“Il vento conosce il mio nome” di Isabel Allende: storie di immigrazione

Ho letto le prime cento pagine de Il vento conosce il mio nome di Isabel Allende e ancora non ho avuto modo di capire del perché di questo titolo.

Il vento conosce il mio nome di Isabel Allende
Il vento conosce il mio nome di Isabel Allende

È così poetico e così apparentemente futile, che finisce per scorrere via (in futilia vasa), così aleatorio, così ventilato che, anche se non ho compreso il perché, sento che mi sto quasi approssimando all’eventuale e non agevole meta. Mal che vada, nella mia ricerca giungerò alla parola fine di questa storia. Ogni storia è tale se ha un inizio, un alternarsi di situazioni e un epilogo, che null’altro è se non l’aggiunta che (provvisoriamente) completa un discorso, uno dei tanti possibili. Lo dico per dire, ché nulla si completa mai del tutto. Quando un corso d’acqua giunge alla foce (che sia a forma di delta o d’estuario poco o nulla cambia), il mare, se non è lo stesso s’assomiglia. Però il mare è sempre quello, diceva Vittorio G. Rossi nel suo omonimo romanzo di memorie. E così… grazie a Isabel, mi son finalmente deciso a leggere gli ultimi due libri di Vittorio, che da anni mi stanno aspettando (buttando talvolta l’occhio su di me) su quello scaffale. Ultimi per me, non per lui. Si dice che, in quel Ceruleo Luogo, egli ne stia per sempre scrivendo.

A quale dei due affiderò in primis il mio illusorio tempo? Quien sabe? L’unico che può ora saperlo è lui, l’Autore.

Una frase di pagina 78 di Il vento conosce il mio nome è icastica al punto giusto: “Hanno cancellato la vita”. Non importa chi a chi (non intendo al momento parlarne): la vita è vita per chiunque. L’umana esistenza che si ama di più, fin quasi a venerarla, è quella che, sparita dalla nostra terrena vista, sempre incomberà su di noi (dal Cielo?). Il primo a dirlo fu Plauto, poi toccò a Hobbes: l’uomo, nei suoi rapporti con i suoi simili, è come il lupo. Se fossi in quel canide, querelerei l’umanità intera, in un’unica immensa obbligazione solidale, non per diffamazione, ma per calunnia. Nemmeno le solitarie tigri sono così distruttive coi loro simili. I cervi talvolta incrociano le corna. Perché non cerchiamo d’imitarli? Perché preferiamo bombardare il nemico, ndo cojo cojo? Molti umani conquistatori hanno ripetuto il concetto: ammazziamo in primo luogo i bambini, ché così non facciamo ricrescere quel popolo di fetenti! L’uomo è un incivile che ha preso da se stesso. Da che mondo è mondo, i bambini nascono angeli e muoiono non si può dire come. Anche chi è cattivo muore, garantiva mia madre. A un certo punto della sua vita, anche al più temibile dei tiranni viene manco il fiato: per cui tutti, in ginocchio, dicono RIP (finalmente!, a qualcuno scappa detto).

La vittima (intesa come popolo) fa la fine del capro espiatorio: espia le colpe del suo aguzzino. A pagina 39 di Il vento conosce il mio nome leggo: “… si diceva che i disordini erano provocati dagli ebrei…” – erano stati a loro a spezzare tutti quei cristalli quella malefica notte?

Questo lo potrebbe testimoniare il popolo armeno. E ne potrei citare centinaia, migliaia di altri. Aggiungo anzi che ogni popolo perseguitato prima o poi diverrà un oppressore.

La perfezione di qualsiasi misfatto si chiamerà poi oblio: “… il governo aveva negato il massacro, eliminando prove e mettendo a tacere le timide denunce dei sopravvissuti…” – che possono, anzi, dentro di sé devono sentire il bisogno di urlare il loro sconcerto.

Una folle speranza: qualunque popolo è stato prima o poi giudicato, con disprezzo, barbaro; qualunque popolo si potrà credere un giorno l’esempio da imitare e da innalzare sopra ogni altro. I Romani furono quasi annientati dai Celti. Vari secoli dopo, Cesare si rese colpevole di un analogo eccidio ai danni dei Galli di Vercingetorige, che fu ignobilmente umiliato dal suo omologo nemico. Sempre e ovunque: Guai ai vinti!

