per vedere che non la guardava dal collo in giù. Gli occhi dell’uomo erano rivolti verso l’alto a interrogare il cielo stellato, come se lei abitasse lì. Bella notte, disse sfilando un asciugamano con la mano libera e dandoglielo come fosse un messaggio discreto inviato a lei che si sentiva desiderata.
    Conosciamo tutti l’urlo del sesso, il coro degli ormoni, lo squillo del testosterone, ma esiste una più sommessa musica suonata dai sentimenti delle persone in amore. Una sinfonia percepita solo da loro, suonata da loro per loro, della quale, l’estraneo escluso dal duetto, intuisce solo una vaga melodia. È la musica del nostro desiderio di essere accolti nel cuore e nella mente di chi amiamo. Di essere parte, non della carne, non dell’ovvio del quotidiano, ma dell’impalpabile materia dei sogni da condividere. È la melodia di chi si ritrova. Della nostra metà mancante che finalmente si riunisce a noi. È la melodia fatta dalle mille parole di ogni giorno che avevamo creduto essere false e inutili, ma che, ora per la prima volta, usiamo nel modo giusto. Finalmente la narrazione della vita si va riaggiustando. Le frasi sono corrette, il senso compiuto, le parole al posto giusto. I significati esatti.

    Stavano Angie e Mircea sul divano del terrazzo della casa di Dan. Coperti, per difendersi dalla brezza serotina da una trapunta di stoffa a disegni provenzali. I corpi vicini si parlavano di protezione, di sentimento, non di desiderio. Al canto dei corpi, rispondeva il racconto delle vite. Quel desiderio che hai di far parte chi ami del tuo passato. Angie beveva i racconti di Mircea. Troppo da ascoltare. Era il suono della voce, una voce maschia che sapeva di tutto il miele e di tutto l’amaro che ti offre la vita ad incantarla, a farla sentire desiderata. La voce di chi non ha più niente da offrirti, né ricchezze né gloria né spensieratezza. Solo starti vicino e prenderti come sei.
    Il cuore di lei si rasserenò come mai avvenuto da molto tempo. Le membra si fecero molli. Posò la testa sulla spalla di Mircea, guardò la luna pensando: sono una donna da amare non un corpo da possedere e sprofondò nel sonno abbracciando Mircea. Anche Mircea dormì, con un leggero russare, molto maschile, dicevano in una vita precedente, ma in quest’occasione, non molto romantico.

    Li scoprì la mattina dopo Dan, il geloso compagno di Angie, lasciato perché pesato e trovato mancante come dice Daniele 5.27. L’inutile fuco incapace di capire e amare Angie. Svaporato l’alcool bevuto, aveva qualche vago ricordo della serata.” Questi non hanno fatto niente” si disse lo scopritore, guardando perplesso i corpi che dormivano. Non segni di passione violenta, non disordine, non l’aroma del sesso. Solo serenità.
    Indispettito, Dan pensò: qualcosa mi sfugge, non corrisponde alle regole, che senso ha? Anche loro sono carne e desideri, perché dunque?

    – accetto il regolamento, sez. b

  33. IL RICORDO

    Si fa spazio
    tra le pieghe dell ‘anima
    percorre a piedi scalzi
    le rapide onde calde
    del sangue
    sfocia tra le pieghe del cuore.
    Nella mente riposa il ricordo
    nascosto nel bozzolo
    che racchiuse gli sguardi.
    Trincerate parole
    vane carezze e sorrisi
    senza volto.
    Come un soffio di polvere
    tra le mani.
    Nell’ aria l’odore di casa
    di madre di figli
    essenza di fragili equilibri
    perduti per sempre.
    Nei frammenti di fuggiti giorni.

    Patrizia Basile
    Sez A.
    Accetto il regolamento

  34. Rami d’acqua

    Nel libro dei laghi
    le tue cellule si sbracciano per raggiungermi

    Sez. A
    Antonietta Fragnito

  35. Ines Zanotti 8 Dicembre 2024
    LA VITA E’ UN RITORNO
    “Sulla panchina del tempo mi soffermo ad ascoltare i pensieri
    che la mente e il cuore, fanno spumare.
    Ogni loro presenza è un’ impronta indelebilmente solcata,
    sulla pelle.
    A volte s’ assopisce nell’ aria il respiro e sedimenta nell’ animo
    un’ inutilità del vivere quotidiano.
    Istanti così reali, inanellati di conoscenza e talmente distanti!
    Tuttavia, il passaggio dell’ età ha reso consapevole il senso
    della mia esistenza.
    La tetra malinconia si ravvede poi, facendomi offrire fiduciosa,
    all’ immortale ‘Amore’.
    CAMMINO, per consegnare ai posteri l’ orma della mia esperienza umana.
    ESISTO, per affidare agli altri il bene che mi scorre nelle vene e canta dal palpito.
    VIVO PER RITORNARE a quel seme che mi ha generato:
    sarà l’ inizio del nuovo volo…”

    Accetto il Regolamento – Racconto, sez. b

  36. NERA

    Divora anche gli occhi
    e sembra la morte (che)
    spegne lo sguardo,
    strozza la penna,
    stanca la vita smarrita.

    Vedo:
    passare una bara
    di vetro e di ortiche,
    attraversa:
    una folla che ho gia’ visto una volta
    una marcia funebre e beffarda
    sugli accordi di un punk potente,
    lo stesso che ha cercato di accendere,
    artificiale,
    i miei giorni più difficili.

    Che sia la musica
    ad accarezzare il volto sconvolto,
    a cullare il bambino.
    Un bambino che piange.

    Quasi quasi mi commuovo,
    nel vedermi feretro,
    con gli stessi miei sogni
    che mi portano a spalla.

    Stefano Gervasoni

    Accetto il regolamento, sez. a

  37. SCARLATTO SANGUE.
    ¡Devi smettere!
    ¡Ti fa male!
    ¿Lo vuoi capire?
    ¿Perché non ascolti i nostri consigli?
    Non lo so, sarò sordo o incapace di capire.
    Mi chiedo ogni volta che sopraggiunga una tra le precedenti domande…
    ¿Non capisco gli altri o pretendo che lo facciano?
    ¿Potresti comprendere una galassia senza aver studiato astronomia?
    E poi ad una botta giù, l’intera bottiglia.
    Per vivere, immaginare, scrivere…
    Per affogare qualcosa che dentro ci respira.
    Ma certo che non so, ovviamente non me ne rendo conto, non m’importa, non capisco che fa male anche a te.
    Certezza v’è chiara ad entrambi;
    Per te è divertente, simbolo di festa, sangue di Dio, svago. Vedilo come vuoi, hai amplia scelta.
    Per me può essere solo una cosa, paura.
    Di ieri, oggi, domani, non importa.
    Alla fine rimango sempre solo con la paura.
    Fai tu i conti con essa, gioca tu al posto mio e fammi sapere se terrai del sangue scarlatto in mano.
    Haronne, Hesperia Crofth.
    Sezione A. Dichiaro di accettare il regolamento.

  38. L’amante cinese
    Lavoro da anni imprecisati in questa segreteria collocata al primo piano di un palazzo nobiliare riqualificato a uso ufficio. Da anni imprecisati, inoltre, osservo l’anello del battente dorato, spingendo l’enorme portone catatonico, che vorrebbe solo starsene a russare. Io sto in fondo al grande ingresso, acquattata nella mia scrivania davanti a un baldacchino rosso sangue. Alla sinistra ho un Cesare incazzato di marmo annerito e alla destra un putto obeso attaccato un’acquasantiera color oro.
    Entro alle nove, esco alle diciassette e trenta (con la pausa pranzo di mezz’ora). Prendo la metro C, fermata Gardenia e raggiungo la mia modesta casa arredata ikea, ma in compenso abbastanza impermeabile ai rumori del traffico urbano. Prendo un tè, leggo un libro e lascio che la sera arrivi a chiudere la finestra con la sua cerniera scura, fino a quando il sonno mi trasporta nel limbo dell’oblio.
    Non è stato sempre così. Una volta avevo un amante. Era così stupido che potevi proiettarci di tutto, persino l’immagine di un amante innamorato (forse l’ho scelto per questo). Ma non avevo previsto lo schianto del cuore contro la sua armatura vuota. Del mio cuore di carne rimasero solo i battiti del pacemaker.
    Finì con lui il gioco infantile delle proiezioni. E siccome non avevo bisogno del paraurti ‘coppia fissa’ o, dio me ne scampi, matrimonio, decisi di farmi come amante la città. Uscivo dopo il tramonto. A volte scendevo a Termini e prendevo a caso un bus. Rimanevo attaccata alle luci arrampicate agli ultimi piani dei grandi palazzi, che sembravano candele sparse sul vuoto delle grandi piazze. Immaginavo le vite dentro le case, contemplandole come quadri di Hopper. I colonnati, poi, emergevano nel chiarore dei lampioni come visioni e dicevano l’approdo nella vasta sera, come una sorta di miracolo. E c’era poi l’indicibile, cioè quelle schegge di emozioni che ti brulicavano addosso tra tutta la vita che calcava le strade, sommergeva i mezzi, mescolandosi al fiato dei secoli appesi a ogni edificio, monumento, mattone, laterizio. Ed era la sera, ne ero certa, che gli spiriti uscivano allo scoperto a Roma e il velo tra visibile e invisibile calava, rigenerando l’anima, indicandole la sua sostanziale unità col tutto.
    Tornavo a casa col cuore ricaricato come un pneumatico ed ero così stanca che mi addormentavo come un sasso: ottimo per non sentire la tristezza. Uscivo quasi tutte le sere. Ma, una di quelle sere, in cui ero andata in una pasticceria a Cipro che faceva imbattibili cannoli siciliani, incappai nell’insegna di un parrucchiere cinese. Io odiavo i parrucchieri e le acconciature ‘a bambolina’. E perciò non riusciii a spiegarmi quell’audacia, mentre spingevo la porta del salone e varcavo l’ingresso illuminato dalla luce azzurra del locale, puntellata di gocce colorate provenienti da una lampada di cromoterapia, fissata sul soffitto.
    ” Plego” mi dice un cinese, avviandosi disinvolto verso me.
    ” Vorrei una piega…”.
    ” Lì” dice, puntando il dito verso il fondo della sala.
    Penso subito che adoro il pragmatismo dei cinesi, in un mondo bombardato di parole vuote e corrosive.
    ” Piega lissia?”.
    ” Sì, cioè no, un pò mossa” rispondo, mentre cerco di mettermi comoda sullo schienale della poltrona, che oscilla come una barchetta. Sento poi le sue mani che sollevano i miei capelli, liberando qualche ciocca incastrata nel dolcevita.
    Il suono dell’acqua nel lavandino mi raggiunge e si sposta, poi, sulle tempie, coi suoi polpastrelli che vi premono, lievi. Ero già stata da parrucchieri cinesi: di solito si trattava di dita nervose, graffianti. Quelle dita, però, non graffiavano, ma tamburellavano la mia testa, sparpagliandovi i pensieri molesti e a tratti carezzandoli, per farli andar via. Chiusi gli occhi e li riaprii soltanto quando sentii il suo ordine.
    ” Lì”. E mi indicò una poltrona a destra dall’ingresso.
    Mi accorsi che mi aveva messo l’asciugamano in testa.
    Nello specchio, lo vidi. Aveva un fisico piuttosto robusto e un viso lungo, pieno, europeo, anche se aveva il tipico taglio di capelli cinese, con le tempie rasate. Gli occhi erano scuri e intensi.
    Chiusi ancora gli occhi ma, ad un tratto, sentii il suo ginocchio contro il mio. Li riaprii. Il suo busto ondeggiava accanto a me, con la spazzola sospesa con la quale mi stava stirando la frangetta. I nostri sguardi si incrociarono. Fu un attimo. Ma l’attimo necessario di una comunicazione enciclopedica, fatta solo di un idioma sonoro. Richiusi gli occhi. Il suo ginocchio premette con più forza il mio ed io immaginai il suo corpo incontrarmi in una danza fatta d’acqua, di luci azzurre e di gocce di colori vivaci e tristi. Uscii dal sortilegio solo alla sua parola.
    ” Laca?
    ” Poco” dissi, stupendomi di aver acconsentito all’uso di un gas inquinante, ma sapendo il perchè.
    Mi alzai, mi diressi alla cassa, pagai a una cinese e mi voltai. Lui era già impegnato con un’altra cliente, che nemmeno avevo visto entrare. Non ci salutammo, ma sapevo che potevamo diventare amanti. Questa volta, però, a modo mio. Cominciai a frequentare il parrucchiere prima una volta, poi due a settimana. Lui era sempre lì per me.
    Un venerdì sera, però, dopo aver aperto la porta, la luce mi sembrò smorta. Lo cercai con lo sguardo, fino a quando la collega cinese, impietosita, forse, mi disse:
    ” Non c’è…”.
    Ero stata colta in fallo. Così osai:
    ” Ma torna?”.
    ” No tolna più”.
    “No tolna mai più” aggiunse, anticipando la mia domanda: “E quando torna?”.
    Quelle parole mi arrivarono come uno sparo. Rimasi immobile, il corpo di marmo come quello del busto di Cesare in ufficio.
    Uscii dal locale.
    Una lacrima scivolò, inerte, mentre presi a camminare in fretta, a caso, per le lunghe strade scure. Di lì a poco, iniziò a piovere. Non era una pioggia fitta e nemmeno torrenziale. Era un tamburellare di dita, leggere, che carezzavano i pensieri molesti, per lasciarli là, nella notte romana: ora l’aria era azzurra e aveva ora un suono, capace di sciogliere, con gocce di luce colorata, anche la tristezza.

