“L’amor sacro e l’amor profano” di Tiziano: il significato dell’opera ed il mistero della committenza
Fra le tele più straordinarie della Galleria Borghese di Roma L’amor sacro e l’amor profano di Tiziano Vecellio è probabilmente quella davanti alla quale i visitatori si attardano più a lungo. E se sono accompagnati da guide turistiche improvvisate, essi avranno diritto alla classica quanto sommaria spiegazione del titolo, incentrata sulla distinzione tra la figura sacra e quella profana.
E una volta appurato che la donna vestita personifica l’amore profano e quella nuda l’amore sacro, la questione potrebbe dirsi conclusa, almeno per i turisti. E non solo per i turisti, ma d’ora in poi anche per gli spettatori de Il sol dell’avvenire, l’ultimo celebratissimo film di Nanni Moretti, nel quale a un certo punto salta fuori a sorpresa Corrado Augias, sì proprio lui, con in mano una riproduzione de L’amor sacro e l’amor profano per fornire dallo schermo la stessa frettolosa spiegazione che ai visitatori della Galleria Borghese può capitare di sentirsi dare.
Le cose, però, oltre a non esser soltanto quel che sembrano, spesso non sono neppure quel che non sembrano. Ma qui conviene andare con ordine.
Nei primi anni del Cinquecento, mentre il vecchio Leonardo è intento ai suoi studi di anatomia e matematica, mentre Michelangelo scolpisce lo Schiavo morente e Raffaello lavora agli affreschi per la villa di Agostino Chigi (Farnesina), Tiziano Vecellio, senza che nessuno a quanto pare se ne accorga, realizza L’amor sacro e l’amor profano, uno dei dipinti più misteriosi della storia dell’arte. Misterioso non tanto per i problemi interpretativi che solleva ‒ in tal senso diverse opere lo sono altrettanto (si pensi ad esempio a La tempesta di Giorgione) ‒ quanto per le circostanze da cui trae origine questo famoso capolavoro.
Nel 1515, anno in cui sulla base di valutazioni rigorosamente stilistiche viene fatta risalire l’esecuzione del dipinto, Tiziano ha venticinque anni, ma per i suoi contemporanei potrebbe averne ventisette, o addirittura trentanove, stando al vezzo che aveva l’artista di aumentarsi l’età. Comunque sia, diversamente da quanto è solito fare, Tiziano non lo firma, né vi appone alcuna data. Inoltre, quasi vi fosse un’occulta volontà di ignorarne l’esistenza, scompaiono, se mai sono stati redatti, i documenti a comprova della committenza, non una traccia rimane di pagamenti in anticipo o a saldo dell’opera. Non ne parla Pietro Bembo, amico del pittore, col cui celebre testo, Gli Asolani, il quadro di Tiziano non è certo privo di relazioni; non ne parla lo Speroni, che in un suo bellissimo Dialogo d’amore rende a Vecellio un omaggio appassionato, non lo cita nelle sue famose Lettere l’Aretino, e, fatto ancor più sorprendente, non ne parla il Vasari biografo.
Così per circa un secolo e mezzo, questa tela dalle dimensioni peraltro ragguardevoli (118 × 278 cm) sembra restare a tutti sconosciuta. La prima testimonianza risale al Ridolfi, che nel 1648, riferendosi a un quadro visto nell’abitazione del principe Borghese, ne fornisce una descrizione sommaria ma inequivocabile: “due donne vicine ad un fonte a cui si specchia un fanciullo“.[1]
La presenza dell’opera a Palazzo Borghese viene in seguito segnalata da diversi altri testimoni, che la descrivono di volta in volta in vario modo: “dei tre Amori” (Manilli, 1650); “Amor divino e Amor profano con un Amorino che pesca dentro una vasca” (Invent. Borghese 1693); “due figure di donne sedenti, una con candida veste con un amorino dopo e l’altra ignuda” (Montelatici, 1700), etc. Ma la denominazione definitiva, poi universalmente accolta, si trova formulata per la prima volta nel 1791 in una guida di Giuseppe Masi: “L’amor sacro e l’amor profano”, titolo inappropriato, come ormai è noto dopo gli studi che fin dall’Ottocento l’hanno messo in discussione.