Ogni guerra umana è di natura neoplastica e maligna. La sua forma peggiore è assurdamente detta civile. Ogni uomo è un possibile agente di quell’impietoso male. La Storia è una gran meretrice. L’umano, a qualsiasi latitudine e longitudine, mosso da qualunque ideologia, è l’avido lenone.

Se hai finita la predica, caro il mio minister menestrello, ti vuoi decidere di servire questo bel romanzo Il vento conosce il mio nome? Sì, sento che debbo farlo. Ma non t’aspettare da me un giudizio, perché io mi sento più dalla parte del sospetto colpevole che del cinico giudice. Né un voto, ché non sono mica un docente io, ma un alienato allievo che sta facendo filone, che se la fila via.

Io reagirò, com’è mia costumanza, ché questo so fare. Null’altro.

Innanzi tutto intendo parlare dell’autrice, il cui bel visetto spunta, quietamente sorridente, dalla fascetta del romanzo. Isabel è nata in Perù e a tre anni s’è trasferita in Cile. Poi visse in Bolivia, in Europa e in Libano. Tornò poi in Cile, da cui fuggì dopo il golpe di Pinochet, trasferendosi prima in Venezuela e poi in California. Mai che sia stata ferma, esta chica bonita. Non mi dispiacerebbe averla come condomina, secondo me è una brava donna. Poi, chissà… Una mia consanguinea, che ha letto tutto o quasi di lei, dice che nei suoi primi romanzi accennava a molti fenomeni para-psichici, misterici, poi sempre meno, man mano che iniziava la sua esistenza nordamericana. Ho concluso la lettura del romanzo ieri sera e posso dire che qualcosa è pur rimasto di quella sua esoterica caratteristica. Ogni libro è un arcano. Usare l’espressione libro misterioso è pleonastico: lo è fin tanto che non è letto. Dopo di cui il buio che emana s’infittisce.

Ancora non ho capito il perché del titolo Il vento conosce il mio nome. Lo si deve forse al fatto che a sette anni ho battuto la nuca sull’asfalto, a seguito di un incidente stradale. Ho sempre pensato che a salvarmi fu il mio angelo custode, che s’era distratto per un attimo, ma che subito cercò di recuperare. Una signora che era presente disse che ebbi un miracoloso colpo di reni, grazie a cui riuscii a evitare in parte l’impatto col veicolo. Senza di esso sarei oggi in Paradiso. Ora, in verità, la vedo più dura.

Chissà… Chissà, secondo Antonella Bezzi, mia amica milanese-catanese-bolognese, è la parola più spirituale che ci sia. Metà così la pensa lei, metà così la penso io. Insieme facciamo un’unità.

Il personaggio in cui più m’identifico è Anita, una ragazzina che si è salvata la vita per chissà quale prodigio in un incidente stradale in cui la perse, che pena!, Claudia, la sorellina più piccola, che è sempre stata (e lo è tuttora, , Chissà Dove) “una cipotilla molto tranquilla”.

Anita, in quel tragico episodio, perse gran parte della sua vista, ma ancora un po’ ci vede. Ma soprattutto sente quel che le accade intorno. Anita parla spesso della sua “angela”, in tutti i cinque capitoli che Isabel le ha dedicato, intestandoli col suo bel nome.

Che sia la Scrittura di Isabel quel vento a cui si accenna? Vento è Anima, Aria che tira se stessa, Spirto Vital… Il vento conosce tutto perché pervade ogni cosa. Il vento è l’Anima di quel Tutto. Se non c’è vento non c’è speranza. E il vento non va a letto con la sete, diceva mia madre. Quando tira, le nuvole si agitano, creando l’umidità, senza la quale il mondo finirebbe per morire soffocato. L’uomo è in gran parte composta da acqua. Senza vento si seccherebbe ancor prima di nascere.

“Nell’aria c’era un presentimento di sventura…” – così inizia il romanzo – “… fin dal mattino presto un vento di incertezza spazzava le strade, fischiando tra gli edifici, infilandosi dalle fessure di porte e finestre…”.

Il vento può uccidere e impedire il cammino… Ne ebbi coscienza quando un Martedì Grasso mi trovai in centro a Trieste con alcuni colleghi di naja: tenendo la testa ben china, non riuscivamo quasi a camminare. Entrammo in un bar, ci scolammo una birretta e subito rientrammo in caserma.