    sez. b, accetto il regolamento

  39. S’INNALZANO I VIBRANTI SENSI

    S’innalzano i vibranti sensi
    nella vastità che annotta,
    il murmure crucciato a crosciare
    nella severa luna secca di melodia.

    E io, in subbuglio di geloso Amore,
    impaziente dispiego lo sguardo stellante,
    di me parlando al fluido silenzio
    del cuore piagato, già lumicino spento.

    Ma, qui, nel labirinto mio murato,
    il corpo è solo un’orma d’agonico ricordo,
    e al portale dell’anima consunta
    nessuno bussa, nessuno chiama.

    Com’era dolce la beltà degli anni verdi
    in cui ignoravo il crescere e il declinare
    stordita dai sogni d’alba incorrotta,
    dalla quieta tesa di vitale desio.

    Ora, curva prigioniera al giogo della sorte,
    rincorro solo follie d’un dejà vu
    in volo verso un nessun dove,
    di cerchio in cerchio gocciante in pianto.

    Perciò, m’inceppo al crampo della morte
    che a me s’attorce come edera al tralcio
    la pelle infusa di violetta strizzando,
    la mia rosa rossa sparpagliando.

    Sandra Ludovici
    Sezione A
    Accetto il regolamento.

  40. ESSERE DONNA

    Via via sbattendo il giubbotto sulla spalla il suo corpo si contraeva, a ogni risata liberava la sua bianca dentatura
    Comprato per pochi spiccioli su una bancarella di Resina al mercato americano di Ercolano quel capo era diventato l’emblema del suo apparire.
    Raccontava dei sacrifici e della stanchezza nel tragitto dei trenta chilometri che faceva in motorino per raggiungere l’Università di Napoli. Le mostrava quei volumi di medicina scarabocchiati e vissuti nelle lunghe ore di studio nella sua fredda cameretta. I sacrifici che sosteneva il padre per mantenerlo negli studi, e le levatacce delle sei di mattina per accompagnarlo sul luogo di lavoro. Si beava della serietà e bravura dei suoi professori che di sicuro ne avrebbero fatto un eccellente medico.
    Lisa con interesse lo ascoltava, ne restava sbalordita quando Andrea ad alta voce le leggeva e le spiegava le patologie di alcune malattie. Allo stesso tempo le era sembrato che si nascondesse dietro a un qualcosa che non osava mostrare.

    Travolta come un fiume in piena si era abbandonata a quella frescura tiepida, a volte gelata di quel getto che le arrivava gratuito e continuo, allo stesso tempo si lasciava avvolgere da quella sensazione calda e accogliente.
    Al sicuro come in un grembo materno, si abbandonava e si lasciava cullare da quell’estasi che non riusciva a spiegarsi.
    Aveva relegato in Andrea sogni e aspettative nominandolo unico depositario della sua vita. Aveva riposto il suo cuore in lui ma non era sicura se quello era il posto giusto.
    Spesso durante la notte si svegliava e singhiozzava, quella felicità che provava le faceva paura, la sentiva solo sua.
    A lei era sembrato che il modo d’amare di Andrea fosse un’effusione che si limitava a un solo atto fisico, per lei al contrario, amare significava darsi completamente.
    Ma aveva scelto di vivere con Andrea e glielo dimostrava senza reticenza. Si chiedeva che cosa fosse l’amore per Andrea, o meglio chi fosse il suo ideale di donna.

    Erano gli inizi degli anni 70, i ragazzi e le ragazze erano liberi dall’ipocrisia di una morale ormai lasciata alle spalle, eppure essere maschi era un vantaggio, si poteva parlare liberamente di sessualità, per una donna ancora non era ben chiaro. Andrea nei suoi atteggiamenti ostentava maschilità di “sesso forte”verso il femminile che riteneva “debole”

    Lisa sempre sorridente gli parlava di Catullo e delle sfumature dell’amore come patto di lealtà, una forma libera e naturale dell’amare.

    Da quel ragazzo giocoso, rude, allo stesso tempo indifeso e autoritario sembrava attingere energia.
    Una forza incontrollabile e indefinibile l’attraversava. In silenzio e in atto di devozione lo ascoltava e quelle parole le giungevano nuove, sembravano avere un significato che solo lui riusciva a dare.

    Lei si appassionava a Kant e al rapporto uomo Dio, leggeva del rispetto di se stesso e degli altri come forma di libertà.
    Era in sintonia con la teoria sociale di From e ne aveva divorato alcuni libri che leggeva senza sosta, l’Arte d’amare letto in una notte l’aveva travolta. In Carl Gustav Iung voleva approfondire il processo di individuazione verso una personalità sana. Andrea la ascoltava con interesse e l’abbracciava fino a farle male soprattutto quando parlava del Carpe diem di Orazio e della bellezza della vita, che poteva essere vissuta se solo si fosse riuscito a coglierne l’attimo fuggente.

    Lisa iniziò a frequentare la casa di Andrea, si stupì nel vedere le sorelle spesso silenziose, intente a pulire. Il padre quasi sempre in un angolo con un cruciverba in mano in attesa della cena o del pranzo che gli veniva preparato alla stessa ora dalla moglie e consumava da solo. La madre spesso assente non controbatteva a conversazioni che venivano discusse dal marito. Quando eravamo sole, le poche volte, mi raccontava della sua vita trascorsa a lavorare nei campi da ragazza. L’unica femmina di sei fratelli maschi, cresciuta senza genitori. La madre era morta di parto nel darla alla luce. Da ragazza trascorreva le sue giornate a servire i fratelli. Faceva il pane alzandosi all’alba. Non avendo acqua in casa, mi raccontava che tirava l’acqua dal pozzo. Ancora si occupava del marito, della casa, cucinava e faceva il pane. Aveva smesso solo agli inizi degli anni 60 di tirare l’acqua dal pozzo perchè anche per lei erano iniziati gli anni del boom economico.
    Un’ educazione estranea alla vita che non ero abituata a incrociare lungo il mio percorso, pensavo che la sua, era stata plasmata e guidata dai fratelli. Subentrata al marito si era poi isolata dal mondo. La madre di Andrea vissuta nel sacrificio, non era una donna comune, era la “santità della donna” il valore che Andrea le attribuiva e che apparteneva solo a una donna e non alle donne, la madre.
    Lisa era diversa da quel modello. Amare per lei significava dare tutta se stessa, ma voleva dire anche libertà, rispetto, non privazione e assoggettamento.
    Le sue lotte con Andrea per imporsi venivano via via allo scoperto. Nessuno dei due affrontava la cosa, erano felici, i loro sguardi aperti e desiderosi l’uno dell’altro lo confermavano. Ma da alcuni atteggiamenti trapelava l’ insicurezza di Andrea nell’affrontare un rapporto così diverso e distante dalle figure familiari che aveva in famiglia.
    Andrea con gli anni cominciava a rivedere il comportamento di Lisa che le appariva troppo aperto… Sì Lisa rideva troppo agli occhi di suo padre, e i suoi discorsi sull’aborto libero, sulla politica di Berlinguer. Un comportamento anomalo per una ragazza “perbene”. Inizialmente Andrea era in conflitto con il padre, sembrava non accettare quegli atteggiamenti patriarcali, schivi e troppo lontani da un oggi che si stava aprendo ai cambiamenti. Ma la ribellione verso il padre in quegli anni 70 era dettata da una anarchia subdola che sarebbe sfumata nella maturità. Infatti con il tempo, Andrea assunse l’aria patriarcale e despota del padre.
    Forse mi sbagliavo? Non capivo quel cambiamento. In fondo era un ragazzo che studiava e frequentava persone diverse. Ebbi la sensazione che in quegli anni per lui ero uno spiraglio di luce, la novità per non affossare nel limbo dell’insicurezza giovanile in cui versava.

    Lisa, fin da piccola aveva imparato a difendersi dal fratello che non aveva dovuto lottare per conquistare la libertà, lui al contrario, doveva solo difendersi da essa.
    Il padre dall’aria sempre imbronciata, era stato abbandonato alla ruota dell’Annunziata a Napoli, i suoi natali dubbi lo avevano reso schivo e burbero, in realtà era buono e premuroso.

    Lisa continuava a stare con Andrea, le loro diversità non la sconvolgevano, a lei appariva come un piccolo animale ferito che aveva bisogno di cure.
    Sostenitore di Mario Capanna lo vedeva proiettato verso i più deboli e non riteneva il suo comportamento così burbero come le era sembrato.

    Con gli anni purtroppo, Andrea si andava svelando, il loro rapporto diventava sempre più difficile, ma lei riusciva a tenerlo tranquillo. Aveva imparato a gestire i suoi attacchi di gelosia che per un periodo erano degenerati con schiaffi e pugni. Ma sapeva come accontentarlo,come difendersi e nascondersi. Allo stesso tempo le era ben chiaro che non doveva annullarsi, essere come la madre di Andrea le era parso devastante.
    Ancora si chiede cosa la tenesse legata a lui. Voleva salvare Andrea da qualcosa? Forse da se stesso?
    Forse era Lisa che voleva salvarsi da se stessa e dalla solitudine che le faceva paura?
    Tra le effusioni e nella banalità di quel quotidiano lei continuava instancabile a voler leggere dentro alle cose per ricercarne l’anima che voleva e sapeva di trovare, a cui non voleva rinunciare.
    In cuor suo era consapevole che si sarebbe persa stando da sola, aveva paura di non sopravvivere all’abbandono che leggeva negli occhi del padre. Quella debolezza ormai Lisa l’aveva cucita addosso. Sapeva che non l’avrebbe salvata come non aveva salvato il padre.
    Susy Gillo
    Sez B Accetto il regolamento

  41. SPECCHI DORMIENTI

    A passo lento
    tra archi altezzosi scorrono
    volti passati
    dai sassi irosi, opachi fiori
    occhieggiano ai nostri torpori
    Specchi dormienti, come lame
    tagliano i nostri sorrisi
    Inginocchiati al dubbio
    anime colorate di vita
    si aprono al tepore del giorno
    e si dilegua il pianto
    negli occhi di un bimbo

