“La sostenibile pesantezza delle giustificazioni” di Roberto Moscardin: il pensato esiste?
Il saggio-finzione di Roberto Moscardin, La sostenibile pesantezza delle giustificazioni, ricalca non solo il titolo del noto romanzo di Milan Kundera, che in tale inclìta scrittura va svolazzando un po’ ovunque come un lepidottero, ma tutto quel che si possa letterariamente ricalcare (nonché cavalcare).
In Lolito di Daniele Luttazzi (alla nota 3 del capitolo 18 della Prima Parte: per cui basta un buon navigatore per arrivarci in poco tempo) si legge: “Quando Chesterton, scrisse uno studio su Browning, ne citò le poesie confidando pienamente, nella sua eccelsa memoria. Il correttore, Leslie Stevens, padre di Virginia Woolf, eliminò tutti, i numerosi errori di Chesterton. Borges era spiaciuto che, in questo modo, fossero andate perdute le variazioni forse geniali con cui la mente di Chesterton aveva modificato le opere originarie, perché sarebbe stato assai appassionante, confrontarle.” – e qui né lo dico né lo nego: qualcosa del testo di Daniele è stato volutamente e semioticamente mutato, come prova d’affetto e di stima per tutti questi laboriosi colleghi: Chesterton, Stevens, Borges, Luttazzi e, last but not least, Moscardin.
Do (mi scappa un) un indizio: per Roberto Moscardin la punteggiatura ha un effetto sonoro, detto (da me) moscardiniano, assumendo il valore di sospensione musicale. Lo spazio-tempo (delle due l’una) o è continuo o è discontinuo. Tertium non datur.
No! Mi ribello a tale infame logica: il Kósmos utilizza, attimo per attimo, entrambe le modalità. E fa altrettanto con la gravitazione e l’entropia che, notoriamente, collaborano in ambito locale, pur opponendosi (fingendo d’opporsi) in quello universale.
Il re dei refusi è sottilmente covato a pagina 194 de La sostenibile pesantezza delle giustificazioni; il più genialmente sotteso è palesato a pagina 48: soltanto un apéli (leggasi: un peloso e cavilloso pioleìn) come il sottoscritto ci può far ignobilmente caso. Per un Cosmo il lapsus (dal latino labi, scorrere, scivolare; da cui deriva, s’ipotizza, anche labor) ha la funzione di un geyser neozelandese: più s’eleva e maggiormente permea quel madido logos.
Il labor moscardiniano è diviso in quattro, opportunissime, sezioni. Il perché lo si può scoprire solo leggendo e sudando. Nemmeno un varano riuscirebbe a ingurgitarlo in due o tre bocconi. A me ne sono serviti alcuni di più, mi vergogno a dire quanti.
A pagina 11 de La sostenibile pesantezza delle giustificazioni ri-scopro quel che era già a mia pur inconsapevole conoscenza da un paio d’anni. Roberto Moscardin è uno scrittore senza tempo (pur essendo dotato di uno spazio notevole): “Scriverà così anni fa Gilles Deleuze…” –
Ma quando la finirò d’usare ‘sto stile “Antifrastico” (aggettivo per me significativo, come giustamente fa notare Roberto Moscardin a pagina 248) per ‘sto mirabile (non sto a pazzia’) saggio-fiction? Nescio. È soltanto grazie a‘sto autore che alla fine vengo a sapere quel che disse Gilles: “… nella Differenza e ripetizione. L’importante è dire qualcosa ‘di nuovo, di diverso’.”
E, più diverso di Moscardin, c’è solo Roberto.
Similmente, diceva di sé il noto flautista: meglio di Severino c’è solo Gazzelloni.
Nel libro poc’anzi citato, in una sua nota, Daniele Luttazzi parla del mimetismo letterario. Ogni scrittore imita il precedente. Borges arrivò a formulare il paradosso: ogni autore emula il suo (lettore e poi scrittore) successivo che, qualora lo desideri, ne riprenderà i temi, estendendoli a misura del proprio sé.
Anch’io la penso così. Arrivo talvolta a riprodurre dei duchiampiani ready made di me stesso, delle specie di algoritmi logici che ogni tanto ri-trovano il loro necessario canale di sblocco. Scrivere è essenzialmente ripetere: rigettare sul terreno appena arato quel che già fu seminato da altri. Il fenomeno ricorda la trasmissione genetica delle cellule viventi, ove ogni trasgressione è ammessa: sarà la natura delle cose (de rerum natura) a determinarne la fortuna biologica.
