Felicità e tempo: che cosa determina il nostro stare al mondo?

Vi siete mai chiesti cosa ‒ più di tutto ‒ influenzi il nostro stare al mondo?

Chronos statua felicità e tempo
Chronos statua felicità e tempo

Il nostro modo di pensare la vita e di intendere la felicità? Ebbene, direte voi, le cose sono tante. Ad incidere sulla qualità della vita e sul nostro vivere contemporaneo contribuiscono senza dubbio la società con le sue sovrastrutture. Come ad esempio il governo e la sua politica, l’economia e le sue finanze, la scienza e le sue scoperte, la tecnologia, la medicina, il clima, l’uomo stesso con la sua cultura, le sue idee, l’educazione ecc. Potrei andare avanti così ancora per molto, ma non lo farò.

C’è infatti qualcosa che precede tutto questo. Qualcosa di molto meno “osseo”, di molto meno evidente e scontato. Qualcosa che fin dall’inizio dei secoli è stato affisso all’apice della genealogia divina e collocato tra i padroni del mondo: sto parlando di Chronos, il tempo.

Chronos (Χρόνος) nell’orfismo fu la divinità del Tempo e, in una qualche misura, l’equivalente di Crono che ‒ nella Teogonia di Esiodo ‒ fu il padre di Zeus. Crono simboleggiava la Fertilità, il Tempo e l’Agricoltura. È interessante notare che stando a quest’ultima versione epica Crono non era un Dio, ma un Titano. Se infatti al principio c’era solo il Caos, successivamente sorse l’immortale Gaia (Γαῖα, forza divina della terra) che diede vita ai Titani.

I Titani erano considerate le forze prime ed indomabili dell’esistenza, quelle anche più ostili e maligne, cui si vennero a contrapporre i cosiddetti Dèi, più benevoli e giusti. Chronos, insieme a tutti i suoi fratelli, venne dunque successivamente spodestato – a seguito di una lunga e sanguinosa battaglia (la titanomachia) – che fece trionfare il suo stesso figlio Zeus nell’Olimpo e relegare i Titani nel Tartaro.

Come a dire: il tempo deve essere domato, regolato, meticolosamente saggiato dall’uomo, affinché questi abbia una qualche parvenza di ordine e di comando sulla propria vita.

Benché oggi il tempo non sia più al centro di speculazioni mitologiche, permane nel mondo come un «riflesso plasmato» dalla storia della coscienza collettiva, come una «forma» in grado di incidere sul nostro stesso modo di rapportarci alla vita e di interpretare la felicità.

Per il termine «forma» esistono almeno due parole differenti: μορφή che sta ad indicare la forma sensibile, quella cioè posseduta dall’oggetto nelle sue caratteristiche estrinseche visibili nella realtà e, εἶδος, il cui termine pur significando sempre «aspetto, forma», rimanda invece a ciò che appare di un oggetto, alla presenza intuita da chi guarda mediante un processo di astrazione.

Non a caso l’εἶδος corrisponde al termine filosofico con cui Platone designa l’idea ed è altresì quel significante (la causa formale) per mezzo di cui Aristotele spiega la combinazione tra potenza e atto, una coppia di termini complementari utilizzati per comprendere il perenne divenire dei fenomeni naturali.

Il termine εἶδος viene infine ripreso anche da Edmund Husserl per designare appunto l’essenza che diviene oggetto d’intuizione. Il tempo per Husserl è proprio questo: un’intuizione pura. Quel “puro nome” che per essere compreso in termini fenomenologici, vale a dire di scienza esatta – l’unica possibile per Husserl – deve per forza tenere conto di ciò che avviene nella coscienza umana nell’atto stesso del pensare.

Fa riflettere che nonostante il grande impegno nel portare avanti il suo studio sul tempo, il padre della fenomenologia fosse comunque ben certo della differenza che intercorre tra il tempo immanente e quello trascendente, evidenziando lo scanto quantunque in essere tra le due forme possibili del tempo (vale a dire tra la sua μορφή ed il suo εἶδος) con la seguente dichiarazione:

E inoltre può ben essere un’interessante ricerca quella di stabilire quale sia il rapporto tra il tempo che in una coscienza di tempo è posto come obiettivo, e il tempo obiettivo reale, se le estimazioni di intervalli di tempo corrispondano agli intervalli di tempo obbiettivamente reali, o se ne discostino. I compiti della fenomenologia non sono però questi. (…)”[1].

Non c’è dunque tempo senza una forma – o coscienza precisa – del tempo.

Il tempo fra tutte le forme del mondo è la più difficile da constare in via oggettiva. Del resto è ancora al centro di accessi dibattiti fra i fisici contemporanei, confermandosi come un grande problema insoluto che non trova corrispondenza tra la teoria della relatività di Einstein e la più recente fisica quantistica. Addirittura sembrerebbe oggi qualcosa di più mentale che reale.

A dirlo – non senza sconvolgere – è il noto fisico teorico Carlo Rovelli che in un’intervista riportata da Rai Cultura spiega con testuali parole:

La nozione comune del tempo non corrisponde ai risultati della fisica degli ultimi cento anni: non c’è nessun grande orologio che batte il tempo dell’universo ovunque nella stessa maniera, ma dipende dal luogo e dalla velocità”. Rovelli conclude che per comprendere a fondo l’universo si possa fare a meno della nozione di tempo, asserendo che “… forse il tempo corrisponde al nostro modo di vedere le cose ma non fa parte della struttura fondamentale dell’universo”.

