“L’affittacamere” di Valerio Varesi: il grottesco come cifra del mondo
C’era una volta un commissario…
La favola, si dice, ha sempre una morale, quella dell’autore che l’ha scritta, deducendola dalla storia della propria vita. Si dice infatti che la storia è maestra di vita. Aggiungerei che anche la vita è maestra di storia. I due eventi sono collegati. La storia di ognuno può essere d’insegnamento all’Altro, ma innanzi tutto a se stesso. Questo lo dico per un unico motivo: è così banale che poco ci si pensa.
Al commissario Soneri de “L’affittacamere” di Valerio Varesi: “il Natale, ricordava un fuoco di faggio nella stufa e il rumore del cucchiaio sui piatto d’anolini in brodo.”
Un giorno vorrei lasciare a quel noto buongustaio la responsabilità di diversificare le qualità morali di anolini parmigiani, cappelletti, sia reggiani che mantovani, nonché di tortellini felsinei, lasciando perdere talune differenze materiali (con o senza carne) o la grandezza della pasta, puntando invece sull’effetto salvifico delle singole pietanze e sulla catarsi che ne deriva. E di presentare un resoconto scritto all’inclito professore Gian Mario Anselmi, con cui poi provvederà a discutere la tesi.
Quel che differenzia il commissario Soneri dai suoi colleghi è l’attenzione speculativa del particolare, che è mirata a comprendere il senso generale. A lui non interessa soltanto capire chi è l’assassino, ma soprattutto comprendere come quello è arrivato al delitto; in altre parole: l’effetto cosmico che l’ha indotto a compierlo.
I libri di Varesi non sono semplici gialli, ma dei trattati di psicologia filosofica e sociologica: un tentativo di scoprire in quale gorgo energetico è sorto il movente, chi l’ha smosso, per caso o per necessità, e dove si concluderà la storia. Se mai si concluderà…
Il principale colpevole è sempre lui: il destino (da de-stinare: spostare di luogo), quel che smuove l’umanità da uno spazio-tempo all’altro. L’assassino è una delle sue vittime, forse la principale, ma anche un suo complice. Egli poteva tentare di evitarlo, se avesse lottato contro di lui. Ma non sempre ci riesce, non sempre ne ha intenzione.
È stata sgozzata una vecchia: “l’hanno uccisa come si uccide il maiale.”
Soneri doveva condurre la sua indagine in un luogo dove “la nebbia fitta alzava una morbida muraglia tutt’intorno. Come sempre, era la più efficace rappresentazione dei suoi pensieri.” – quel che egli visualizza chiudendo gli occhi. Al cinema e a teatro la platea ha bisogno dell’oscurità per vedere le scene rappresentate.
Dice alla sua compagna Angela: “Ogni cosa, in quest’indagine, mi butta dentro al mio passato. E tu sai che farsela con il tempo è impossibile.” – e col cielo che è pieno di aria che, palesando se stessa, ti cela il resto, non è facile capirci qualcosa. L’unica, allora, è puntare all’essenziale. E speriamo che almeno quello…
Egli sa che la vecchia, tanti anni fa, aveva alloggiato Ada, la moglie di cui è tristemente vedovo, in una delle sue tante case, e lì lui l’aveva conosciuta.
La scelta che Soneri fa al momento è di andare al ristorante, con Angela. Il rapporto fra i due è problematico, ma se non ci fosse sarebbe un bel problema per entrambi.
In quel nebuloso luogo del mondo sono cessate alcune certezze che parevano eterne: al posto del forno di Maren, ora “c’è un negozio di telefonini”. Anche nei pressi di casa mia, in via Adua, al posto del secolare alimentare Catlân, ora c’è uno spaccio gestito da cinesi.
“Le città sono come bambini: cambiano di anno in anno e se stai un po’ senza frequentarle non le riconosci più.” – e nessuno più riconosce nemmeno te. Quasi nessuno, il che è quasi peggio.
Valerio Varesi è uno scrittore di tipo figurativo, uno che sa gestire le similitudini, le allegorie, le metafore: Soneri “si buttò in avanti come un rugbista intuendo l’altro molto vicino, ma fu un tuffo nel nulla oscuro verso lo slargo dei viali in cui si affacciava il vecchio macello.” – l’altro è a volte colui che scappa, e a volte sei tu che lo impersoni, per cui occorre rintracciare l’altro per rinvenire se stessi. E finché quello scappa, non è un male assoluto, perché così ha senso continuare la ricerca.