“… era incollata alla radio, dove si diceva che i disordini erano stati provocati dagli ebrei…” – è sempre qualcun altro a dare la stura ai tuoi delitti: non è colpa tua se quello fa di tutto per essere sterminato. È nella logica delle cose. A cui o ci si ribella o si diventa complici. Tertium non datur. O sì? Si può anche scappare…

“I membri della comunità ebraica furono costretti a pagare una fortuna per ‘i danni alla nazione tedesca’…” – più gli eventuali interessi legali e, perché no, qualche meritato anatocismo. Si paga sempre lo scotto di essere oppressi: la discriminazione si sconta soprattutto perendo.

Ogni capitolo de Il vento conosce il mio nome è segnato da una data e da un luogo. Il primo è Vienna, novembre-dicembre 1938. Il secondo è Londra, 1938-1958 e così inizia: “Il viaggio dall’Austria all’Inghilterra durò tre giorni, che al piccolo Samuel sembrarono un’eternità.” – il tempo psicologico è mendace, ma anche quello fisico lo è. Secondo il fisico inglese Julian Barbour, il tempo è un’illusione, dal cui velo di Maya non ci si può liberare, pena l’incoscienza, la morte. Ricorderò sempre la sua allegoria, in cui il tempo era ridotto a un groviglio di cartoline appese a un magico filo tramite un eroico ciappetto: tante configurazioni di stati fisici che formavano una specie di unità. In amalfitano ciappetto è la molletta, in pisciottano è cannucciedda: sorreggono i panni stesi in modo analogo, però. L’uomo (diceva Agatha Christie) e il ciappetto, comunque lo si chiami, sono uguali dappertutto. I loro avi erano di legno, ora quegli zurieddi sono di plastica dura.

Il piccolo Samuel è un gemello separato alla nascita (che occorrerà tant’anni dopo) dell’Anita. I due, pur senza conoscersi, si amano da sempre, forse dall’eternità. Diceva suor Bice che le anime dei bambini, prima di nascere, stanno a giocare Lassù, nella Valle della Luna, dove son tutti amici. I nemici non sanno nemmeno dove stanno di casa. O forse stanno quaggiù, sulla Terra? Mi auguro che non sia sempre così.

Sono proprio contento di non aver sottolineato più nulla fino a pagina 115 de Il vento conosce il mio nome. Significa che ogni umore della scrittrice l’ho inalato senza quasi accorgermi. E ora pervade il mio organismo. Lo stile di Isabel è semplice e completo. Non dimentica mai alcun particolare da lei giudicato, non solo necessario, ma essenziale: “L’edificio era un blocco di cemento uguale a molti altri nella via, senza il conforto di un solo albero.” – erano anche loro orfani, poveretti.

Leggo a pagina 115:Gli americani hanno causato gran parte del disastro di quei paesi.” – anche gli antichi romani lo fecero: massacrarono e distrussero. La differenza con gli yankee è che allora i popoli conquistati entravano a far parte dell’impero, e chiunque poteva dire: civis romanus sum.

“Era il periodo in cui gli appariva Nadine, la moglie, sul pianerottolo della scala.” – non era morta, come si diceva, perché ogni tanto lei risorgeva nella sua mente. A chi non è mai capitato? Ogni volta che scorgo le fotografie dei miei genitori e quelle di alcuni amici scomparsi, io continuo a salutarli, e questo accade tutti i dì. Sono matto? E che me ne importa… L’essenziale, nella vita e e nell’arte, è essere gentile con l’Altro. Gli altri siamo noi, cantava Umberto Tozzi, che forse aveva letto Arthur Rimbaud, il quale a sua volta così gorgheggiava: Je est un Autre.

Se è vero quel che dice Julian Barbour, e come garantisce il collega Carlo Rovelli, che il tempo non esiste come noi lo immaginiamo, un evento trascorso ritorna ogni volta alla mente, quando lei, la Psiche, l’Anima, Nostra Domina, lo va esigendo. Quando si sposò, mia nonna Linda Zuelli portò a Reggio le poche cose che aveva dopo averle infilate su una carriola: non più di 14 chilometri fatti fischiettando. Quel giorno per lei non era dissimile al precedente e al successivo. Poverella era, e poi coniugata con un poverello. Ma dove sono finite quelle sue cartoline spazio-temporali? Le dovrò forse rinvenire in quel ceruleo solaio?!