    Susy Gillo
    Sez. A Accetto il Regolamento

  42. Accetto il regolamento, sezione B

    IL RICCO E IL POVERO

    C’era una volta un signore molto ricco di nome Enrico. Non aveva mai lavorato in vita sua in quanto aveva ereditato tutta la sua ricchezza. Abitava in una casa così grande che sembrava una reggia e aveva molti dipendenti al suo servizio tra maggiordomo, camerieri, cuochi e altri aiutanti. Non era per niente una persona simpatica. L’unico suo pensiero era il cibo. Infatti, pesava circa centoventi chili.
    Siccome per il pranzo e per la cena voleva essere servito con dodici pietanze diverse, aveva assunto anche dodici cuochi. Così poteva scegliere quello che preferiva mangiare. Ogni cuoco preparava una portata da sé. A dire il vero, a volte i cuochi l’imbrogliavano, cucinavano in sei a turno, tanto non se ne accorgeva.
    “Oggi voglio le lasagne, il brasato, ravioli fatti a mano, il timballo di patate, la gallina in umido…” di solito ordinava così ai camerieri. Il signor Enrico mangiava la maggior parte del cibo offertogli e i suoi avanzi restavano alla servitù. Naturalmente lui mangiava sempre da solo. Era consapevole del suo aspetto fisico e per questo motivo aveva fatto togliere gli specchi in casa.
    Veniva spesso a bussare alla porta di casa un mendicante a chiedere un pezzo di pane. Il signor Enrico rispondeva al maggiordomo che apriva la porta:
    “Mandalo via, non voglio mendicanti qui”. Ma il maggiordomo era di cuore buono e di solito prendeva un panino in cucina, lo nascondeva in tasca e lo porgeva al povero mendicante. Era quello il vero motivo per cui ritornava ogni giorno.
    Un giorno era venuto un fabbro per riparare una maniglia e aveva portato con sé il figlio di sei anni.
    “Mi scuso se è venuto anche mio figlio. Oggi la scuola era chiusa e mia moglie non c’era, così non ho potuto lasciarlo da solo. Prometto che non disturberà.”
    “Fa niente, tanto i bambini non nuocciono. Come stai, ragazzino, da poco che hai iniziato la scuola, vero?”
    “Sì, signore. Da quest’anno.”
    Così avevano chiacchierato un po’ intanto che il papà si dava da fare per riparare la porta.
    Si stava avvicinando l’ora di pranzo e i camerieri iniziavano a riempire la tavolata con vari vassoi.
    “Chi aspettate per il pranzo?” aveva chiesto curioso il ragazzo. “Per caso c’è qualche matrimonio o una festa?”
    “Non verrà nessuno, è tutto per me. Ah, ah, ah, io mangio tanto, ti pare?” scherzava il signor Enrico.
    “Mangia da solo su questo tavolo enorme?” continuava incredulo il bambino.
    “Sì, vedi come sono fortunato io. Ho sessantatré anni e da quando sono rimasto senza genitori quasi trent’anni fa, mi faccio sempre servire così “, si vantava.
    Il bambino era rimasto molto stupito. Quando suo papà aveva finito il lavoro, il bambino si era rivolto al padre facendosi sentire dal sig. Enrico:
    “Papà, povero signore, sono trent’anni che è in castigo”.
    “Quale castigo?” aveva subito chiesto il ricco.
    “Come quando faccio qualcosa di cattivo, non so, quando non ubbidisco o robe del genere, mi mettono in castigo. E devo anche mangiare da solo quel giorno. Ed è bruttissimo, signore. Ma lei, fare così per trent’anni. Mi dispiace proprio.”
    Il signor Enrico era rimasto molto perplesso dopo quest’affermazione. I giorni seguenti era anche più silenzioso del solito.
    Così un giorno aveva preso la decisione di ospitare il mendicante che continuava a bussare alla porta.
    “Franco, se oggi si presenta il mendicante fallo entrare”, disse al maggiordomo che non riusciva a credere alle sue orecchie. “Cosa gli è successo?” si chiedeva.
    Aveva fatto accomodare il mendicante in casa, l’aveva accompagnato a lavarsi le mani e presentato al signor Enrico. Tutti erano così stupiti da quel gesto.
    “Allora, tu chi sei? Vieni ogni giorno a bussare a casa mia. Vorrei sapere qualcosa su di te. Dai, siediti, io sono generoso”, gli disse.
    Così al mendicante era venuta la forza di raccontare la sua storia.
    “Una volta anch’io sono stato ricco. Forse non proprio come lei, ma facevo una vita molto agiata. Possedevo una fabbrica che produceva prodotti di pelletteria. L’avevo ereditata da mio padre. So che suo padre era una volta un nostro cliente, mi ricordo che me lo raccontavano i miei genitori. Per questo vengo sempre davanti a casa sua. I miei parlavano sempre bene dei suoi genitori, signore, li stimavano molto. Avevo messo da parte molti soldi, ma mi consigliarono investimenti sbagliati. In poco tempo ho perso tutto. Sono rimasto senza fabbrica, senza casa, ma la cosa peggiore è stata che quasi tutti gli amici mi hanno abbandonato. Me ne era per fortuna rimasto uno solo, l’unico vero amico. Di questo mi sono reso conto dopo. Lui mi ha ospitato a casa sua, mi ha dato una stanza, anche se era sposato e aveva la sua famiglia. Così ho vissuto con lui finché non è morto. Il figlio si era sposato, la famiglia allargata, per me non c’era più posto in casa loro. Da allora vivo in strada e mangio quello che mi offrono gli altri.”
    “Caspita, che brutta storia.”
    “Già.”
    “Mangia tutto quello che vuoi, dai, non essere timido”, gli disse Enrico.
    “Grazie signore per tanta generosità.”
    Dopo il pranzo il mendicante salutando se ne era andato.
    Il signor Enrico era rimasto molto colpito da quella storia. Si era reso conto anche di aver mangiato molto meno durante il pranzo e stranamente non aveva neanche fame.
    Il giorno seguente impazientemente stava ancora aspettando che bussasse il mendicante alla porta. Gli andava ancora di chiacchierare con lui. Ma aveva atteso invano, non si era presentato quel giorno.
    “Franco, fai entrare il mendicante quando bussa la prossima volta”, disse al maggiordomo.
    “Va bene, signore.”
    Ma nei giorni seguenti non era ancora tornato. Enrico si stava chiedendo se avesse forse detto qualcosa di sbagliato. Finché un giorno il mendicante non si era presentato di nuovo chiedendo un pezzo di pane.
    “Il signor Enrico la sta aspettando per il pranzo, signore”, gli aveva detto subito il maggiordomo.
    “Grazie mille, signore.”
    “Dove sei stato in questi giorni? Non è che ti ho offeso o cose del genere?”
    “No, signore. Avevo mangiato abbastanza per tre giorni.”
    Il signor Enrico era rimasto sorpreso.
    “Sai cosa ti dico, se vuoi lavorare per me, ti offro un posto. Vitto e alloggio compresi.”
    Come era contento il mendicante! Non poteva immaginare che avrebbe avuto un’altra opportunità nella vita.
    “Grazie, signore, Dio la benedica.”
    Da allora il signor Enrico non mangia più da solo ma in compagnia di tutta la servitù. È dimagrito quaranta chili ed ha iniziato a muoversi un po’, ha trovato qualche hobby. Si occupa del giardino, passa molto tempo curando i fiori e sicuramente ha trovato un amico.
    Quel che è più importante, si sente molto meglio.

  43. Serena Pusceddu
    Dichiaro di accettare il regolamento
    Sez. A

    Il lago dove mi perdo

    Ho riempito
    d’intense parole
    i tuoi silenzi,
    di vividi pensieri
    le tue assenze
    in questo lago immenso
    dove solinga mi perdo.
    Ed ho amato i verdi boschi
    reclinati al tuo passaggio,
    le montagne di fuoco
    d’amore denso,
    il tuo cuore grande
    riflesso
    nel cielo stellato,
    terso,
    che batte,
    che si espande,
    che mi abbandona.

    ©Serena Pusceddu

  44. Occhi migranti

    Troppe emozioni
    irrompono nel vederti
    così inerme,
    come il colombo
    ferito e spaventato
    che proteggi tra le braccia.
    Dai tuoi occhioni scuri
    traspare senza freni
    l’infelicità di cui sei pervaso
    e di cui nessuno parla.
    Seguirai così il tuo cammino
    con addosso la terra
    della tua terra ed i suoi colori,
    che condurre ti dovrà
    verso altre terre madri benigne
    ove potrai insemenzarti
    come virgulto vigoroso.
    Ed in un giorno nuovo
    rinascerai alla vita
    e volerai insieme al tuo amico
    per portare per il mondo
    il ramoscello della pace.

    Sezione A
    Accetto il Regolamento

  45. Dichiaro di accettare il Regolamento-Sezione A-
    Solitudine.
    Una donna sola a fatica si arrampicava su per la stradina
    quella breve ripida e scoscesa di tanti e tanti anni fa
    sul capo un fragile fine velo per ripararsi dalla brina
    era in stanca confusione tipica della sua tarda età.
    Il sole era nascosto ma le si avvicinava ad ogni passo
    ed anche se il tragitto era stancante e sempre lo stesso
    lei avanzava risoluta, con un incedere lento e decrescente
    ed una sorta di apatia, l’andatura era apatica ed indolente.
    La donna saliva, sempre più lontano dal mondo e dalla vista
    era un puntino piccolo ormai e la via sempre più stretta
    verso una meta sconosciuta e nessuno sa a quanto dista.
    Ma nonostante il percorso irto ed ignoto, ora trasognata lei s’affretta
    verso chi ha perduto e tanto amato, su per quella strada infinita
    finalmente verso l’agognato ponte dell’arcobaleno e del suo fine vita.

  46. accetto il regolamento. Sezione B

    ANCHE GLI ANGELI TI GUARDANO

    E cosa volevi che ti rispondessi, amore mio?

    Quando mi hai chiesto, povera stella mia: “Pensi che ce la farò a vivere ancora un anno?”
    Io ti ho detto “Sì, credo di sì. Qui nel report arrivato dalla Germania c’è scritto che le due mutazioni che hai provocano di solito una lenta progressione della patologia”
    Non ti ho detto, però, che quel di solito significava semplicemente nella media dei casi e che la durata della aspettativa di vita andava calcolata dall’inizio della malattia e non da quando il sequenziamento del DNA avrebbe identificato il genoma mutato.
    Una bugia, una pietosa bugia che anche io speravo non fosse tale, che quelle due maledette mutazioni ti concedessero ancora molti mesi di vita.