Dice Fadiga, ex assistente universitario, oggi un invisibile e vagante barbone: “Questa vita è una corsa spietata e a me è capitata la sfortuna di bucare una gomma…” – a causa di una gonna: la sua ex l’aveva mollato, e fu per lui la fine di un sogno. E continua la sua metafora: “Ho provato a raggiungere di nuovo il gruppo, ma correvano troppo forte.” – è la velocità che a volte ci frega, il non essere mai per tempo colà. E poi insiste a dire: “Per uno come me sarebbe ridicolo pensare al futuro e troppo doloroso rivolgersi al passato.” – senza più le illusioni che rimangono agli altri.
Carpe diem, si dice, ma quando sei giunto a ridosso del mare, che fai? Ti butti? O rimani a fissarlo?
La morta, Ghitta, che soprannome!, “aveva a che fare con gente ricca e potente e lei era solo un’affittacamere. i potenti rispettano solo i potenti. gli altri li usano. e quando non servono più…” – un bicchiere che cade per terra, finché è in aria è ancora un bicchiere, ma poi… poi è disordine cosmico, cessazione della propria funzione, pattume da riciclare.
A pagina 70 scorgo un uomo “immobile”, che poi finisce chissà dove, “eclissandosi infine nel buio di una cappella a sinistra dell’altare” e “ora era nel buio anche lui mentre tutto in quella chiesa pareva indifferente” – una singolarità, in cui il tutto decade per poi attirare quel che ancora per poco si crederà una particella individuale.
Sempre però si confida nella “luce incerta delle lampadine” che pare sciogliere “il buio in penombra”. E poi avviene il miracolo di “un citofono con il quale si poteva ascoltare la storia della chiesa. Bastava inserire cinquanta centesimi per illuminare i tesori sui muri di cupole e navate.”
Che bella avventura è l’arte: “la luce balzò fuori dagli angoli nascosti e irruppe a moltiplicare lo spazio sfondando l’oscurità.” – nulla riscalda di più il cuore degli uomini quanto una luccicante illusione!
Intanto quell’altro, fugace “s’avviò verso la porta, ma con calma, ripetendo a ritroso il percorso compiuto poco prima. Quando uscì nell’alba nebbiosa, Soneri l’aspettava già, seminascosto dal portone di un palazzo.” – un’ombra quasi implacabile, ma non come il fato che, lo sento, non esiste. Anch’io posso dire la mia e oppormi alle leggi del cosmo. Anch’io sono una parte di esso. Anch’io posso fallire. Ogni singola goccia dell’oceano ha una pur minima volontà d’esistere per proprio conto.
Quell’uomo è un certo Pitti (femmineo soprannome), che ora gli sta dicendo: “del lato oscuro di Ghitta” che “è una mezza luna, metà in luce, metà in ombra.”
Soneri sa bene che ormai “più ci si addentrava più s’accorgeva che, in definitiva, quella era un’indagine su se stesso. E ciò che gli appariva di volta in volta era tutt’altro che piacevole.”
Sono discorsi che poco mi piacciono: “Molti sono morti perché i poveri muoiono giovani. gli altri si sono arricchiti e si sono fatti la vlletta fuori città.” – può capitare anche ad alcune radiazioni presenti nel buco nero, a quanto assicurano i cosmologi.
Soneri e Angela (chissà perché l’uno è identificato col cognome e l’altra col nome?): due particelle correlate, che ogni volta girano in maniera inversa: “Soneri si sentiva addosso troppa malinconia per poter alleviare quella di Angela, ma al tempo stesso non voleva apparire egoista ignorandola.” – lo stesso ragionamento lo faceva Orfeo con Euridice e Tristano con Isotta, almeno a sentire Denis de Rougemont, autore de L’amore e l’Occidente.
Soneri cerca “qualche antidoto” e lo trova: “Vide la trippa aggiunta a matita in fondo: ci avrebbe intinto mezza micca di pane. quindi ordinò una bottiglia di Bonarda.” – conosco un piacentino che per scolarsene un litro, se ne fece due di Gutturnio.
Gli dice l’amante (perché tale, a volte anche in pratica, è Angela): “Non puoi cambiare ciò che è già accaduto, quindi è inutile che ci pensi. Se facessi lo scrittore potresti cancellare una pagina e riscriverla, ma nella vita non si può mai tornare indietro.” – ora, con la videoscrittura, tutto è possibile. Ed è per questo che forse si continua a scrivere.
Soneri abbozza una difesa: “Io cerco solo di ricostruire più precisamente quello che è successo. Mi sforzo di attribuire un significato alle cose. Ma vado per tentativi. Il mio campo è quello del plausibile.”
Sta’ attento, Soneri, che Angela è una leguleia e ha la lingua di falce: “certe volte azzardi ipotesi spericolate come nel caso di Ada. Con il mestiere che fai devi saper controllare gli eccessi dell’immaginazione.” – ma questo non vale per te, Valerio.
