“Una minima infelicità” di Carmen Verde: la condizione di eterna petite
Una minima infelicità non indica, a dispetto del titolo, una infelicità di poco conto; l’aggettivo “minima” è rapportato alla protagonista del romanzo che racconta in prima persona, Annetta.

Annetta non riesce a crescere dal punto di vista fisico: il suo resta sempre il corpo minuto di una bambina.
L’infelicità è minima in quanto corrisponde a quel grado di infelicità sopportabile per soggetti sottili ed esili come lei. Questa infelicità è piccola in grandezza, ma grande in profondità.
Annetta è figlia di Sofia Vivier e Antonio Baldini. Ama in modo incommensurabile sua madre, nonostante quest’ultima non sia proprio la migliore delle madri. Innanzitutto Sofia pare non accettare del tutto la condizione di eterna petite della figlia.
Nella trama di Carmen Verde non vengono esplicitate nel dettaglio le cause dell’esile costituzione della nostra eroina. Analogamente non ci sono momenti in cui Sofia tratti esplicitamente male Annetta. Ogni spiegazione viene fornita in modo minimale nel testo, in coerenza con le caratteristiche fisiche della protagonista: “Nelle fotografie sediamo sempre vicine, io e mia madre: lei pallida, a disagio, con uno sguardo che pare scusarsi. A quel tempo pregava ancora Dio che le mie ossa si allungassero. Ma Dio non c’entrava. Se ci vuole ostinazione per non crescere, io ne avevo anche troppa”.
Queste righe incipitarie costituiscono un saggio dell’intera intelaiatura narrativa del testo.
Spesso, ad esempio, la voce narrante descrive una fotografia cercando di darne conto a chi legge anche con la propria personale interpretazione.
Oppure possono essere i comportamenti e i gesti raccontati a costituire un eloquente segno della vergogna provata dalla madre accanto alla figlia. La donna, in effetti, anche nel periodo in cui ancora va a prenderla da scuola, resta sempre a debita distanza da lei: “Faticavo a starle dietro, con le mie gambe corte […] All’ epoca ignoravo perché lo facesse”.
Spicca, inoltre, l’ossessione con cui Sofia vorrebbe controllare la crescita della figlia: “Io e mamma tornavamo alla parete della mia stanza anche più volte al giorno, attente a rilevare ogni singolo millimetro guadagnato”.
Non manca, inoltre, da parte della voce narrante un tono tra l’ironico e il sarcastico, mantenuto volutamente ambiguo affinché mai emergano in Annetta parole di esplicita condanna verso il comportamento della genitrice: «Un giorno chiesi a mia madre di misurare sulla parete anche la sua altezza. Sorrise a quel piccolo capriccio. Temperò con cura la matita, tracciò un segno sopra la sua testa e poi tese il metro. “Uno e sessantuno. Sessantadue, anzi!”, disse sbattendo le ciglia. (Povera Sofia, le faceva così piacere primeggiare in qualcosa che proprio non le riuscì di contenere la sua vanità)».
Dietro all’atteggiamento materno ci sono cause profonde. Esse prendono avvio con le vicende Adelina, madre di Sofia, nonna di Annetta. Tale aspetto viene espresso fin dall’inizio: “Fu nonna Adelina a insegnare a mia madre l’infelicità. Non dovette essere complicato: Sofia era un’allieva volenterosa”.
In queste righe è contenuta, anche se con un linguaggio non tecnico, una regola della psicologia per cui l’ambiente in cui si vive può predisporre le persone a diventare in un certo modo. Del resto la stessa narratrice definisce l’infelicità come un luogo, capace di espandersi per accompagnare l’esistenza delle persone: “L’infelicità è un luogo, un luogo fisico una stanza buia nella quale scegliamo di stare”. Sofia Vivier “si era già preparata già da ragazza la sua bella stanza, scegliendone con cura i mobili, i tendaggi, i tappeti. Quando sposò mio padre la portò con sé come una dote”.