Chi non ha mai letto La fisica dell’immortalità di Frank J. Tipler? Tu? Puoi sempre rimediare, tranquillo! È un complesso studio sulle informazioni cosmiche. Dopo una serie arcana di cabale, il terribile professor Tipler arriva alla considerazione che, se ad ogni stato quantico di ogni particella del cosmo, dall’inizio alla fine dei tempi, s’intende, non quello di poco fa e di domattina, ma di tutti i poco fa e le domattine immaginabili, fosse abbinata l’informazione di sé, ecco che ogni evento potrebbe essere (forse, per caso) riprodotto da un divino lettore, che potrebbe creare e ricreare, ad libitum, in eterno, l’esistenza del Tutto: ogni specie e sottospecie di Kósmos. Anch’io, che ti scrivendo. E tu, che mi vai leggendo. Ammetto di non aver capito quel libro fino in fondo. Però la sua mi parve una smisurata idea. Ogni atto, ogni decisione umana, ogni scelta fra Enten-Eller, mia e di tutti gli altri enti, secondo il fisico statunitense Hugh Everett III, finisce per creare un altro cosmo, come afferma la sua teoria dei multiversi. Ma che fine ha fatto, ‘sta minuscola poverella? La mia decisione, dico… Essa forse continuerà a vivere per sempre. Come (non) scrisse John Keats: A thing of judgement is a world for ever. Pochi giorni fa andai con Algo detto Roy (o Roy detto Algo) Ferrari a vedere il Cimitero Acattolico di Roma, dove incontrai numerosi amici (non ne cito alcuno ché non saprei da chi cominciare e poi finire). A ognuno di loro dissi, a mo’ di saluto: A Dopo!

“… quando la solitudine si impadronisce delle persone, i morti vanno a trovarle. Si immaginava che anche i morti si sentissero molto soli.”forse manca loro la nostra umoristica follia. Ci vuole un po’ di allegria, anche nei naufragi, come c’insegna da più di un secolo Giuseppe Ungaretti.

“… resterà chiuso fino a nuovo ordine a causa del Covid-19…” – la quale immensa tragedia, pur uccidendo tanti innocenti (e anche qualche colpevole: ma il loro giudizio è ancora in Cassazione), qualcosa di buono recò al nostro pianeta. Diminuì l’inquinamento. Poche macchine giravano per la mia via Adua, quando mi recavo a desinare dalla mia citata consanguinea. Ricordo l’emozione che provai quando, finito il primo lock-down, andai con l’amico Algo detto Roy, ri-detto Roy ri-detto a sua volta Algo Ferrari, insomma: lui, a Modena a prendere un caffè presso una sorta di mercato coperto, non ricordo dove. Mi dissi che in fondo era valsa la pena d’essere stato rinchiuso per tanto tempo. E fu così bello assaggiare di nuovo il flebile venticello cittadino.

“I giorni si fecero lunghi, tutti uguali, si fondevano l’uno nell’altro.” – e perché li rimpiango ancora?

È nell’ordine delle cose umane provare nostalgia per quel che non c’è più. Nóstos è il ritorno al proprio paese, algos è il dolore (per quello che non c’è più). Chissà cosa ne pensa Algo detto Roy, detto… oh, basta! Se si tratta di un’anima che ti amava, il discorso si fa ancora più deliziosamente algido. Ogni morte crea un lutto che ti fa lugere, piangere. Quelle lacrime poi si trasformano in una tenera nostalgia: potere salvifico dell’umidità!

“Tutti abbiamo il diritto di inventare la nostra leggenda.”  

“La mia non ho bisogno di inventarla, signore.”

Il dialogo avviene fra il ragazzino Samuel, ormai ottuagenario, e Letizia, la sua badante ma non troppo (Samuel è sufficientemente autonomo). Letizia che tanto ha vissuto, fin troppo. Anche lei, come Samuel, come Anita, viene da Altrove. E ogni luogo sempre sarà un Altrove per tutti noi. È anche per questo che Algo-Roy ama tanto viaggiare. Ancora più di me.

LetiziaSi vantava di avere sangue francese, spagnolo e africano, diceva di essere mulata e un ramo della sua famiglia anticamente era nero e ricco, ma che a furia di matrimoni con bianchi poveri aveva perso colore e fortuna.” – lo ripeterò sempre: ogni barbaro fu acheo, ogni acheo fu barbaro.