Il quadro in realtà non ha mai avuto un titolo, come non ne hanno avuto gli altri quadri di Tiziano o di altri maestri, i quali, come è noto, usavano assai di rado intitolare le loro opere. La moda di dare titoli alla produzione pittorica si è affermata verso la fine del XIX secolo, in particolare a partire dall’Impressionismo.
L’amor sacro e l’amor profano si trovava dunque nella collezione dei principi Borghese già nel XVII secolo, ma nessuno sa quando e come vi entrò. Anche in questo caso, come se non bastassero i misteri che hanno circondato l’opera fin dalla sua creazione, mancano i documenti che attestino a quale titolo i principi romani ne divennero proprietari. Sia come sia, l’attenzione nei confronti del quadro si intensificò negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, in occasione dell’acquisto da parte dello Stato Italiano dell’intera collezione Borghese.
È interessante ricordare che nel momento in cui era già stato raggiunto un accordo in base al quale lo Stato Italiano, dopo sofferte e complesse valutazioni, avrebbe comprato l’intera collezione per 3.600.000 lire, i Rotshild tentarono, con un’offerta cui i Borghese dovettero rinunciare a malincuore, di aggiudicarsi il solo Amor sacro per 4 milioni di lire. Un’offerta da capogiro per quei tempi, se si pensa che il Giovane col canestro di frutta facente parte della stessa collezione, pur considerando la discussa fama di cui godeva allora Caravaggio, fu valutato solo cento lire.
Ma è forse il caso di porsi davanti alla tela di Tiziano fingendo magari di vederla per la prima volta. A colpire lo sguardo sono innanzitutto due donne bellissime, una nuda l’altra vestita, sedute sui bordi di un sarcofago. Tra l’una e l’altra subito dopo si nota un fanciullo ‒ un cupido ‒ intento ad agitare le acque del sarcofago che sul lato frontale presenta a rilievo due drammatiche scene. Al di là delle figure femminili si aprono due diversi paesaggi: vagamente rannuvolato e architettonicamente complesso quello alle spalle della donna vestita, semplice e sereno quello dietro la donna nuda. Guardando più attentamente si colgono altri dettagli: alla sinistra due lepri, poi, più in lontananza, un cavaliere che si dirige verso la città turrita; sullo sfondo di destra un pastore col suo gregge, una scena di caccia e una coppia di amanti.
A questo gioco di contrapposizioni non si sottraggono i colori. Al bianco dell’abito della donna vestita fa da contrappunto il mantello rosso della donna nuda. Sulla stessa zona del corpo ‒ quella del sesso ‒ i due colori si invertono: rossa è la manica, quasi una macchia, sull’abito bianco, bianco è il leggero drappeggio sugli inguini, posta quasi a raccordo tra i lembi del mantello rosso.
Se ci si lasciasse tentare da facili simbologie, istigati magari proprio dal titolo che nella figura vestita suggerisce la personificazione dell’amor profano e in quella ignuda dell’amor sacro, nel rosso e nel bianco che ricoprono i due grembi potremmo perfino leggere un’allusione a due opposti valori, destini, o condizioni femminili. Ma è preferibile evitarlo e limitarsi ad ammirare più semplicemente, nell’abbigliamento delle due figure, l’alternarsi del rosso e del bianco come puro ritmo, come sapiente scansione di valore squisitamente tonale.
Una volta capito ciò che il quadro rappresenta, la domanda più ovvia che ci si pone è infine: che cosa significa?