Uno scrittore a me fin troppo caro ricordò ai suoi lettori che scrive è evacuare, mentre per un suo più garbato amico è fare doccia (vedi pagina 225 della opera moscardiniana in parola): due atti quotidiani, il secondo più raro nei mesi gelidi; il primo più quotidianamente vitale. Al che mi vien da ricordare allo scrittore veneto-lombardo-pugliese-romano-parte-nopeo e parte napoletano Roberto Moscardin un detto delle mie parti, che non necessita (per pudore) di alcuna traduzione: sóca côta, mèrda fâta. Anche per tale motivo a Reggio noi galli/boi/latini/goti/unni/arşân tésta quêdra siamo celebri per i tortelli di zucca. Un numero imprecisato di non arşân, a mangiarli per la prima volta si disgustano: troppo dolci!, dicono. A poco a poco, poi mutano la loro doxa: ci sarà di certo un motivo per cui, prima o poi, subentrerà in loro un’incontrovertibile assuefazione a quel cibo antico e glicemico.
Avrei tanto da dire e soprattutto da riportare del libro La sostenibile pesantezza delle giustificazioni di Roberto Moscardin. Basti dire che a metà di esso m’è sopraggiunta una sorta di sindrome di Stendhal, simile a quella volta che provai quando l’amico Nicola Di Vita, concittadino di Leonardo Sciascia, mi condusse a vedere la mostruosa (per tanto è bella) Villa del Casale a Piazza Armerina (EN).
Cercherò di limitare i danni (a me e al mio ipotetico lettore), espungendo le sottolineature meno cogenti. Non sarà né semplice né facile (concetti spesso divergenti, ma qui pressocché coincidenti).
“La scrittura fondamentalmente deve essere imitabile, ri-copiabile, ri-petibile.” – Roberto predilige il grassetto al corsivo, chiaro?
“… ogni esperienza è unica…” – per cui repetita iuvant: che è davvero una battuta d’avanspettacolo.
Nessun rivo che gorgoglia oggi assomiglia al rivo che gorgogliava ieri: però i due rivi, storicamente, gorgogliano in modo analogo. In fisica vale l’analogia fra gli eventi, non la loro indeterminabile uguaglianza. Non vi sono due uomini uguali ma, come dice Agatha Christie, “l’uomo s’assomiglia ovunque.”
“… Se si ammette che il pensato esiste, si deve anche ammettere che l’inesistente non può esser pensato.”: Roberto mio, cosa (non) pensi di quel che si trova all’interno dello spazio di Planck? A quale legge (non) ubbidisce? Esso, che (non) sottende al tutto, è, a sua volta, (non) sub-ordinato a qualcos’altro che (non) esiste o (non) è altrove? Io (non) ci penso spesso. Tu?
Cosa (non) era per Arthur Schopenhauer il velo di Maya? Chi (non) lo poteva squarciare?
“Dunque l’inesistente né si pensa né si (può) comprende(re).” – che sia lui a comprendere te? Vi capite a vicenda? Siete entangled? Sei (forse) certo degli eventuali conati di risposta?
“Se non ci fosse quella ‘parola’ niente sarebbe manifestato, venire compreso dagli altri e, niente potrebbe essere interpretato e, niente sarebbe allora giustificato.” – e, tu cosa ne pensi di, Buster Keaton, che in, scena mai disse la sua, né mai abbozzò nemmeno, un sorriso?
Vedi che sono d’accordo con te: la parola (pure la virgola) è vita. Per il mio prete attualmente preferito (Don Daniele Simonazzi), c’è Parola, non solo parole. Per Epicuro, Dio o non c’è o dorme, oppure è autistico (mia interpretazione: tu pure scrivi ogni volta che certi autori sono da te non banalmente riportati ma da te interpretati).
Come te, come alcuni miliardi di persone, io ho il culto della parola. Leggendo Il cappello scemo di Haim Baharier, scopro che per gli antichi ebrei davar era una cosa, un oggetto, ma anche una parola, non un mero parlare: un ente che parla, un mattone con cui s’inizia a erigere quell’edificio che di solito viene chiamato discorso, libro, opera letteraria. In ebraico arca è tevà, ma anche parola, un qualcosa di salvifico che ti fa superare le avversità, purché usata correttamente. Non basta possederla, bisogna saperla governare. Col rischio di fare la fine di Palinuro!
“La nostra grandezza rimane nella quotidianità…” – ergo, talvolta, nello scrivere, nel parolare.
“E il nodo in gola ti rimane, se non incontri il giusto perché.” – e se fosse l’ingiusto da ricercare (ovunque)? Le particelle quantistiche si misurano con numeri che non esistono in natura (complessi, cioè reali e immaginari addizionati fra loro). Questo ci conferisce un’insana speranza.
Nulla è più rapido del moto della luce nel vuoto (per il fotone il tempo è nullo: come se non esistesse, non scorresse).