A pagina 91: “L’intermittenza nevrotica della luminarie indorava la nebbia a ondate” – e il tutto galleggia “in quella penombra silenziosa”, per cui Soneri “entrò al buio urtando sedie e rovesciando pile di carte.”
Tutto è oscuro e nebuloso. Non è un noir, il tuo, Valerio, semmai è un floue, un brouillard…
“Con le luci spente, la città gli parve scialba quanto una ballerina senza paillette.” – non così ducale come pretende di essere di giorno.
“… sapeva che dietro la sofferenza si nascondeva una sconfitta.” – sarà anche un pensiero banale, ma bisogna che me lo scriva da qualche parte.
Poi, come ogni dì, “da lì a poco il cielo si sarebbe richiuso intrappolando il buio tra le case.”
Un principio su cui si basava il comportamento di Ghitta e su cui non vale la pena discutere “senza i soldi, tutto il male sarebbe tornato in un colpo solo…”, lei che veniva dal fondo ben lo sapeva. Si dice ad Amalfi (città talvolta citata nel corso della storia) che i soldi non danno la felicità, figuriamoci la miseria! E anche: i soldi fan venir la vista ai cecati, illudendo chi è orbo di beni che la sua resurrezione, che pur tarda un po’, sarà un giorno a tempo indeterminato.
La Ghitta aveva fatto di tutto nella vita, pur di racimolare soldi e per comprare case e per dimostarre al mondo di non essere una Guitta qualsiasi, ma La Ghitta! Mentre Soneri va a mangiare, io vado a letto.
Intanto, continua il duello verbale fra i due. Angela dice: “Non dici sempre che anche le inchieste che conduci non portano a svelare sul serio i fatti, con tutto il grumo inestricabile delle motivazioni, dei sentimenti, delle emozioni che li causano?”
Risposta del Nostro: “No, certo, io riesco solo a descriverli. Ma è tutto ciò che mi chiedono…”.
Controreplica del Pubblico Ministero, funzione spesso svolta dall’amata e talvolta disdegnata compagna: “Anche due persone che vivono assieme non si conoscono mai abbastanza: c’è sempre una parte di ciascuno che resta in ombra, un non detto che si custodisce gelosamente. Succede pure a te e a me.”
Ogni rapporto umano è in fondo una commedia dell’arte. E quando uno dei due attori muore, a volte lascia una fitta nebbia che offusca il proprio mistero. Così avvenne con Ada. Perché, si chiede il commissario, perché sua moglie un tempo abitava in quella casa? Cosa gli aveva celato della sua vita, eclissandosi per sempre in quel Buio Definitivo?
Soneri “avrebbe voluto che la nebbia l’avvolgesse fino a renderlo invisibile.” – amorevole come una madre.
“‘Le persone sono come la nebbia’, sentenziò il barbiere, ‘vedi solo grigio e poi, di colpo… E spesso è troppo tardi.’” – ma come insegnava il maestro Manzi, Non è mai troppo tardi per cercare di imparare.
Quella Ghitta “viveva per accumulare. Avrebbe ammazzato un pidocchio per cavargli la pelle.” – per questo, sia di qua che al di là dell’Enza, il taccagno è detto pèla, pelle, oppure piôc, pidocchio.
Una similitudine che è insieme allegorica e metaforica (così son certo di non sbagliare del tutto): “Un becchino aspetta come un grosso avvoltoio nella nebbia” – ma anche lui, prima o poi, perirà.
Ora “una brezza oziosa rimestava la nebbia in Piazza Garibaldi ormai svuotata di gente”.
A Soneri si può voler bene, ma non è, ammettiamolo, un tipo empatico: “biascicò un grazie, ma aveva già chiuso la comunicazione.” – prima gli sarebbe costato di più. È pidocchioso per quanto riguarda i rapporti umani.
“… non sapeva abbandonarsi ai suoi sentimenti, quasi che il farlo lo spaventasse” – questo gli capita specie quando sente il traguardo vicino: “tutti gli altri pensieri persero importanza, lasciando il posto a uno solo, ossessionante: quello che lo porterà in avanti nella sua maledetta indagine.”
Questo capita a chi sta creando un’opera artistica. E per Soneri le sue indagini sono sinfonie del tipo La donna è mobile, che è anche la soneria del suo cellulare.