Taluni interpreti hanno sviluppato la loro ricerca prevalentemente in chiave allegorica, partendo da un principio di opposizione di due concetti morali corrispondenti di volta in volta alla dicotomia “donna nuda / donna vestita”. Altri, pur contrapponendo similmente le due figure, hanno tentato una lettura in chiave mitologica. Altri ancora hanno guardato il quadro cogliendovi un senso dialogico (la donna nuda parlerebbe all’altra, ovvero l’esorterebbe all’amore), cercando quindi una fonte d’ispirazione storica o letteraria.[2]
Un saggio ancora oggi considerato fondamentale è stato scritto negli anni Trenta del Novecento da Ervin Panofsky, il quale scandagliando con rara sottigliezza la cultura veneta del Cinquecento ha messo in luce l’influenza che nell’ambiente di Tiziano ha potuto avere la filosofia neoplatonica di Marsilio Ficino. Secondo il pensatore fiorentino, nel creare con un atto d’amore l’universo, Dio si sarebbe manifestato, si sarebbe rappresentato in esso. E in esso l’unità divina si ritrova ordinata per gradi secondo una scala di valori che dal più basso, quello del corpo, arriva attraverso l’anima al grado o valore più alto, che è Dio.
Strettamente connessa a tale concezione è la teoria dell’amore, amore che è desiderio di bellezza, come Pico della Mirandola l’ha definito. A simbolo di tale bellezza diffusa nell’universo, assurgono le due Veneri Gemelle, la Venere Celeste guidata dall’amore divino, e la Venere Terrestre dall’amore umano. Partecipando, ciascuna a suo modo, al disegno di bellezza che anima l’universo, entrambe le Veneri sono egualmente degne di lode e di onore.
E sono proprio le Veneri Gemelle che Panofsky identifica nelle donne della tela di Tiziano. Nessuna opposizione deve dunque intendersi fra le due figure, le quali “… non esprimono un contrasto tra il bene e il male, ma simboleggiano un unico principio secondo due modalità di esistenza o due gradi di perfezione.”[3]
In anni più recenti, a fianco di altri dottissimi studi, taluni ricercatori si sono mossi su piani diversi, e con indagini che sconfinano, oseremmo dire, nel poliziesco, sono riusciti a ricostruire la trama dei fatti che sono all’origine della realizzazione del quadro.
Già all’inizio del secolo scorso, nell’emblema che compare dipinto su un rilievo del sarcofago uno studioso aveva identificato lo stemma degli Aurelio, ricca famiglia veneziana, un componente della quale, Niccolò, era stato amico di Tiziano. A questa scoperta per molto tempo non fece caso nessuno, fino a quando, nel 1975, un altro studioso H.E. Wethey, non credette di riconoscere in un diverso dettaglio della tela (il fondo del bacile posto sul bordo del sarcofago) lo stemma di un’altra famiglia, quella dei Bagarotto, una delle più illustri della società mantovana del tempo. In realtà quest’ultimo stemma risulta pressoché illeggibile, ed è probabile che Wethey sia caduto in errore. Ma a volte gli errori hanno il bizzarro potere di indicare scorciatoie per arrivare alla verità. In questo caso in effetti, una volta concentrate le ricerche sulla famiglia Bagarotto, è stata portata alla luce una vicenda che può porsi senz’altro in rapporto con la tela di Tiziano.
Vale la pena riassumere.
Nel 1509 Bertuccio Bagarotto viene condannato a morte per tradimento dal Consiglio dei Dieci della Serenissima.[4] Del Consiglio fa parte Niccolò Aurelio, il quale partecipa all’accusa, alla condanna e alla confisca dei beni dei Bagarotto. Poi, a sorpresa (ma sarebbe interessante indagare sulle reazioni dei contemporanei), nel 1514, a soli cinque anni dalla sentenza, Niccolò Aurelio sposa la figlia del giustiziato, Laura Bagarotto, una donna già vedova e forse non più giovanissima. Alla quale, il giorno prima delle nozze, il Consiglio dei Dieci restituisce i beni dotali.