    Ma dopo neppure tre mesi… non c’eri già più!
    Quante sedute di chemioterapia nei due anni passati, affrontate con determinazione ammirevole!
    Quanto coraggio, quanta voglia di vivere.
    Abbiamo tentato di tutto, chemio, radio, alla fine anche l’esame dei geni per sperare in farmaci molecolari o sperimentazioni in corso.
    Ma… nulla! Quelle sostanze, FOLFOX, FOLFIRINOX, GEMCITABINA, nonostante i loro strani nomi non hanno spaventato, e almeno per ora non riescono a terrorizzare, quei geni mutati, KRAS, BRCA o loro cugini simili, che hanno nomi altrettanto paurosi.
    Ma tu che forza nel volerli sconfiggere, che combattente!
    Volevi farcela, volevi assolutamente farcela. Per te, ma soprattutto per me e per nostra figlia.
    Quella figlia che adoravi, che era parte di te.
    Sai cosa penso? Che ora forse gli angeli ti guardano, conquistati dal tuo immenso coraggio, dalla tua forza di resistere.
    Guardano quella nuova stella che si è accesa in cielo.
    Forse gli angeli ti guardano, perché una persona bella come te deve essere ammirata.
    Che persona!
    Una onestà cristallina, un senso del dovere eccezionale. Riconosciuti da tutti.
    Ereditati da tuo padre.
    Sul lavoro, nei rapporti con gli altri. Incontrandoti per strada, a volte, ti ringraziavano anche i clienti degli avvocati avversari.
    Ancora ieri, in panetteria, una signora che neanche conosco mi ha fermato dicendomi “Lei è il marito dell’avvocato, vero?” Mi ha porto le condoglianze e poi ha aggiunto “Che persona!”
    Già, e altre volte mi è successo.
    Ne ricordo due in particolare.
    Un tizio, mentre uscivamo una sera da un ristorante di Bologna, io, te e Sara piccola, lei sul passeggino, mi aveva sussurrato “Tu sì che vai bene!”.
    Forse perché lui non aveva una famiglia, una famiglia felice come la nostra.
    Un tuo ex compagno di classe, invece incrociato al supermercato, mi ha un giorno salutato dicendo, riferendosi a te, “Sei fortunato!”
    Sì, sono stato molto fortunato, ad incontrarti.
    E forse ora questa fortuna ce l’hanno gli angeli. Già, forse gli angeli ti guardano, ammirati dalla tua onestà e correttezza.
    Ora, che lassù si è accesa una luce più intensa di quella di mille supernovae.
    Negli ultimi mesi, ricordandoti di quanto a me sarebbe piaciuto visitare Tahiti, Bora Bora o Moorea, mi avevi confidato: “Non sono riuscita a portarti in Polinesia”
    Tu, quella viaggiatrice incallita, quella grande viaggiatrice già stata in trenta nazioni diverse, avresti voluto intraprendere ancora qualche bel viaggio.
    Ma, da lì a poco, ti attendeva un viaggio senza biglietto di ritorno.
    Ti eri preparata, avevi fatto venire a casa la pettinatrice, e pure il prete, il sacerdote che ti aveva impartito il sacramento degli infermi.
    Ma volevi vivere, a tutti i costi, assolutamente.
    Vivere ancora un poco, per festeggiare i trent’anni di matrimonio.
    Avevi anche invitato il prete, e anche il tuo medico, per l’anniversario di nozze!
    Ci tenevi così tanto…
    Ma non ci sei riuscita.
    Così come non sei riuscita, per pochi giorni, a fare gli auguri a Sara per il suo compleanno.
    Quella figlia alla quale avevi dedicato tutta te stessa.
    Quella famiglia alla quale avevi dedicato tutte le tue energie.
    Forse gli angeli ti guardano proprio per questo, per il tuo senso della famiglia.
    Sì, perché adesso lì, dove abiti, risplendi più delle costellazioni.
    Come potrebbero non essere colpiti da tanto splendore, come potrebbero distogliere lo sguardo e rivolgerlo da un’altra parte, su qualche altra stella?
    Ne sono sicuro: anche gli angeli ti guardano.

    E non ti preoccupare per Sara, stellina mia.
    Ci penserò io, a lei.
    L’abbiamo festeggiata, sai? Il giorno del suo compleanno.
    Ci tenevi tanto ad esserci, lo so.
    E io ho fatto anche qualche bella foto, quel giorno.
    Ma non posso inviartele, e non solo perché tu avevi quel vecchissimo telefonino antidiluviano a cui eri affezionatissima perché custodiva messaggi di momenti importanti della tua esistenza, e che non può ricevere immagini.
    Non solo per quello.
    Ma perché, amore mio, io… io non sono capace di mandare fotografie in Paradiso, dove sicuramente tu sei!

  47. #Stelle#
    Puntini luminosi che brillate nel cielo come lucciole;
    fiaccole della speranza,
    bagliori dell’universo
    racchiudete i più dolci desideri
    nascosti nei nostri cuori.
    SEZ A
    Accetto il regolamento

  48. Sezione B, accetto il regolamento, Roberto Marzano

    PEPERONCINO NEL CAFFELLATTE

    E’ incredibile quanto certe persone possano farsi aspettare! E’ già 4 minuti di ritardo ‘sto disgraziato… se solo arrivasse adesso. Invece, chissà quanto tempo ancora dovrò attenderlo? Precisione e puntualità sul lavoro credo che siano regole basilari. Ma, nel caso di Giuseppe, è solo una questione di mentalità, per lui l’orologio proprio non esiste. O, meglio, esiste quando gli fa comodo. Vi giuro, quella sua noncurante spensieratezza mi mette un tale nervoso, ma un tale nervoso, che non so cosa sarei capace di fargli in certi momenti! Quel suo modo di farsi scivolare addosso la vita, come se i problemi non lo riguardassero, mi irrita al limite della crisi isterica. Ha sempre la testa da un’altra parte e, oltre a essere un ritardatario cronico, è un chiacchierone incontenibile: un vero stanca cervelli, che ve lo raccomando!
    Hanno un bel dirmi “sei razzista!”. Io non sarei razzista, è lui che è insopportabile! E poi, parla sempre di sé, della moglie e dei quattro figli Giulio, Francesco, Antonio e Marietto, di dove sono stati la domenica passata e dove andranno la prossima. Ti spiega quanto è buona la salsiccia alla brace, che come lui non la fa nessuno, e quanto del suo vino rosso puoi bere senza farti venire il mal di testa. Ti mette al corrente – manco glielo avessi chiesto – di quanto gli piaccia il mare, il pesce (sfoderandone infinite ricette) e quanto ritenga il peperoncino un alimento per pochi eletti. Continua a nominarlo e a citare tutte le sue virtù nutritive, sessuogene e terapeutiche, tanto che quasi-quasi lo metterebbe pure nel caffellatte.
    E urla, urla, urla! Il timbro della sua voce sembra quello di un trapano impazzito, che entra nel cervello e lo sconquassa senza tregua, una serie interminabile di “trick & track” che fanno scempio del mio esausto apparato uditivo! Giuseppe è davvero un iradiddio della nauseante loquacità logorroica, una peste bubbonica del rumore molesto.
    «Ma cosa gridi!?» gli dico io «se nel bar ci siamo soltanto io e te, cosa credi?» gli chiedo cercando di farlo ragionare «che non ti senta?»
    Ma lui, dopo pochi secondi di disorientamento, riprende imperterrito i suoi ridanciani monologhi senza fine. Altro che razzismo, quell’uomo è davvero una tortura! Se non fosse che sono già vecchiariello e che comunque Giuseppe è, incredibilmente, molto simpatico alla clientela del “Bar Maradona”, che tengo a Mergellina, gli avrei già dato il benservito… a ‘sto milanese ‘e mmerda!!!

  49. Sospesa

    Sulle note di un pensiero, scivolo via, disegnando cieli immensi.

    Sono sospesa.
    Come un funambolo che
    Cammina su una corda
    A centinaia di metri da terra.
    Come uno scalatore che
    Scivola indietro perdendo l’equilibrio
    Per poi riprendere a salire, un passo dopo l’altro,verso la cima.
    Sospesa.
    Tuttavia tengo e trattengo il respiro
    Per non scivolare via
    Da questa vita
    che esige ancora
    Un sacrificio in più
    Da cui non puoi sfuggire.

    Antonella Chiego

    Sez A

    Accetto il regolamento

  50. sez. A – Accetto il regolamento
    Titolo: Sardi in continente.

    Qui.
    Da nessun’altra parte
    Il cielo, l’acqua e lo scheletro di un artefatto
    Il giorno in cui non si lavora, si vive
    Le scarpe affondano di fango,
    ballano le gambe sui sassi
    e le suole non aderiscono sull’acqua.
    Abbiamo salutato un cane
    Abbiamo pianto per i pioppi e
    L’argine,
    le nuove isole dentro il fiume,
    i paesaggi dei sogni e i sogni
    e la vita che diviene fantasia.
    Ce ne andremo via da qui
    e piangeremo.
    Andremo via, quotidiano oggi,
    immaginando un posto migliore.
    Non ci adatteremo ad un paesaggio senza montagne e fiumi.
    Non vivremo senza montagne e fiumi.
    Non scapperemo dalla ferrovia che
    fischia sulla nostra testa.
    A meno che
    non ci sia regalato un mare,
    o un oceano.

  51. Il vento dei ricordi

    Ho cercato
    di catturarti in un sogno
    di abbracciarti e sentire il tuo respiro sul mio,
    eri folgore che attraversavi
    come saetta i miei pensieri.

    Nel silenzio della solitudine
    una sera d’autunno
    tra luci e ombre
    ti ho intravista nella nebbia.

    Il vento dei ricordi accarezzò il viso
    Il rimpianto di un addio si fece presenza.

    Seduti su una panchina
    dimenticando il presente per un istante
    le emozioni tra i palpiti del cuore
    si fecero parole senza voce,
    avvolti da una coperta di stelle
    ti abbracciai.

    Rimembrando il passato
    i nostri volti divennero orizzonti
    che si perdono in briciole di destino
    e annegano in una lacrima di nostalgia.

    Salutandoci
    nel velo della notte
    ho inseguito il tuo sorriso
    come il giorno che attende il crepuscolo
    per accarezzare la notte.

    Accetto il regolamento, sez. a
    Michele Bruno

  52. Il tempo di sopravvivere

    Lasciami il tempo di vivere,
    di sopravvivere,
    in questo spazio di vita
    di secoli dispersi,
    di amori che volano sulle righe.
    Dormiente in astri velati
    mi vesto di pensieri pieni di rumore
    senza inganni,
    tacita,
    attendo il tempo che rimane
    mentre l’anima respira
    nei silenzi senza stelle

    Accetto il regolamento sez A

  53. Il dono della memoria

    Una fitta coltre di nebbia
    offusca la vista di entrambi,
    togliendo luce
    al tuo sguardo impaurito
    dalle mie dimenticanze.
    Lacrime che pesano come macigni
    cadono una sopra l’altra,
    portando via tutti i miei ricordi,
    innalzando il muro
    che inevitabilmente ci tiene lontano.
    Ho comprato matite colorate,
    ho rubato scatti ai giorni passati,
    ho cercato parole da scrivere,
    ho creato un dono prezioso
    con la speranza di lasciare
    nel diario della memoria il dono dell’amore.
    Vorrei abbattere quel muro dell’incertezza
    che ogni giorno cancella inesorabilmente
    il dono della conoscenza.
    Consapevole che questo dono mi è stato sottratto,
    lasciando dei vuoti incolmabili,
    cerco di riempirli per non inciampare nei rimpianti,
    ignorando la dura e cruda realtà.
    Non mi nascondo e senza a vergogna
    metto a nudo il mio essere diverso,
    cercando di frantumare quel muro invisibile
    che ci ha tenuto lontane.
    Vedo i tuoi occhi che brillano
    nel buio dei miei pensieri,
    sento nel calore della tua mano
    la forza per andare avanti.
    Scrivo la vita del presente
    con la speranza che un giorno
    questo male che distrugge le sinapsi
    che legano il sapere venga
    definitivamente sconfitto,
    senza creare false speranze.
    Nonostante tutto è sempre un dono
    anche una vita senza memoria.
    Teresa Argiolas sezione A
    accetto il regolamento

  54. 2024
    Un anno se ne va,
    pieno di piccole noie e di troppo tedio
    La voce poetica ha stentato a farsi sentire
    L’orecchio, in difficoltà, si è teso nell’ascolto
    Un sogno nella veglia mi coglie, mi siedo sul greto di un fiume,
    le membra stanche, cedono
    In attesa, sto, placata dall’ansia
    Il mio pensiero vola e va a voi che mi avete lasciato
    So che siete una schiera di spiriti inquieti e che tifate per me
    A voi, per primi, il mio augurio di ogni bene
    Sappiate che ho sempre bisogno di voi, bacio