D’altro canto, le galassie, più sono lontane, più velocemente (e sempre di più) vanno compiendo la fuga dalle sempre più distanti consorelle. Alla loro velocità d’allontanamento, quella della luce (la c della formula einsteniana E = mc2) a ‘n fa gnân blèdghîn (manco solletichino).
Non entro nei particolari, ma mi limito a considerare che la pagina 51 de La sostenibile pesantezza delle giustificazioni mi convince di questo: o si è tutti dei o si è tutti fedeli. La divinità e la fedeltà non devono essere dei caduchi fenomeni locali.
Pare però che l’Ordine del Kósmos (pleonasmo) sia informato sulla località. Allora? Dov’è ‘sta smorfiosa Verità? Non so più che pensare (e penare).
“Ora lo sapete cosa voglio dirvi. Che quello che leggete e andrete a leggere, è la leggerezza dell’animo umano.”: tutto è relativo, se precipita un masso sopra un sentiero lo sconquassa, facendo brum! Lo stesso capita se cade da un occhio una graspina. In tal caso è il nostro udito che fa difetto.
“Per migliorare il mondo si deve calpestare la grammatica.” – ergo si deve ex-agerare? Forse. Può servire a renderlo più bello o più miserevole. Nel mutamento di ogni sorta di grammatica ci siamo noi, coi nostri vizi, le qualità, i difetti e le eventuali eccellenze.
Citi ogni volta “il Kundera”: “non è possibile rivivere una seconda volta, perché secondo lui non è possibile ritornare a rifare certe cose; perché può essere soffocante e umiliante.” – per tutta la sua vita, egli andò scrivendo l’identico libro, usando nuove e diverse parole (anche Alberto Moravia lo faceva, secondo l’opinione di Sandro Penna; giudizio da me interpretato e un po’ variato).
“Il filosofo non è più quel ricercatore specializzato della verità, ma piuttosto un atleta.” – e qui ti voglio, amico. Il filosofo necessita di paradossi (anche il fisico): parà dòxa, oltre l’opinione comune. È un saltatore d’asta che deve superare quella sbarra tesa che dall’alto pare minacciarlo: ex-agerando. Quel che c’è dall’altra parte, e poi sotto, lo scoprirà solo saltando (e arzigogolando).
“Sin dall’inizio rimane in primo piano il problema del linguaggio…” – quel che crea la correlazione che occorre nell’interazione con l’Altro.
“…ho utilizzato una grande scala con moltissimi pioli impossibili…” – per la mia famiglia questo è un evento che dura da generazioni.
“… ogni cosa ha il suo posto nell’ordine universale…” – caro il mio Cosmo, questo potrebbe essere una giustificazione del tuo nom de plume: Kósmos vuol dire ordine. Un altro è che tu vai a comprare le orecchiette fatte a mano nei vicoli di Alberobello (antifrasi ambiguamente piolesca).
“La storia è dunque: tutto un processo dialettico.” – ove il Kósmos coinvolge in sé anche l’antitetico ed entropico disordine.
“… non si hanno conoscenze, ma si hanno solo opinioni.” – e siamo sempre lì che le esibiamo e ce le gettiamo addosso, come stracci imbevuti d’olio di ricino e d’aceto reggiano.
“Nulla può essere giustificato; ogni cosa può essere criticata…” – tutto, tranne la Parola.
“L’esserCi parla perché ascolta.” – ove l’emittente è strambamente correlato al ricevente.
“Tante giustificazioni per dire semplicemente: ha copiato!, hai copiato, avete copiato tutti!” – tranne forse Krishnamurti… o ha copiato anche lui. Lui predicava la Libertà dal conosciuto.” – da chi l’aveva imparata. Da sé? Tu che ne pensi, Raffaele Catà?
“La parola Fors, sta nella radice della parola Fortuna.” – Caso o necessità, poneva il celebre busillis il biologo Jacques Monod.
Citi spesso i tuoi due romanzi, a cui io rimando i lettori del tuo lettore. Il primo lo definisci complesso e, dici che è piaciuto. Il secondo, più semplice e, libero da granaglie filosofiche, è stato meno compreso e apprezzato. Non so. Per me erano gemelli separati alla nascita. Come anche questo, per quanto sia, eterozigote.
“Il sacro è qualcosa d’altro. È come un fiume.” – che scorre via senza più tornare?
È anche il barcaiolo-Siddharta che t’accompagna, il quale non cerca più la riva per sé, quanto per l’Altro. Questo mi parve di capire leggendo Siddharta di Herman Hesse. Secondo Mircea Eliade il sacro è il terreno che ci accomuna alla divinità (mia consueta interpretazione).