Ce ne sarebbe abbastanza per un romanzo a forti tinte, soprattutto perché si ignora come sia andata a finire la storia d’amore di questa nobile coppia di sposi. Rinunciando per il momento a un’indagine mirata in tal senso, quel che ora deve interessare è soprattutto la conclusione, ovvero la serie di conclusioni cui arriva la sorprendente vicenda. Va da sé che alla luce dei fatti Niccolò Aurelio diventa il committente della tela di Tiziano. Se poi si considera l’anno d’esecuzione, il 1515, ne consegue che l’opera è stata dipinta in occasione delle nozze tra Laura e Niccolò; a questo punto nessuno storico potrebbe dubitare che si tratti di un quadro di matrimonio. La donna vestita è dunque in abbigliamento da sposa: abito bianco, manica rossa, capelli sciolti, corona di mirto, tutto troverebbe conferma nei canoni dei costumi cinquecenteschi miratamente studiati in specifici trattati. Accanto a lei è Venere, che la guarda e l’ispira come si conviene, e le somiglia, ovviamente, perché la sposa si vuole innamorata, e l’amore non può somigliare ad altro che all’amore. Il Cupido, che ha già scoccato la sua freccia, mescola l’acqua che dal beccuccio di scarico del sarcofago si riversa su un germoglio con evidente allusione alla rigenerazione della vita.
Ciò detto, la ricostruzione storica che ci avvicina alla realtà dei fatti, non può esaurire il discorso sul significato della tela, né tantomeno inficiare la lettura degli interpreti che l’hanno in precedenza studiata.
Preso atto delle nozze dei due personaggi, se ne può tuttavia tener conto solo entro determinati limiti, e non fino al punto di dover identificare nella donna vestita proprio la moglie di Niccolò Aurelio. La sposa del quadro di Tiziano non è Laura Bagarotto, non è neppure il suo ritratto, ma un modello ideale di sposa, un’espressione squisitamente concettuale che tende all’assoluto, non lontana dunque dalla ficiniana Venere Terrestre identificata da Panofsky. In definitiva, i veri protagonisti del dipinto sono la bellezza e l’amore, e le splendide figure muliebri in cui sono allegorizzati, si espongono sulla scena quali entità immote, eterne, che in quanto tali possono personificare soltanto categorie universali.
Considerato tutto quanto precede, il significato più profondo della tela resta nondimeno inafferrabile. Si è del resto accennato solo ad alcuni dei problemi che l’opera pone ai suoi interpreti, i quali continuano con tenacia a investigare su altre soluzioni possibili. Pensando a loro, non si può tuttavia fare a meno di pensare anche a quanti in passato si sono avvicinati al dipinto e lo hanno amato senza nulla capire. In mente vengono subito i Rothschild e la fortuna che avevano offerta per entrarne in possesso. Il loro amore per il quadro era forse meno legittimo di quello degli esperti che lo hanno studiato? È una domanda che non trova risposta, nessuno sapendo quanto possa l’amore dipendere dalla comprensione dell’oggetto amato.
Dall’alto della sua sapienza filosofica Benedetto Croce sosteneva che per apprezzare un’opera d’arte non è assolutamente necessario comprenderne il significato. E a tal proposito può venire in mente Edvard Munch, il quale, a chi pretendeva spiegazioni sul significato di una sua tela, rispondeva di non saperlo neppure lui. In definitiva, un dipinto, quale che sia la sua forma o il suo stile, dovrebbe essere accettato non perché lo si capisce (al limite lo si potrebbe addirittura fraintendere), ma perché lo si sente, se ne avverte in qualche modo l’energia, sia essa innovativa, conservativa, o distruttiva. Infine, oltre il contesto dell’arte, ci si può perfino chiedere se un uomo o una donna abbiano davvero bisogno di sapere, per amarla, come o di cosa sia fatta davvero la persona amata.