I miei autori preferiti sono tutti ap(i)olidi: Joseph Conrad, Ferenc Molnár, Milan Kundera, Ágota Kristóf, Irène Némirovsky, Sándor Márai, Rainer Maria Rilke, Franz Kafka, Isabel Allende, Sholem Aleiken, Albert Camus, Elias Canetti, Arthur Koestler e tantissimi altri. Mi sento loro connazionale: io non onoro alcuna bandiera lorda di sangue, poiché io amo l’uomo, nonostante tutto quel ch’ha combinato. Quando Carmelo Bene diceva che lo odiava, egli sapeva di mentire dicendo la verità. Significava: io odio la bestia che è in me, che è in te, che è in tutti! Cerchiamo di capirci fra noi scimmie nude, almeno. Tanto più uno di noi teme d’essere considerato un bastardo, tanto più dev’essere difeso. Chi ha dei dubbi a proposito legga I sommersi e i salvati di Primo Levi.

“… i villaggi dove aveva soggiornato, molti dei quali furono poi sterminati dal genocidio governativo e militare della popolazione maya che aveva provocato duecento mila vittime, un milione e mezzo di sfollati e più di seicento villaggi cancellati dalla carta geografica.” – orrido evento di cui io non sapevo nulla. E voi?

Dice Samuel, parlando del suo rapporto con l’unica donna che ha amato, quell’umana così terribilmente positiva e generosa: “Io e Nadine ci siamo sposati tre volte…” Oh my god!“Le prime due davanti a un ufficiale di stato civile e l’ultima semplicemente rinnovando i voti. Ogni volta abbiamo rinegoziato le nuove regole della relazione.” – non l’invidio, ma l’ammiro, io che nel dare quella parola in Comune provai una sorta di sindrome di Stendhal… uscendo dal Municipio venimmo inondati dal riso… e poi toccò a una celebre Cattedrale a completare la sua drammatica funzione. Pioveva anche, ricordo… C’è sempre dell’acqua di mezzo!

Dice Leticia:Ho avuto tre matrimoni, due divorzi e un lutto…” – e poteva andarle anche peggio.

Da un discorso come tanti altri emerge “Che la signora Nadine portava delle persone da loro, che accompagnava i migranti dal confine, che quando c’erano delle retate nascondeva intere famiglie…” – e se noi tentassimo di seppellire quei confini, quelle bandiere unte di sangue, e quei nobili patriottismi come facevano i pellerossa con la loro ascia di guerra? Non sarebbe un bell’andare per ‘sta balorda umanità?

Isabel Allende citazioni
Isabel Allende citazioni

“Sai una cosa Leticia? Sei la persona più allegra che abbia mai conosciuto; ti diverte tutto, cucini cantando e passi l’aspirapolvere a ritmo di rumba.” – e se non fosse solo un personaggio di fantasia? Ma dove s’è cacciata ‘sta eroina, ‘sta principessa, ‘sta sposina? Ho appena finito di leggere il romanzo e già mi manca!

Dice Anita:Prima dell’incidente non notavo l’odore delle persone, solo se puzzavano, ma ora riesco a riconoscere tutti dall’odore.”: tutti diversamente aulenti, direbbe Gabriele D’Annunzio. Anche lui lo era.

“La mia angela mi ha spiegato che è invisibile…” – e il perché s’è infilato tra le righe di pagina 246. Mi correggo: è sotteso in tutto il romanzo Il vento conosce il mio nome di Isabel.

A Samuel “… rimanevano più o meno millecinquecento giorni sul calendario. Non erano molti, passavano di volata…” – zufolando come un venticello.

Non è questa la tragedia, ma quest’altra: “Aveva dimenticato quasi tutto ciò che aveva preceduto la terribile Notte dei cristalli. Prima era stato un bambino felice”

Il mondo è bello perché Kósmico, ordinato da Chissà Chi, forse furono un Architetto, un Ingegnere e un Geometra che, per tutti quei sei giorni, fra loro leticavano da Dio! Io non leticherei mai con Isabel Allende. Ma sarà vero? Non lo so. Ma ci credo. Così Samuel conclude il dire (il suo, non quello di Isabel): “Pensavo che Azabahar fosse il rifugio di Anita, il luogo dove andava quando aveva bisogno di fuggire da questo mondo, ma ora so che è molto di più…” – e cos’è realmente c’è scritto nelle ultime due mezze righe, che non riporto.

Dopo di cui ti è lecito rileggere il romanzo della tua, della nostra vita. E quello di chiunque è nostro simile. Direbbe un certo Claudio Sottocornola: Così vicino, così lontano.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Isabel Allende, Il vento conosce il mio nome, Feltrinelli, 2023

 

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