Annetta riferisce di essere stata “una bambina ubbidiente”, che ha imparato nel tempo e con sofferenza a non entrare nella stanza della madre: “Le rare volte in cui mamma dimenticava l’uscio accostato, mi illudevo di poter entrare. Ma non appena osavo avvicinarmi, lei subito richiudeva la porta”.
La giovane si è abituata a non osare mai, a non cambiare mai, a non desiderare altra vita di quella respirata in casa: e la narrazione della “saga” della sua famiglia, con il racconto delle malattie, delle patologie e della e morte dei suoi parenti più stretti, costituisce l’antefatto della sua condizione da adulta.
Così, nel corso del tempo, lei si diploma, si laurea, ma ciò non cambia il suo destino, perché nessuno crede in lei: “Fin dall’inizio, mamma aveva giudicato un errore la mia scelta di proseguire gli studi dopo il liceo, e forse aveva ragione. Ero una terra non arata. Come avrei potuto produrre anche una sola spiga? E i soldi? Dove avremmo trovato i soldi? Non era ragionevole.”
E nemmeno basta credere in lei una tantum come fa Sofia. Di fronte ai repentini mutamenti di umore della congiunta, Annetta annota: “Ebbi paura che avesse già cambiato idea”.
Ogni tanto, come dei flash, emergono come ricordi le aberrazioni patologiche della nonna e della madre. Sono dei momenti di forte pathos ed anche incredulità per il lettore, ma sono esemplificativi, fanno scuola: “La vita non è meno della letteratura. Bisognerebbe studiare a scuola l’infelicità delle nostre madri”.

Il racconto di tutte queste vicende, sviluppato con un ritmo veloce nell’arco di poco più di centocinquanta pagine, è distribuito in capitoli molto brevi, alcuni brevissimi consistenti talora anche di sole due righe che condensano una riflessione, una massima, un aforisma, spesso ottenute dalla sola osservazione di una foto: “In questa ho l’aria triste. Non è indispensabile essere felici”.
Questa scelta, per ammissione della stessa autrice in alcune delle interviste da lei rilasciate, risponde sempre all’esigenza, di cui ho parlato all’inizio, di restituire, anche a livello formale e stilistico, il senso del minimale, del piccolo, significati di cui è portatrice Annetta. I suoi pensieri sono piccoli come lei e sono pertanto adatti ad entrare non in una narrazione prolissa, bensì nelle pagine di un diario: “Ridotti alla loro esatta dimensione, i miei giorni sono entrati in quel diario di ragazzina dal primo all’ultimo […] E mi pare resti ancora spazio […] tutto è scivolato tra le pagine: rimpicciolito ma senza perdere un millimetro della sua grandezza […] Persino il mio corpo ha scelto per me l’essenziale, sapeva di non essere nato per grandi cose.”
Invito le lettrici e i lettori a entrare dentro questa storia verso cui attira, tra l’altro, la bellissima immagine di copertina raffigurante una donna che ci guarda mentre si sta togliendo una maglia prendendola per le braccia e tirandola verso l’alto; sul tavolo, davanti, ci sono una tazza e una teiera; dietro una finestra. La tazza è piena o vuota? La finestra aperta o chiusa? La donna vuole sfilarsi la maglia e poi bere il tè o lo ha già bevuto? E soprattutto, cosa vuole dirci con il suo sguardo minimamente infelice?
Infine faccio i miei complimenti all’autrice che esordisce con questo testo nella scrittura letteraria, ricevendo già un riscontro positivo a livello di critica: Una minima infelicità, infatti, risulta al momento semifinalista al Premio Strega 2023. In bocca al lupo, dunque, per il prosieguo di questa bella e avvincente maratona!
Written by Filomena Gagliardi
Bibliografia
Carmen Verde, Una minima infelicità, Neri Pozza, Milano 2022, centocinquantasei pagine, 17 euro