Va infine ricordato che il quadro di cui si sta parlando ha recuperato tutto il suo splendore grazie a un importante restauro realizzato negli anni Novanta del secolo scorso. Per darne debitamente conto, nel 1995 fu allestita un’interessantissima mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma. In quell’occasione, oltre ad alcune altre tele di Tiziano, si poterono ammirare opere di diversi autori suoi contemporanei, tutte scelte secondo criteri di affinità tematiche. Fra queste spiccava il Ritratto di Marsilio Cassotti e della sua sposa Faustina di Lorenzo Lotto, tela assolutamente straordinaria, la sola, ad avviso di chi scrive, in grado di meritare un confronto con il quadro di Tiziano.
Dal piano spiritualissimo e squisitamente allegorico dei valori universali dell’Amor sacro, si passa con la rappresentazione di Lotto a una visione del mondo di quasi brutale evidenza. Gli sposi, che qui hanno nomi e cognomi precisi, si possono addirittura immaginare alle prese con immediati, e tutti terrestri, impegni coniugali. Nessuna trasfigurazione per loro è possibile, nulla di bello ‒ nel senso tizianesco del termine ‒ li connota. Lotto non pretende di assegnare alla scena matrimoniale alcun altro significato, non mira a riscattarla dalla sua concreta, quasi tattile realtà. I due sposi vi si trovano ritratti per quello che sono, con tutto il peso dei loro corpi, senza alcuna annotazione idealizzante, senza neppure un’allusione al valore morale del loro contratto. Non indulge a illusioni lo sguardo del pittore sulla donna, una giovinetta dall’espressione alquanto vaga, quasi inconsapevole di ciò cui si appresta. Non più clemente è con l’uomo, un signorotto dall’aspetto comune, sufficientemente appagato dal suo rango, comodamente adagiato nella propria compiacenza.
Tra i due è un simpatico Cupido, in atteggiamento poco consono invero, con quel sorriso maliziosamente ammiccante con cui guarda lo sposo, a una divinità dell’amore. L’arco col quale avrebbe dovuto scoccare la sua freccia (ma le frecce, nella faretra, sembrano ancora tutte al loro posto) si trasforma sulle spalle degli sposi in un giogo, il solo elemento capace di unire questa coppia assortita dal caso, già insidiata peraltro dalla noia. Nulla, nelle due figure, rimanda a un altro luogo, nulla allude a un divenire qualsiasi del loro destino. Lo spazio è chiuso. Dietro di loro nessun paesaggio si apre a consentire fughe di sorta, né a chi osserva, né tantomeno ai due protagonisti, i quali vengono mostrati, nonostante lo sfarzo del loro abbigliamento, entro i confini di un’umanissima quanto scontata condizione.
È noto che il tempo in cui visse Lorenzo Lotto fu assai avaro con lui di riconoscimenti. Non poteva certo competere con l’autore dell’Amor Sacro; quella ricerca, quel tendere alla bellezza assoluta non lo riguardava, non mirando egli al sublime come i massimi pittori del Cinquecento. E se fu quasi ignorato, si potrebbe forse sospettare che i suoi contemporanei non capissero il gusto della trasgressione, né il gioco, né l’ironia di cui la sua opera è pervasa, e che nessun altro possedeva al suo livello. Oppresso da debiti, malanni, incomprensioni e disagi d’ogni sorta, negli ultimi anni della sua vita egli vagò da un luogo all’altro lasciando ogni volta testimonianze altissime della sua arte. Ben più luminosa carriera, nel medesimo tempo, toccava in sorte al suo grande rivale Tiziano Vecellio.
Written by Riccardo Garbetta
Note
[1] C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte, 1835- 1837, vol. I, pag. 257.
[2] Cfr. M.G. Bernardini, “L’amor sacro e l’amor profano nella storia della critica”, in TIZIANO, Electa 1995.
[3] E. Panofsky, Studi di iconologia, Einaudi, 1975, pag. 208.
[4] Nel 1509 Venezia, contro cui erano rivolte le potenze della Lega di Cambrai, aveva subito una grave sconfitta militare, nella quale aveva perso, tra l’altro, il dominio sulla città di Padova.