    Chiara Sardelli
    Accetto il regolamento
    Sezione A

  55. PUFFING BILLY

    Col treno turistico Puffing Billy, si va su quella piccola montagna sul monte Dandenong, che fa divertire tanto i bambini con tanti giochi, splendidi animali e giardini bellissimi, che racchiudono tante rare bellezze della nostra stupenda città di Melbourne.
    Puffing Billy, è il nome di una ferrovia e locomotica a vapore, un trenino che è stato commissionato nel 1813. Oggi è la più antica locomotiva a vapore del mondo che va a carbone.
    È l’attrazione principale, per trascorrere un giorno fuori dalla città di Melbourne, i bambini possono viaggiare sul treno dondolando le gambe penzoloni fuori, e ammirare i meravigliosi boschi, mentre il trenino corre sbuffando, è un divertimento vecchio stile per tutta la famiglia, con un picnic a sacco sul monte Dandenong, con bellissimi alberi e vegetazione lussureggiante.
    Puffing Billy è stato costruito al volgere del secolo, ed è una vera e propria reliquia delle giornate più piacevoli per una gita. La ferrovia è il principale superstite di quattro linee sperimentali utilizzati per lo sviluppo delle zone rurali nei primi anni del 1900. Allora poca gente c’era a Melbourne, ora sono 25 milioni gli abitanti di tutta l’Australia.
    Puffing Billy Railway è ormai una grande attrazione turistica e opera tutti i giorni tranne il giorno di Natale, grazie agli sforzi instancabili di oltre 900 volontari.
    Dalla stazione di Belgrave a Likeside, Emerald Like, è il luogo perfetto per una giornata di divertimento speciale per tutti, ci sono anche barche a remi per trastullarsi nelle acque del lago.
    I bambini si divertono tra le giostre e tanti altri giochi e sport, creati apposta per loro, ci sono tantissimi animali che, come negli zoo, giocano coi bambini, specialmenti canguri, koala , emu, scimmie, ecc. ecc. Gli adulti possono raccogliere le more, cercando di non pungersi tra tutti quei rovi, che danno quei piccoli deliziosi frutti, tanto prelibati. Si possono avere le borse piene di more e mirtilli e portarseli a casa, ma tante si possono mangiare lì con tanto entusiasmo e allegria.
    Questo treno a vapore centenario, è ancora in esecuzione sulla sua traccia originale, è una piccola montagna da Belgrave a Gembrook, nello splendido scenario delle Dandenong Ranges ed è una vera e propria reliquia per trascorrere giorni piacevoli e divertenti, soprattutto per i bambini…
    C’è anche un treno sul Puffing Billy, in cui si fanno cena e danze per festeggiare anniversari, compleanni ecc. un’esperienza piacevole se condiviso con gli amici, cibo ottimo, servizio eccellente, locale confortevole di specie rustica, intrattenimento bellissimo e naturalmente, il treno, è il vero clou, un modo altamente raccomandato per trascorrere serate di feste organizzate per un divertimento assicurato, fuori dal baccano della città.

    sez. b, accetto il regolamento

  56. Accetto il regolamento
    Sezione A

    Vite in sospeso.

    Il messaggio arriva
    Il cellulare squilla

    Minacce Leggi
    Sui tuoi amori e la vita tua

    L’orgoglio del possesso
    Genera Atti violenti

    Minacce poi nascoste
    Da lui devi tornare o di nessuno essere

    Seguita sei In strada
    Osservata, tallonata bloccata

    Ogni passo alle tue spalle
    Ferma il tuo cuore

    Soffia l’aria del pericolo
    Avvolge il tuo corpo ti soffoca

    Parole dolci e pesanti
    Con speranza di tregua pentimento aiuto

    Atto di comprensione
    Di un idillio Da lui ucciso

    errato amore
    errato comportamento

    Promesse mai mantenute
    Bugie, anomali comportamenti.

    Il possesso Prevale su tutto
    L’orgoglio sente ferito

    Atti vandalici
    Minacce sempre più pesanti

    Forte si sente
    Nel diritto di farlo

    Il messaggio ti manda
    capire devi Che lui è la forza

    Tu sei sua
    nessun altro potrà averti

    Ogni tuo amore
    Distruggerà

    con le peggiori pene
    La vita ti toglierà

  57. FORSE DIMENTICATA

    Ti ricordo a cogliere
    conchiglie e madreperle,

    tra un ombrellino viola
    Inclinato sulla spiaggia
    che ancora sa di pioggia

    e il rotolar dei sassi sulla riva,

    Mentre il vento allunga le onde
    alza la spuma,
    rovescia nel cielo terso di Toscana
    il disordine nero dei tuoi capelli.

    Ma son passati gli anni,
    dipinto ti han la choma:
    ed ora è bianca e luminosa come la luna

    e come il tempo corta.

    Ma sulla nuca, tenace, una striscia scura,
    forse dimenticata.

    (sezione A…uguri di Buon 2025!)
    accetto il regolamento

  58. SEZIONE A
    Accetto il regolamento

    LA BEFANA

    Scende lenta la Befana,
    con il sacco dei regali,
    destinati ai più buoni.

    Porta libri e molti palloni,
    pure bici, scarponi…
    e tanti altri fantastici doni.

    Ai bambini porta amore,
    dolci e tanta tanta gioia.

    E, passata ormai la notte,
    in cielo torna ormai leggera!

    Franco Maccioni

  59. SEZIONE B
    Accetto il regolamento

    RICORDI E AMICIZIE

    Era una calda domenica d’agosto. Francesco non sapeva proprio cosa fare. Restare a casa per terminare la relazione di un piccolo progetto che aveva iniziato qualche giorno prima, oppure farsi un bel giro per il paese! D’altronde il lavoro che doveva finire poteva aspettare. Era un fine settimana, libero da impegni d’ufficio e quindi meritava un giusto riposo e un po’ di svago. Decise. Inforcò la bici che teneva sotto una piccola tettoia dietro casa e di scatto, forse imitando qualche celebre corridore, si diresse verso l’uscita fischiettando e pedalando con lena. Aveva lasciato dal meccanico la sua macchina, una vecchia 500/R del 1972, per un guasto al carburatore e per altri piccoli ma necessari controlli.
    ‐ Roba da niente ‐ disse il suo meccanico ‐ vedrai che la macchina ti farà percorrere altri 100.000 chilometri.
    Certamente Luigi scherzava. Di chilometri la macchina ne aveva fatti almeno 300.000. Tutti in paese lo chiamavano Luigi anche se il suo vero nome era alquanto strano; si chiamava Hermes. Non piaceva neppure a lui questo nome, ma era il suo e certo non poteva cambiarlo, pur volendolo diverso. Con Luigi, Francesco aveva fatto il soldato; il CAR a Pistoia. Il servizio durò circa un mese. Poi furono divisi. Francesco fu mandato a Padova dove fu assegnato all’Ufficio Maggiorità presso il XXXII Reggimento Fanteria ‐ Caserma “Pierobon” a Padova , mentre Luigi fu mandato a Roma presso l’Ospedale Militare “Celio”. Non si erano più rivisti. Un giorno di circa 10 anni fa, Francesco rientrava da Roma per lavoro. Era stanco e accaldato. Quell’anno il mese d’Agosto prometteva bene; la colonnina di mercurio era salita a ben 36°. Così prima di salire a casa entrò al bar “Nicolino”.
    ‐ Ma, ma… tu sei Luigi ‐ disse Francesco con un’espressione sorpresa e con voce calma, con la tazzina del caffè bloccata vicino alle labbra.
    ‐ Sì ‐ gli rispose ‐ Hermes Campus è il mio nome e cognome… diciamo che sono Luigi Campus.
    Ci fu un lungo e commosso abbraccio. Non credeva ai suoi occhi. La sorpresa era grande che rimase per un attimo come impietrito!
    ‐ Ricordi ‐ continuò Francesco riprendendosi ‐ il servizio militare iniziato a Pistoia nel periodo dell’alluvione di Firenze? Spesso sempre svegli e di turno per portare aiuto alla popolazione!
    ‐ Certo, lo ricordo molto bene ‐ gli rispose, anche lui felice della sorpresa.
    Ma si vedeva che era piacevolmente contento. Era un’amicizia nata al CAR, nella vita militare. Uscivano spesso e si divertivano pure insieme.
    ‐ Che fai adesso Luigi? ‐ gli domandò tutto d’un fiato.
    Voleva sentirlo parlare. La sua voce era potente e squillante. Forse doveva fare il cantante d’Opera. Qualche volta s’intrattenevano, in camerata, con altri commilitoni, cantando canzoni liriche e canzonette napoletane.
    L’officina meccanica, lasciatagli da un lontano parente, era diventata fonte di reddito. Il lavoro andava bene e spesso si vedevano e organizzavamo delle feste. Frattanto Luigi aveva stretto amicizia con un altro paesano, un certo Flavio, grande amico anche di Francesco. Questo giovane aveva lavorato per parecchio tempo all’estero, in Germania e Inghilterra , come cuoco.
    Poi, rientrato in paese cercava una sistemazione definitiva con una propria attività senza dipendere da nessuno. Era disposto, si diceva, a cercare un socio. L’amicizia con Flavio quindi poteva essere provvidenziale , anche perché oltre all’officina Luigi possedeva una grande costruzione in campagna. Era un luogo meraviglioso, pieno d’ alberi secolari e distese di macchia mediterranea e tutto il paesaggio intorno era un inno alla natura. Il fiume vicino completava l’opera proprio come un angolo di paradiso. Il sogno dei due giovani era di mettere su un Agriturismo e senz’altro sarebbero riusciti nel loro intento forti della loro voglia di lavorare. Luigi si trovava in una situazione più facile e sicura, anche perché il reddito di lavoro dell’officina gli dava la possibilità di iniziare la ristrutturazione già da subito. Inoltre le rispettive fidanzate erano molto amiche e queste amicizie tornavano utili per il loro futuro da imprenditori. Anche loro aiutavano i rispettivi uomini in tutte quelle attività cui si richiede l’intuito femminile e una certa grazia anche nell’arredamento. Così , dopo un anno d’intenso lavoro, cercando di mettere da parte tutto il possibile, il sogno di questi amici finalmente si realizzò. Avevano completato l’Agriturismo “De sos cantaros ”. L’avevano chiamato così forse perché tutto intorno era ricco di ruscelli e ruscelletti. Sembrava un sogno che questo meraviglioso angolo di paradiso potesse tornare a vivere. Era sempre pieno di turisti provenienti da ogni parte del mondo. Molti s’intrattenevano a pranzo altri invece pernottavano per giorni e giorni. La vita all’aria aperta era un toccasana contro certe malattie ed era favorevole anche per lo spirito. Francesco andava spesso a far loro visita, trattenendosi qualche volta a pranzo. Una cosa era certa, avevano vinto anche sulla diffidenza e l’indifferenza di tanti in paese. I paesani non credevano che sarebbero riusciti così serenamente e tranquillamente a portare avanti il loro progetto. Sono passati parecchi anni dall’inizio di quell’attività. Tra l’altro ha dato loro la possibilità di mandare avanti una famiglia, crescere dei figli e dare la certezza ad altre persone di lavorare. Nell’agriturismo lavorano circa venti giovani tra ragazzi e ragazze tutte residenti nel paese. Diciamo che si sono realizzati. Certamente il sacrificio stava dando i suoi frutti. Francesco incontra spesso Luigi e Flavio insieme, qualche volta in paese, quando scendono per fare acquisti particolari o ritirare della merce urgente. Si prendono il caffè al bar “Nicolino” e tra una sigaretta e l’altra parlano del lavoro. L’officina ormai Luigi l’ha lasciata ad un cugino suo ex dipendente. Un giorno, Francesco, mentre ritorna a casa gli si avvicinò Luigi di corsa per ripararsi dalla pioggia sotto il suo grande ombrello, dicendo:
    ‐ Beh, il carburatore della tua macchina va sempre bene?
    ‐ Mah, spero di sì ‐ rispose Francesco ‐ anche perché non ho più notizie di quella macchina. Ora ne ho un’altra, un Diesel 1700. E’ una Opel Corsa e va benissimo, figurati …l’ho ritirata ieri!

  60. Cammino
    sul canale di Milano…

    Affanno…

    Sempre a rincorrere questa vita,
    cercare parole,
    cercare ricordi…
    Una signora anziana,
    un uomo che spaccia dépliant,
    un bambino in bicicletta…

    Affanno…

    Mi fermo dove fumava Alda,
    dove cercava parole…

    Questa vita…

    Un sorriso,
    un saluto
    Francesco dalle cuffie
    e il cielo grigio
    mentre cerco parole
    e ricordi
    qui,
    sul canale di Milano…

    01/10/2020 h.11,45
    Milano, Naviglio.