Qualcosa accomuna gli scrittori Valerio Varesi a Mavie Da Ponte, di cui ho da poco terminato di leggere Fine di un matrimonio: la figuratività delle loro descrizioni (non solo similitudini, ma veri e propri affreschi, nonché ritratti dei personaggi, anche di secondaria importanza), e poi: il veder cambiare il mondo che ci circonda, con questa gente che viene dal Sud o dall’Est del mondo e che occupa gli spazi in cui noi ricordiamo che una volta. Non c’è, in nessuno dei due autori, alcun intento discriminatorio. Colgo, nelle loro descrizioni, un vago stupore. La differenza maggiore fra Saleri e la Berta narrata nel romanzo citato è che il primo, nel cibo, non si adegua, e insegue sempre il meglio, mentre la seconda finisce per accontentarsi ogni volta di kebab e di pizze surgelate.
Per entrambi, una storia, di per sé intrigante, diventa come rutilante grazie a quelle innumerevoli gemme impazzite!
Mi permetterei di suggerire loro la lettura di The end of time del fisico britannico Julian Barbour, di cui ricordo l’allegoria del tempo, ridotto a un insieme di cartoline appese a un ciappetto, tante configurazioni di stati fisici che formano una specie di unità. Julian era uno studioso valente, ma non accademico, e quindi si poteva permettere questo ed altro. Il suo libro, che mi appassionò tantissimo, ispirò scienziati come il nostro Carlo Rovelli.
Il tempo è un mistero che va al di là di se stesso. Tutto è vanità, è scritto in quel libro sacro.
“Il commissario si teneva a una distanza sufficiente a non farsi scorgere, in questo favorito dalla nebbia.” – che a qualcosa serve.
Un’entropia cosmica (ma ogni cosa prima o poi si riformerà): “Questa città è andata in pezzi e non si trovano più i cocci.” – avendo mutato le proprie sembianze.
“Mentre osservava via Saffi deserta, impolverata da galaverna…” – pure a Reggio la chiamiamo così, ma diciamo anche galabróşna, che in italiano è calabrosa, la brina ghiacciata seminata dalla nebbia. È un gioiello che solo chi lo conosce fin dall’infanzia riesce ad apprezzare, un manto argenteo che adorna i campi, e che ai tropici forse non ci invidiano, eppure…
Eppure aiuta a far meditare Soneri sul fatto che anche per il luogo più caro all’anima verrà il giorno del commiato: “in quel momento era convinto che non sarebbe più tornato lì. Per questo viveva intensamente quegli istanti percependo il peso insopportabile di un passato con cui era venuto a chiudere definitivamente i conti”. La nebbia sembra dividere i parmigiani dai reggiani ma, al contempo, maternamente, su quel ponte dell’Enza, intriso com’è da quei lucenti aghi ghiacciati, finisce per unirli.
“Verso le quattro il sonno lo colpì a tradimento e quando si svegliò, benché il buio e la nebbia fossero rimasti identici, seppe che la città stava risvegliandosi…” – e come sa chi è venuto dal sud e ora abita da queste parti, il più è farci l’abitudine. In fondo è rassicurante guardare in faccia l’aria che si respira.
Quasi tutti i segreti sono svelati, uno più doloroso dell’altro, anche e soprattutto per il Nostro.
“L’inchiesta su Ghitta era conclusa, ma non si sentiva per nulla vincitore. Sapeva che gli sarebbero rimaste per sempre le cicatrici. E quel senso di vuoto, di cammino senza una meta simile a tante se passeggiate nella nebbia.” – e qui io terminerei la mia reazione, essendo ormai sazio di tante informazioni.
Soneri, e il suo fedele scrittore, mi ripetono ogni volta quel che già so, ma che tento ogni volta di scordare. E per questo vorrei ringraziarli, sia pure coi denti digrignati.
Putroppo non è ancora finita.
Ora Soneri è venuto a conoscenza dei particolari legati all’evento doloroso che colpì la sua Ada. Non ne esce di certo impoverito, però, “in quel momento gli pareva che il grottesco fosse la cifra del mondo. Anche di se stesso, da quando aveva smarrito l’ancoraggio allo scoglio cartesiano della conoscenza di sé cui era stato abbarbicato da sempre e dal quale l’aveva strappato definitivamente l’inchiesta su Ghitta.” – per cui faccio bene a non pormi il problema se è vero che quel filosofo abbia davvero tentato d’inquadrare l’infinito. Meriterebbe uno studio appropriato, o no? Allora lo svolgerò quando sarò a un passo dalla risposta finale, da cui, mi auguro, disto ancora un bel po’.
Un ulteriore colpo di scena è scoppiato a meno di due pagine dalla fine.
Si sappia che “per voi che abitate in città, Giuditta Tagliavini sarà una gran benefattrice” – e sarà lucente come una scaglia di galaverna, e più nessuno oserà più chiamarla con l’ignobile soprannome di “Ghitta”.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Valerio Varesi, L’affittacamere, Frassinelli, 2004