Con questa dichiarazione esilarante pongo le basi del mio discorso.

Se il tempo è più un fatto di coscienza che non qualcosa di oggettivo, è possibile asserire che l’inconscio collettivo fin dall’inizio dei tempi abbia plasmato, come cosa viva, la sua statua nel fango, imprimendo d’accosto alla forma esteriore del tempo (μορφή) – ammesso che ne esista una – una precisa forma intellegibile (εἶδος) al suo essere per noi nel mondo.

Ci avete mai pensato? Il tempo in quanto fatto di coscienza e in virtù dell’εἶδος che per astrazione è venuto a sostanziarlo di una certa struttura, orienta, suggestione e plagia il nostro modo di intendere la vita e di “trovare la felicità”.

Vale la pena di precisare a questo punto che dalla parola greca εἶδος deriva anche il greco εἴδωλον (éidōlon) poi, in italiano, “idolo”, con il valore anche di “simulacro” o di “figura”. Cosa significa? Che la nostra idea del tempo non è una copia esatta probante la natura reale del tempo – un fatto scientifico certo – ma fondamentalmente un idolo o una rappresentazione.

Con una bellissima conferenza intitolata “Sulla felicità”, Umberto Galimberti ci invita a comprendere la differenza fondamentale tra la visione antica del tempo e quella contemporanea, evidenziandone sagacemente le più intime conseguenze etiche.

La struttura del tempo da duemila anni a questa parte è cambiata. Il tempo è stato scandito in tre ripartizioni che precedentemente, nel mondo antico, non avevano ragione di esistere, se non in termini prettamente causali. Passato, presente e futuro, oggi non sono soltanto modi diversi dello stato naturale delle cose, bensì modalità di coscienza interrelate non solo con il divenire percepibile, ma anche con precisi giudizi di valore sottostanti.

Il Cristianesimo, esordisce Galimberti, “non è una religione, ma una cultura e come tale crea un inconscio collettivo”. Il Cristianesimo infatti – spiega il filosofo – avrebbe diffuso la credenza che il passato equivalesse al male, alla dimensione del peccato originale di cui saremmo tutti figli, il presente allo stato di redenzione ed il futuro alla promessa della salvezza grazie ad un’altra vita.

Tutto questo ha trasfigurato il tempo: da forza centrifuga e ciclica qual era nel modo Greco è divenuto una linea retta sempre tesa in avanti che si nutre di speranza, d’un eccesso di ottimismo e di una tensione continua al progresso. Sì, al progresso. Perché tutto questo discorso non vale solo nella dimensione della morale cristiana, ma anche nell’ottica della morale laica, investendo con il suo eco la struttura laica per eccellenza che è la scienza. Per la scienza infatti il passato equivale all’ignoranza, il presente alla ricerca ed il futuro al progresso.

Se viviamo in un tempo che ha in sé la speranza, in un tempo che si fa garante e custode del bene, del progresso, della verità ecc., divenendo spettro dell’assenza del male e simulacro di una pro tensione in avanti, è chiaro che il nostro modo di pensare la vita ne possa risultare in qualche modo influenzato.

Il tempo ‒ Chronos ‒ non solo è stato investito di una grande responsabilità, ma contribuisce anche a radicare nell’uomo l’idea di doversi continuamente superare.

Le conseguenze etiche di un tempo siffatto sono lapalissiane: la vita si trasforma essenzialmente in lotta e in attesa, mentre la felicità, ripulita dal dolore, viene elevata a falsi miti paradisiaci.

Viceversa nel mondo antico, quando il tempo era ciclico, non c’era spazio per quest’“avvenire dell’illusione”, per questo slancio alla conquista del bene, per questa rincorsa autocentrata alla vittoria definitiva, alla vita eterna. Nel mondo Greco tutto era solo temporaneo, tutto andava e veniva in un “eterno ritorno”, composto in egual misura di male e di bene insieme. E se non c’era redenzione, liberazione, vittoria o emancipazione che il tempo potesse avvallare con i connotati della stabilità, che cos’era allora la felicità?

Era l’εὐδαιμονία. Che in senso più letterale non significa esattamente “felicità”, ma “avere un buon spirito guardiano” (da “eu”, buono e “daimon”, demone).

La felicità era legata alla nostra interiorità e rappresentava il fine ultimo a cui tendere come stato più oggettivo che soggettivo, caratterizzato da una vita vissuta bene nonostante gli alti e i bassi di chi la vive. La ricerca della felicità era legata al comprendere che le condizioni per raggiungerla sono solo dentro noi stessi.

Ecco che il tempo non era garante di nulla, ma solo occasione di pensiero. Per trovare la felicità non si doveva rincorrere nulla, né superarsi in alcun modo. Occorreva invece principalmente indagarsi, interpellarsi per conoscersi meglio ed imparare ad esprimersi secondo gli intimi desideri e le personali virtù.

A patto di farlo sempre “katà métron” (κατὰ μέτρον), ovvero “secondo misura”, al fine di ottenere una vita esaudiente – che per essere tale e non una lotta continua – doveva essere umile, saggia e armoniosa.

La felicità nasceva dall’attenzione: dal soffermarsi per valutare sempre la qualità delle proprie relazioni, delle proprie aspirazioni e desideri. La felicità chiamava essenzialmente a riflettere e a comprendere quali fossero gli aspetti che potessero condurre alla “buona vita” e portare la persona il più vicino possibile a trovare un senso ed una direzione gratificante nella propria esistenza.

 

Written by Elisa Magnani

 

Note

[1] E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 44-47

 

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