    Accetto regolamento
    sezione A

  61. Silenziosamente.

    M’assopisco tra scheletri
    di rami recisi
    dalla furia di quel tempo
    che mai mi fu amico.
    Solitaria l’anima
    vaga tra le nebulose essenze
    d’erbe aromatiche
    che nell’essenzialità
    della vita
    riportano a galla
    rimembranze lontane
    che s’odono tra le nebbie
    infinite del cammino.
    Fitti sussurri
    ridestatisi dall’oltretomba
    riportano alla vita
    la solitudine dell’esistere.

    sez. a accetto il regolamento

  62. Pensieri d’autunno
    Scarpe vecchie
    che ricordate strade percorse
    e immagini sfuocate
    dal tempo,
    fate emergere dolci ricordi
    nascosti nell’animo ,
    quasi a custodirne
    gelosamente l’amore .
    Il cervello infuocato
    è oggi alleviato dalle gioie
    che la vita mi ha regalato,
    ma talvolta rivedo i suoi occhi
    stanchi e confusi
    quasi a voler chiedere
    l’abbraccio che non c’è stato.
    Rimane solo un ricordo,
    offuscato dal tempo,
    dolce e rabbioso,
    per l’affetto celato
    dagli ignoti misteri del cuore.

    Sezione A accetto il regolamento

  63. Al fiume

    Tanto tempo fa
    le donne andavano
    al fiume a lavare i panni.

    Tessuti con le loro mani
    con gesti antichi,
    come l’avevano fatto
    le loro madri
    e le madri delle loro madri,
    fino all’alba dei tempi.

    Tessuti in lunghe ore
    passate al telaio.

    Intessuti con i loro sogni
    di un lieto futuro felice.

    Tra una chiacchierata
    una cantata,
    una risata,
    le donne lavavano via
    lo sporco dei loro panni.

    Lo stendevano
    Sugli oleandri in fiore
    Lungo il letto del fiume.

    Affidavano il bucato
    Al sole,
    Al vento che lo accarezzava
    Dolcemente

    Antonio Pittau
    Accetto il regolamento, sez. a

  64. Maricà
    Sez A- Accetto il regolamento

    LA’ DOVE CAPODANNO GIACE
    Sfavillano nel cielo ancora
    a milioni le luci colorate,
    appese a ogni punta
    di luna e di stelle
    e sulla coda di mille comete,
    su angoli di nuvole a spasso
    in queste notti ruffiane,
    dove i fumi di fuochi di festa
    e di assordanti cannoni
    spengono lentamente i lumi
    e fanno del firmamento cenere
    di una rigogliosa foresta,
    nel riso di bimbi felici
    tra mura calde e sicure
    e nel pianto di bimbi traditi
    da losche e assassine figure,
    erte su alti scranni
    a sentenziare chi vive
    e chi dovrà morire,
    e poi come niente brindare
    e stringersi le mani grondanti
    del sangue di figli e fratelli,
    seduti a firmare una pace
    di ipocrisie e menzogne
    da amici di discordia e di profitti,
    e raccontarla sulle tombe
    dove ogni speranza giace.

  65. Maricà
    Sez B- Accetto il regolamento

    ENRICO
    Si siede sulla panchina in pietra, di quelle orrendamente scomode che, a inganno della memoria, ti ribaltano all’indietro perché pensi ci sia lo schienale. Leggermente appoggiato sul bastone, solleva la testa e lancia un sospiro al cielo, come a volerne richiamare l’attenzione su di sé. E’ un vecchio sugli ottant’anni, così almeno sembrano dirmi le profonde rughe sul viso e sulle mani.
    Io sto seduta un po’ più in là al suo fianco. Dopo la sbirciatina, riprendo a leggere. Noncurante della mia presenza inizia a parlare:
    -Ciao, Enrico, come stai? È una bella domenica oggi, sarà piacevole stare un po’ qua all’aperto. Che programmi hai? Ah! ben fatto, oggi un po’ di mare e pesca subacquea, non ti smentisci mai! Tua madre sarà felice se le porti qualche sarago, ma stai attento, sai come si preoccupa lei, sempre in ansia!
    Lo guardo incuriosita, non ha cellulare, non ha auricolari:
    -Scusi, signore, con chi sta parlando?
    -Con il mio amico Enrico, ha sempre tante cose da raccontarmi. Non sono matto, stia tranquilla.
    -Ma nemmeno lo pensavo, si figuri! (distolgo gli occhi! mezza bugia!)
    -Io, lo vedi, sono vecchio, Enrico, faccio qualche passeggiata, un po’ di sole, due chiacchiere con te e qualche piccione… che altro vuoi che faccia, ormai? C’è una novità oggi, una ragazza seduta qui a fianco mi ha appena rivolto la parola senza prendermi per matto. Sembra simpatica.
    Lo guardo di sottecchi, Siddartha può aspettare, tanto sarà ormai la decima volta che lo leggo. Fingendo concentrazione sul libro, ascolto.
    -Dai, adesso raccontami ancora, stasera che farai? Ahh.. birba, festeggi l’anniversario con Margherita, lo so, sei sempre pazzo di lei! La porti a cena? Bravo, state proprio bene insieme! Senti, fammi un favore, raccontami di nuovo di quando l’hai incontrata la prima volta, stava seduta al bar sorseggiando un caffè, entrasti inciampando sul gradino e lei ti guardò nascondendo una risatina con la mano. Vero? – e sorride- Si, aveva dei capelli fantastici, lunghi e luccicanti al sole, e due occhi che ti bucavano l’anima. Balbettasti a malapena un ‘ciao’ strozzato, lei ti sorrise e se ne andò. Ma tu non ti desti per vinto, la seguisti e la stessa sera ti presentasti sfacciatamente alla sua porta con due lattine di birra in mano, e lei ti disse “Belle queste rose!”, e scoppiò a ridere. E così divenne la mamma delle tue bambine, Adele e Serafina, che gioielli! E le vacanze a Parigi? Gita universitaria, dicesti a tua madre, e lei, in silenzio, fece finta di crederti. Che gran donna anche lei! Peccato non esserci più andato, è bella, magica, intrigante Parigi! Almeno, allora lo era, oggi non saprei, ma la magia non si perde mai, a dispetto di tutto e di tutti. E nemmeno l’hai finita l’Università, che delusione hai dato ai tuoi, quanti sacrifici il povero babbo, ti voleva scienziato, ma tu avevi deciso che volevi un Bar, fulminato dal ricordo dell’incontro con Margherita, e nulla ti fece cambiare idea-
    Da dietro, fra gli alberi arriva una brezza piacevole e leggera, la piazza è quella principale, al centro della città, con la sua bizzarra fontana in pietra a testa d’uomo che schizza acqua dalle narici: forse lo scultore si era preso gioco del Sindaco. Sorrido, e intanto il frastuono delle auto e di qualche bambino che gioca fanno sfumare ogni tanto qualche parola del vecchio.
    -Eri testardo, sin da piccolo, se prendevi una decisione non c’era verso di farti cambiare idea, come quando d’improvviso lasciasti il calcio, dove per tutti eri una vera promessa, ti eri stancato e volevi vivere, dicesti, non essere legato a orari e impegni rigidi, del resto avevi 15 anni… come si poteva darti torto? Della gloria non t’importava nulla, ma forse, valutasti male il fattore denaro…
    Sorride, si ferma un attimo e riprende.
    -Ora il Bar ce l’ha tuo nipote, il figlio di Serafina, testa matta come te, però mi piace come lo ha trasformato, un bel ritrovo per gente che ha ancora voglia di parlare e di sognare, una sorta di Caffè politico alternativo con serate di musica e lettura, ma anche allegria e leggerezza. Qualche volta ci passo, mi piace ascoltare la gioventù, riscalda il mio inverno-
    Solleva la testa e guarda il cielo.
    -Mia cara signorina, si è fatto tardi e devo andare. Anche Enrico la saluta.
    -No, aspetti, per favore. Mi dica chi è Enrico. Un amico, un collega, un fratello, un figlio? E tornerà domani?
    -Enrico è l’amico più caro che ho, gliel’ho detto, non mi abbandonerà mai e mi racconta sempre tante storie, alcune che nemmeno più ricordavo, ed io non mi sento più solo, da quando è morta mia moglie. Domani? Si, se sarà una bella giornata come questa ci sarò.
    -Ma perché io non posso conoscere Enrico?
    -Sei troppo giovane ancora, lui però, se non avesse conosciuto Margherita, avrebbe avuto sicuramente piacere di conoscerti. Aspetta quando sarai vecchia come me, ti sorprenderai a sentirti raccontare tante storie che ti faranno compagnia. Come ti chiami, ragazza?
    -Giulia, e tu… lui…siete, lui è Enrico, tu, la tua giovinezza!
    Sorride. Sorrido.
    -A domani, Giulia-
    -A domani, Enrico
    Siddartha, intanto, sfoglia le pagine al vento, mentre percorre i suoi sentieri alla ricerca di sé.

  66. Antonella Colonna Vilasi
    Sez. A – accetto il regolamento

    Affacciata alla finestra un raggio di sole mi attraversa, e saluto la vita.

    Il profumo degli alberi e la rugiada, mi immergo nel tempo senza tempo.