“L’idea che ‘solo Dio ha la verità’, come molte volte si sente dire, è fondamentalmente sbagliata.” – beato te che ne sei (o pari) certo. Essendo un ignorante di Colui Che, non so rispondere a quel Quesito Finale.
Se m’avesse creato, chiedo alla comunità dei fedeli, quale parte del suo verace DNA non m’apparterrebbe? È Dio diviso in (tre?) parti? Cos’è l’Anima? Secondo i Testimoni di Geova essa è il Corpo, e nulla più. Ergo: tutto il Corpo è Dio, allora?
“Dio, sembra incapace di comunicare in maniera chiara.” – forse è la virgola che Lo frega.
Ora ti rivolgi a quel Sommo: “Fammi conoscere il mio delitto e il mio peccato.” – fammi sapere dove ho sbagliato ancor prima di nascere. È un Mistero che divinamente covi tra i peli della tua ispida barba? Allora non ne voglio più parlare con Te. Mi sei divinamente antipatico.
“L’uomo infatti è un dio decaduto.” – e ha battuto rovinosamente la capa.
“L’uso della punteggiatura, a volte la metto a caso ma l’ho mica dimenticata. La punteggiatura la metto per ricordarmi che secondo il mio modo di scrivere ho finito una frase.” – ecco perché Lawrence Ferlinghetti se l’era negata al termine del romanzo Her. Egli sospese, per un attimo, durato circa, 61 anni, la sua scrittura. Ora pare che la stia, forse ultimando, finalmente, e che poi rivedrà per ultimo le bozze con, l’ausilio di San Pietro.
“Scrivo per comunicare uno stato di cose ‘interne altere furibonde istantanee.’” – sei un veneto, che ghe scapa la pasiensa! Ed essa tracima dagli argini, ex-agerando everywhere…
“La giustificazione diventa un vero fatto sociale che, non ha bisogno di essere giustificata…” – se serve a “capire meglio” – qui sono (quasi) del tutto d’accordo.
“La parola è dunque e comunque, prepotente.” – anche il lettore, quando, reagisce scrivendo, e quando, scrive reagendo, necessariamente lo, è.
“Ogni nome nel libro Cosmo è attinente a una cosa e a una Persona, e significa relazione, entrare in relazione con l’altro. Accenti.” – questo è scrivere, secondo il citato Jorge (Borges): ogni opera scritta prosegue il suo cammino nel nuovo sentiero che si biforca insieme al lettore.
“Comprendere gli altri è importante.” – e, come canta Umberto Tozzi, gli altri siamo noi.
Non riporto nulla della Parte 4. Sintesi perché non è ulteriormente sintetizzabile.
Je est un autre: il solito Arthur Rimbaud è inimitabile!
Finora solo l’autore Moscardin Roberto, in arte Cosmo, e con quell’altro nome che ora non rimembro (sono pressoché sotto choc), è capace di fare un’aggiunta oltre l’Indice consigliato. Di questo riporto l’essenziale incipit: Ancora qualcosa da dire? Sì.
Tu parli sempre di Dio e Lui (da tempo immemorabile) sta cianciando di te. Ti parlo allora di Aldino, Padre Aldo Bergamaschi, il mio teologo personale. Quando andai a trovarlo era già col destino che si sarebbe compiuto dopo pochi mesi. Gli chiesi di Dio e lui mi riportò l’idea platonica di massima misura di tutte le cose. Il cosmo è (esiste come) la massima misura delle cose, più grande del concetto di regno animale, di metazoo, di cordato, di mammifero, di primate, di homo sapiens sapiens. Costui è se stesso, ma anche primate, mammifero, cordato, animale, cosmo. E Dio non può essere da meno, credo (anche se non professo più!). È una specie di pseudo-panteismo, in cui può imbucarsi anche il Dio-Principio einsteniano. Perché l’Altro, il dio, è Altrove. In questa logica la transustanziazione appare come l’ennesima assurdità cattolica, falsificabile da uno studente al primo anno di scuola media. Anche questo fece dire ad Aldino che, dimenticato l’esperienza di Cristo, il cattolicesimo era ormai scaduto al rango di religione, come tutte le altre, se non peggio.
Nel Teeteto Socrate paragona l’uomo che è in lui a una levatrice che aiuta gli altri a partorire. Di fatto egli, anche grazie alla sua levatrice Platone, ha partorito me, te, Gino Ruozzi e infiniti bebè.
Anche tu l’hai fatto, Roberto. Per la terza e mi auguro non ultima volta. Nel mentre son qui che t’aspetto, al momento desidero soltanto rinnovarti le mie mille e una grazia.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Roberto Moscardin, La sostenibile pesantezza delle giustificazioni, Amazon, 2023
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