  67. Sezione B
    IL PLETTRO DI NATALE

    La serranda è abbassata. Mi guardo intorno in cerca di risposte, un po’ frastornata. Entro nel bar affianco per avere informazioni e mi rispondono che il negozio è chiuso da qualche mese. Il proprietario è morto, dicono solamente, senza alcun interesse, senza aggiungere altro. Esco e guardo le lucine di Natale dei negozi che brillano nel buio, ma che non riescono ad attenuare il mio dispiacere.
    UN ANNO FA …
    È quasi buio e fa freddo. È quell’ora che ti invoglia solo a rimanere in casa, a rimandare qualsiasi cosa a domani. Devo comprare le corde della chitarra. Mi infilo il cappotto e vinco la pigrizia. Ogni volta faccio fatica a capire se quel negozietto è aperto. È poco illuminato. L’insegna raffigurante una chiave di violino, con la scritta “Solo Musica”, è vecchia, scrostata e desolatamente spenta. Entro. La luce è fioca, l’aria polverosa ed opaca mi avvolge subito e il tintinnio della campanella posta sopra alla vecchia porta a vetri mi accompagna fino al bancone, in fondo al negozio. Bisogna attraversare un cunicolo ingombro di chitarre, tastiere, violini, sassofoni, pile di libri di musica e spartiti. Devo stare attenta a non travolgere qualcosa al mio passaggio. Tutto sembra in bilico, incline a cadere da un momento all’altro. Sembra che basti un solo sospiro per perdere questa scommessa sulla stabilità delle cose. C’è sempre lui, Saverio, che mi accoglie con un accenno di sorriso: un uomo senza età, dal viso apparentemente sereno, ma si percepisce che non ha più illusioni né ambizioni. È un musicista, un pianista, con un passato illustre. Ogni volta mi racconta un pezzo della sua vita e i bagliori di quegli anni fortunati illuminano ancora i suoi occhi. Ci conosciamo da diverso tempo, da quando ho avuto l’ardire di iniziare a suonare la chitarra e poi il pianoforte.
    Trascorriamo qualche ora all’anno parlando di musica, sfogliando libri e spartiti. Vado sempre a trovarlo in questo periodo natalizio, anche per fargli gli auguri, glielo devo e lo faccio con piacere. È lui che mi ha invogliata a continuare, anche quando ero delusa dai miei progressi, perché “i sogni non hanno età.” Oggi mi racconta di un Capodanno, trascorso a Montecarlo, all’inizio della sua carriera, come pianista in un’orchestra, in un prestigioso Hotel. Mi dice “non era il mio sogno, ma in qualche modo dovevo pur campare.”
    Abbozza un sorriso e continua:
    “Guarda che fisicamente ero diverso. Non che fossi bello, ma compensavo con la simpatia e il buonumore. La mia altezza però mi ha penalizzato, sia nella vita che nello spirito.”
    Non so cosa dire. Lo osservo, effettivamente mi arriva alle spalle. Ha i capelli radi e porta un paio di occhiali dalla forma tondeggiante, con la montatura dorata, che rendono il viso ancora più tondo. Indossa dei pantaloni di velluto marrone a costine e un maglione grigio scuro, un po’ infeltrito. Ho l’impressione che non abbia una moglie, o quantomeno una donna che lo accudisca. Quando entra qualche cliente mi fa un cenno con mano, come a dire aspetta, continuiamo dopo. Non sembra neanche molto interessato alla vendita. Non ci mette entusiasmo. Credo sia stanco. Forse il Natale, per qualche motivo, lo intristisce.
    “Portavo il frac e questo mi faceva sentire bene, mi regalava un’aria diversa. Quella notte conobbi Edith, la cantante, una donna meravigliosa. Indossava un vestito lungo rosso che evidenziava il suo corpo esile e i capelli biondi raccolti in uno chignon le conferivano un’aria principesca. Era piccola, più bassa di me, per fortuna! Se chiudo gli occhi sento ancora la sua voce suadente, dondolante … aveva uno swing!”
    Sorrido e maliziosamente gli dico
    “Eh sì, mi sa che aveva un certo Swing!”
    Riesco a farlo ridere. Non l’ho mai visto lasciarsi andare in una risata. Continua:
    “Siamo stati insieme tutto il periodo di Capodanno. È un bel ricordo.”
    Ci sono tanti silenzi, ma non mi sento più in imbarazzo. Mi permetto di chiedergli di più.
    “E poi, cosa è successo?”
    “Ci siamo incontrati ancora. Quando potevo, andavo a trovarla a Mentone, lei abitava lì, con la mamma. Nel frattempo frequentavo anche un corso di francese, anche se lei parlava italiano. Dopo quasi un anno, in un fine settimana di ottobre, mi ha chiesto di stabilirmi da lei. Ho tergiversato per un po’ e le ho chiesto di venire lei a Milano. Io avevo già la mia attività. Mi chiamavano per suonare nei concerti, nei teatri, componevo pezzi che mi ordinavano, avevo anche aperto un’accademia musicale. Non me la sono sentita di lasciare tutto. E lei neanche. Tutto qui.”
    Rimane in silenzio spostando, senza motivo, tutto ciò c’è sul bancone. Avverto che la malinconia sta prendendo il sopravvento, lo sta portando in un’altra dimensione. Ci sorprende il tintinnio della campanella d’ingresso. Entra una signora che chiede informazioni per l’acquisto di una chitarra che vuole regalare per Natale alla ragazzina che tiene per mano. Saverio garbatamente la invita a ripassare la mattina seguente, poiché impegnato con me per la vendita di un pianoforte. Non oso dire niente. Si sente di nuovo la campanella e noi ripiombiamo nel silenzio. Saverio continua con voce bassa:
    “Ci siamo lasciati. Siamo rimasti amici. Lei non si è mai sposata e neanche io. È andata così.”
    Non resisto alla tentazione e gli chiedo:
    “Vi sentite ancora?”
    Mi risponde guardandomi negli occhi:
    “Il rimpianto è un’emozione lacerante che ti accompagna tutta la vita. Si assopisce per un po’ poi, quando meno te lo aspetti, riaffiora con prepotenza. Ti poni le stesse domande anche se sai che non potrai mai dare una risposta. È morta tre anni fa. Ogni tanto vado a trovarla nel cimitero di Mentone, lassù dove vedi il mare. Le porto sempre delle rose rosse, come il suo vestito.”
    “Mi dispiace.” rispondo con un nodo alla gola.
    Cerco di non commuovermi, ma sento il cuore gonfio e per distrarmi prendo in mano delle riviste di musica.
    Mi dice:
    “Vieni, ti faccio ascoltare un pezzo. Sei la prima persona, anzi rimarrai l’unica.”
    Lo seguo nel retro bottega, un’ampia stanza con una grande vecchia porta finestra a vetri con riquadri in stagno, dalla quale si intravede un cortile interno con alberi ormai spogli, adornati da ghirlande natalizie e qualche lucina. Le pareti sono interamente coperte da librerie in legno scuro. In un angolo c’è un piccolo scrittoio e una poltrona verde dal tessuto consumato. In mezzo un pianoforte a coda. Saverio incomincia a rovistare ovunque. Ogni tanto lo sento dire, tra sé e sé, “eppure dovrebbe essere qui.” Non so cosa dire e aspetto. Mi indica la poltrona farfugliando
    “Siediti ora lo trovo, lo devo trovare.”
    “Cosa devi trovare Saverio?”
    “Uno spartito che non suono da tanto tempo. Intanto guarda tra quelli impilati sulla scrivania.” “Cosa devo cercare?”
    “Si intitola Edith, naturalmente.”
    C’è una pila di quaderni di musica perfettamente scritti a mano e naturalmente a matita. Tanti fogli sparsi con annotazioni sui bordi.
    Le chiavi di violino sono perfette, le note sembrano danzare nel pentagramma.
    Sono bellissimi, sembra quasi di sentire la musica. Sfoglio delicatamente ogni spartito cercando di mantenere l’ordine di quell’ archivio dimenticato e improvvisamente vedo il titolo e con voce emozionata dico:
    “Saverio l’ho trovato.”
    Viene subito verso di me dicendo:
    “Lo sapevo, è sempre rimasto qui.”
    Si siede al pianoforte e io sto in piedi vicino a lui. Rimane qualche istante immobile e poi le mani incominciano ad accarezzare i tasti e la musica mi commuove. La melodia è bellissima ma quello che mi emoziona è il suo viso che ha assunto un’aria diversa. Le dita sono leggere e corrono esperte sui tasti, solo quasi a sfiorarli. Le ultime note si spengono e ritorna il silenzio. Saverio si gira verso di me porgendomi il foglio e con voce ferma mi dice:
    “È tuo, non lo suonerò mai più.”
    Io rimango immobile non sapendo come dirgli “non lo voglio, non lo posso accettare!” Lui capisce il mio imbarazzo, prende lo spartito lo infila in una busta e me lo porge. Ci abbracciamo spontaneamente per la prima volta.
    “A proposito di cosa avevi bisogno?”
    “Sto cercando un libro di spartiti e testi per chitarra, di vecchie canzoni. Lo voglio regalare ad un amico che non ha più voglia di suonare. Eppure, per quanto ne so, deve essere bravo. Penso che sia un privilegio prendere in mano una chitarra e sapere come sfiorare le corde, eseguire una melodia, ricordare una canzone, creare l’atmosfera. Spero un giorno di esserne capace anch’io.”
    “Emma diventerai brava, ne sono sicuro. Al di là del talento e dell’impegno, ci vuole anche cuore.”
    Saverio mi porge un libro dal titolo Mille Note, cantautori italiani e stranieri. Più di mille canzoni con testi e accordi per chitarra. Le pagine sono ingiallite. Non viene riportato neanche l’anno di stampa.
    Apro a caso
    A modo mio di Baglioni. Leggo un verso di questa canzone
    “…Ho paura io, e chissà se ci riuscirò a dirti che ti amo, a modo mio…”
    Quanti artisti ci hanno regalato pensieri, emozioni e riflessioni. È il regalo perfetto. Saluto il mio amico ringraziandolo, ma lui mi ferma e mi trattiene per un braccio. Rimango un attimo sorpresa. Non si è mai permesso una parola o un gesto in più. Apre un cassetto e appoggia sul bancone una scatola piena zeppa di plettri, di tutti i colori e mi dice:
    “Scegli tre plettri, è il mio regalo di Natale. Anzi, li scelgo io. Questo azzurro, perché rispecchia la tua serenità, questo verde, come i tuoi occhi e questo blu punteggiato di brillantini che ti farà pensare ad un cielo stellato.”
    “Buon Natale Emma.”
    “Buon Natale Saverio.”
    Sono emozionata. Non mi aspettavo niente di tutto ciò, niente di così intimo. Lo ringrazio per questo gesto, al quale non puoi dare un valore. Ci abbracciamo ancora. Esco dal negozio e respiro una piacevole aria fredda che mi distoglie da questa emozione. Guardo in alto e vedo un cielo blu, punteggiato da tante brillanti note, proprio come il plettro, proprio come lo spartito del mio amico.

    accetto il regolamento sez. b

  68. Supermen

    Elena stava lavorando nel suo studio con un occhio sul PC e con l’altro su Gabriele che giocava lì accanto.
    «Mamma lo sai che ti voglio bene?»
    «Anche io tantissimo.»
    «Mamma, quando andiamo dalla nonna?»
    Lei picchiettava sulla tastiera come non ci fosse un domani. Stava terminando la tesi.
    «Appena finisco qui, non adesso.»
    Era assorta nella stesura, non doveva commettere errori.
    Da lontano sente di nuovo la voce di Gabriele.
    «Mamma vieni?»
    «Gabri, ancora un attimo, poi la mamma arriva.»
    «Da qui si vedono bene le montagne dove abita la nonna. Allora ci vado da solo.»
    La donna si stacca dal computer, corre a piedi scalzi fino ad arrivare in sala,.
    Aveva lasciato la finestra aperta, appena sotto c’era uno sgabello.
    «Gabrieleeeeee no!»

    accetto il regolamento, sez. b

  69. La pelle che non mente
    Bar Latteria Fiordilatte. La raffica di caffè delle otto. Sul corpo, sulla faccia, sulle mani la malattia modellava bolle. Mani che sfilavano sul banco come modelle orripilanti. E le facce rigide dei clienti. E gli sguardi fissi. Attraverso le mani introducevo nelle tazze virus letali. Anche la padrona ne era convinta. E le critiche si facevano pesanti. Devi essere più svelta, sembri una mummia imbalsamata. E metti un sorriso su quella faccia! E pensa ai clienti, cosa diranno i clienti? Cambieranno bar ci puoi scommettere. Il licenziamento fu inevitabile e iniziò la ricerca forsennata di un nuovo lavoro.
    Un giorno Paola mi disse che su una vetrina di un negozio di abbigliamento, vicino a casa sua, c’era un biglietto con scritto: cercasi apprendista commessa. Che bello lavorare in mezzo ai vestiti! Fare le vetrine poi, solleticava il mio senso estetico. Così decisi di provarci e un pomeriggio d’estate, vestita con pantaloni, camicia a maniche lunghe e uno strato di trucco sulla faccia, varcai la soglia del negozio. E che negozio! L’arredamento era classico e un enorme lampadario di cristallo incombeva sulle teste. Da dietro un antico tavolo si mosse una signora e mi venne incontro. I capelli vaporosi erano a strisce bianche e nere e un abito scuro le sfiorava le caviglie.
    “Desidera?”
    La bocca era quella di una zebra che si sforzava di sorridere.
    “Ecco…ho visto il cartello fuori e …”
    “Ma certo” e intanto mi fiutava dalla testa ai piedi come un cane antidroga in aeroporto. “Esperienze lavorative?”
    “Sì, commessa in un bar latteria”.
    Gli occhi s’erano fermati sulla faccia, le mani le avevo nascoste dietro la schiena.
    “Mi scusi se le faccio una domanda, ma…quei foruncoli…. si tratta di orticaria vero?”
    Il sudore rischiava di sciogliere la mia faccia di cera.
    “No signora, è una malattia genetica, ma non è infettiva glielo assicuro”
    Gli occhi della zebra ruotavano.
    “Vede signorina, il nostro è un negozio particolare, abbiamo abiti firmati e la clientela è di un certo tipo. Capisce vero?”. Aveva preso fiato. “Perciò la bella presenza è fondamentale. Mi spiace”.
    La rabbia mi era salita dallo stomaco, su fino alla testa. In un attimo ero in strada, il passo veloce come quello di un ladro che scappa col bottino.
    Ormai ero un naufrago in mezzo alla tempesta e stavo annegando, ma un giorno papà mi lanciò un salvagente ed approdai da madame Sophie: di lì a poco ero diventata la sua cameriera personale. Delle mie bolle a lei non fregava niente però, quando servivo il thè alle sue amiche, le mie mani dovevano sparire, ibernate in pesanti guanti bianchi che nemmeno l’estate poteva sciogliere…
    Sez.B accetto il regolamento

  70. Annalisa Atzeni
    Sezione B accetto il regolamento
    Il dialogo tra Cabudanni e Capodanno

    Un giorno, nel silenzio di una notte senza tempo, Cabudanni e Capodanno si incontrarono. Cabudanni, avvolto in un mantello di spighe dorate e profumi di terra bagnata, guardava con occhi antichi il giovane Capodanno, che brillava di luci artificiali e tintinnava di bottiglie di vetro.

    «Chi sei tu?» chiese Capodanno, curioso di quell’ombra che sembrava respirare la saggezza del mondo.

    «Io sono Cabudanni,» rispose l’anziano, «e porto con me il ricordo di un tempo in cui gli uomini dialogavano con la terra, rispettandola e celebrandola. Un tempo in cui il nuovo anno non era scandito da fuochi d’artificio, ma dal raccolto del grano e dal canto del vento tra le colline.»

    Capodanno si sedette accanto a lui, affascinato. «Raccontami di quel tempo. Voglio capire.»

    Cabudanni sorrise, accarezzando una spiga che teneva in mano. «Allora ascolta. Quando il grano migliore veniva raccolto, si metteva in ammollo il 31di agosto, la nostra antica soglia dell’anno. Il giorno dopo, le famiglie si riunivano per cuocerlo insieme in grandi pentole, trasformando il semplice trigu cottu in un rito. Con saba o miele, il grano diventava un simbolo: dolce come la vita che auguravamo agli altri, radicato come la terra che benedicevamo. Questo gesto non era solo per noi, ma per la pace tra gli uomini e il rispetto per il creato. Era il nostro modo di ringraziare l’universo.»

    Capodanno chinò il capo. «Io non conosco questi gesti. Porto con me clamore e consumismo. Eppure sento che qualcosa mi manca.»

    Cabudanni lo fissò con occhi profondi. «Non è mai troppo tardi per imparare. Insegna agli uomini che non si può vivere solo di euforia, ma di connessione. Chiedi loro di mettere da parte i brindisi vuoti e di condividere un gesto che li leghi alla terra. Porta avanti l’antico rito del trigu cottu: che le loro mani plasmate dal miele ricordino la dolcezza della vita condivisa, e che la pace non sia solo parola, ma offerta concreta alla Terra Sarda, madre di tutti i popoli.»

    Capodanno annuì, promettendo di onorare il consiglio del vecchio. E così, nella quiete di quella notte, un patto fu stretto. Da allora, in ogni angolo del mondo, quando si spegneva il frastuono dei festeggiamenti, un piccolo gruppo di uomini e donne tornava a celebrare il Capodanno alla maniera di Cabudanni: con gratitudine, dolcezza e un pensiero di pace che viaggiava dalla terra al cielo.

  71. Annalisa Atzeni sezione A
    Accetto il regolamento
    Mamma
    Mamma bella che sposa,
    lunghi capelli intrecciati
    viso bianco e occhi nocciola,
    abito a ruota e tacco a spillo,
    la tua gioventù brilla d’immenso.
    Ago e filo sono la tua passione,
    ricami e vesti la vita.
    Mani forti.
    Mani capaci.
    Cuore dolcissimo,
    in punta di piedi l’ amore ti travolge,
    diventi sposa al solstizio.
    Comari di fiori ti accompagnano.
    Scegli la terra.
    La terra ti nutre e ti cambia.
    Mani rugose sporche di fango e d’erba.
    Nella notte preghiera e luce di candela,
    osservo i tuoi occhi e i tuoi gesti.
    Lavoro e croce nel cuore.
    La terra ti nutre e ti cambia.
    Sei luce e guida
    Oh mamma del cielo
    la fatica ti ha distrutta.
    La pace io chiedo
    per te Mamma,
    sentieri eterni per la tua vita celeste.
    Oh mamma del cielo,
    perdona la terra.

  72. Marina Cozzolino
    Sezione A- Accetto il regolamento

    TAUTOGRAMMA CON P

    Parco, prato, panchina
    papà premurosi portano pargoli
    per passeggiare, per pedalare.
    Pensionati pisolano pigramente
    percepisci passetti, pigolii, parole.
    Palpitano passioni,
    persona perbene piange.
    Pastrano, piccoli piatti, panino.
    Presto! Polizia…
    Paura, pallido, patisce pena
    pazzo, pace, protezione.
    Pattugliano, perlustrano
    piove piano, potrei pernottare
    parco, prato, perlopiù panchina.

  73. Lidia Peritore
    Sezione A Accetto il Regolamento

    È NATALE…. CHE RISSA!
    Evviva, il Natale arriva!
    Simbolo di bontà e di pace foriero
    l’animo accheta di parenti e amici .
    dopo mesi d’insulti e falsità.

    Per l’occasione, c’è sempre un minghione
    che mette casa sua a disposizione.
    Ma in breve, turbata è l’atmosfera.
    Vecchi rancori puntuali saltan fuori.
    Esplode anche l’invidia coltivata con cura
    quando un gioiello spunta da lauta scollatura
    e dal peloso polso di un dannato congiunto
    nuovo, fiammante e d’oro, un orologio appare.

    Giocano giulivi i ragazzini
    attorno alla zietta traballante
    che fiera ostenta un vassoio d’argento
    cimelio di altri tempi, a lucido tirato
    di panettone a fette, ridondante.

    Ahimè, la poveretta, da una spinta stordita
    a terra scaraventa il ben di Dio!
    Inviperito un convitato ammonisce
    il fanciullo molesto.
    Lesta la madre in sua difesa
    redarguisce l’uomo insofferente
    fulminea allora giunge la di lui consorte
    e d’improperi copre la signora.

    Fra musi lunghi e sguardi avvelenati
    accorto, seda gli animi, colui che li ha invitati.

    E finalmente scocca del sacro evento l’ora
    con parto elaborato puntualmente nasce
    il Bambino adorato!

    Bevono gli invitati spumante a fiumi
    alticci vomitando rancori antichi
    rivangando colpe, rinfacciando offese
    senza scordare le eredità contese.

    Volano parolacce
    fra chi al gioco ha vinto
    e chi ha perduto
    giurando d’esser stato
    l’amante della moglie.
    L’Offeso inferocito
    del cialtrone colpisce gli attributi
    cause perenni di tanti cornuti.

    Soltanto una proposta
    d’accordo mette tutti:
    mai più il Natale
    festeggeranno insieme!

    Povera Festa, tanto osannata
    svilita e declassata a furibonda rissa
    in tragedia or s’è mutata!

    Si scioglie, in fretta la brigata
    imprecando qua e là.
    Volano le bestemmie,
    “simbolo d’altra pace”
    inchiodando in anticipo
    il Cristo neonato
    che adirato ha deciso
    di non nascere più!

  74. Lidia Peritore
    Sezione B Accetto il Regolamento

    NASCOSTO DENTRO L’ANIMA !
    Nascosto dentro l’anima, c’è sempre il Fanciullino dei tempi andati, quello del Presepe, dei nonni e dei bisnonni che ci narravano le favole della Novena mentre, in lontananza, si udiva il suono delle cornamuse.
    La nonna materna iniziava il Rituale della preparazione dei dolci di Natale dalla vigilia dell’Immacolata: cuoceva le carrube col vino rosso per i Mostaccioli, mondava le mandorle per le Mandorlate e lavorava la farina col miele per i Rami di miele. Non mancavano mai per colazione le “ciambelle” delle Suore del Convento della Badia, come non mancava mai una leccornia tanto apprezzata da grandi e piccini: i ”biscotti ricci”, a base di mandorle tritate, farina e zucchero, carta vincente delle “Suore del Convento di Clausura di Palma di Montechiaro”.
    Noi bambini aiutavamo i grandi a costruire il Presepe e bisognava sentire come sghignazzavamo, quando si menzionavano “i cacazzi”, pietre particolari che raccoglievamo sul greto del Fiume Salso, agglomerati sedimentari di varie misure, pieni di fori, friabili e leggeri, trascinati dalla corrente lungo il percorso e, poi, depositati sulle rive!
    Lascio immaginare quante allusioni fatte dai grandi!
    “I cacazzi” consentivano la creazione di montagne, colline, ponti, grotte e altro ancora. Che Presepe sarebbe stato senza “i cacazzi”?
    Come ci divertivamo allora, noi bambini, con qualche dolcino, un vestitino riadattato dalla sorella grande alla più piccola, senza malizia, con la nostra innocenza e senza giochi comprati, riuscivamo a svagarci spensierati.
    Giocavamo a nascondino, a “tilimi iattu”(dall’inglese: tell me cat), a “ti vittu” e a “scopa” coi Nonni, tanto affettuosi, da farci vincere sempre!
    Felici, noi piccoli, con quattro soldi, dieci o venti lire, ci sentivamo ricchi. Lo sapevano i droghieri che ci aspettavano al varco per carpirci quei pochi spiccioli, per noi oro, con delle vere e proprie “minghiatelle”, facendoci acquistare le “Polizze”, illudendoci con chissà quale vincita, invece, se andava bene, vincevamo “i sennisè”, mentine microscopiche o bicchierini di plastica. Che grande abilità, imbrogliare i più piccini! Vigliacchi, non ci provavano mai coi grandi, altrimenti, qualche naso rotto ci sarebbe stato da parte di una testa calda di padre scatenato, difensore del proprio onore più che del proprio figlio, solo così si sarebbero tolti il vizio di carpirci i soldi. Purtroppo, quelli erano tempi bui per i bambini, non tutelati, neppure calcolati, senza Diritti e col “Dovere di ubbidire”. Il mondo era esclusivamente dei “grandi”, degli “eroi di guerra”, dei “reduci” che, sovente, raccontavano le loro imprese e le brutture del “Primo e del Secondo Conflitto Mondiale”. Neppure i giovani si salvavano, allora, considerati: “gioventù Bruciata”, “The Beat Generation” negli States!
    E così, per sopravvivere, noi bambini ci inventavamo ogni passatempo, altrimenti, senza mezzi e senza veri svaghi, saremmo impazziti!
    In qualsiasi modo siano andate le cose, una è certa: l’Infanzia non torna più, però il “Fanciullino” che alberga in noi, di tanto in tanto, affaccia la testina, ricordandoci di essere ancora nell’anima e nel cuore! Finché saremo capaci di custodirlo, conserveremo lo spirito della Fanciullezza ma se, incauti, lo lasceremo andare, invecchieremo precocemente, divenendo come i bambini ma subiremo gli sberleffi di quelli veri e saremo disprezzati dai più grandi! Morale della favola: a noi che abbiam vissuto le privazioni e la spensieratezza dei tempi andati, oggi, resta la scelta fra saggezza e stupidità, fra la spocchia di chi si atteggia a far l’adulto e la gioia lieve vissuta nell’Infanzia di allora, un Dono da custodire senza spendere nulla e che i fanciulli di oggi, purtroppo, non proveranno mai!

  75. Siamo lieti di presentarvi i finalisti del Contest “Versi e Racconti di Lombardia”

    Sezione A
    Giovanna Li Volti Guzzardi con “Ti dirò”
    Angela Maria Malatacca con “Elegia del giardino smarrito”
    Gianfranco Proietti con “Ritratto”
    Daniela Giorgini con “Il profumo della felicità”
    Antonietta Fragnito con “Rami d’acqua”
    Marina Cozzolino con “Tautogramma con P”
    Andrea Borselli con “La guerra”

    Sezione B
    Daniela Ferraro con “Meraviglioso!”
    Fabio Soricone con “Pioggia di stelle”
    Marcella Donagemma con “Boccascena e il mantello d’Arlecchino”
    Annalisa Scialpi con “L’amante cinese”
    Giovanni Ferrari con “The Beauty and the Beast”
    Giuseppe Loda con “Era sempre una grande festa”
    Franco Maccioni con “Ricordi e amicizie”

  76. Grazie tanto per essere finalista. Mi avete dato tanta gioia e serenita’.
    Grazie con tutto il cuore e auguri di sempre successi e prosperita’.

  77. Grazie per essere stata scelta come finalista.
    Complimenti a tutti, autrici e autori.

  78. Prima di tutto complimenti a finalisti, vincitori e partecipanti. Poi faccio le mie scuse ai giurati: ho partecipato al contest senza accorgermi che il premio era l’antologia con un mio racconto, generando così uno spiacevole conflitto di interessi.

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