“Il canto di Penelope” di Margaret Atwood: sulla Regina di Itaca e sulla morte delle dodici ancelle

Penelope incarna la concezione della donna e dei suoi doveri nella società patriarcale della Grecia antica.

Il canto di Penelope di Margaret Atwood - Photo by Tiziana Topa
Il canto di Penelope di Margaret Atwood – Photo by Tiziana Topa

È la sposa devota che riunisce in sé le doti della fedeltà, della pazienza e dell’operosità. Questa immagine edificante della regina di Itaca trae la sua linfa vitale dai versi di Omero, che nell’Odissea ne segna in qualche modo il destino. Il bardo la consegna alla Storia come uno scrigno di virtù che finirà nella letteratura moralizzante degli exempla medievali: Boccaccio annovera Penelope tra le 106 protagoniste del De mulieribus claris.

Ma esiste un’altra Penelope, che potremmo definire “apocrifa” rispetto alla vulgata omerica: è la Penelope delle tradizioni orali e locali che le gettano addosso l’ombra della calunnia a offuscarne il fulgore. È a queste fonti che attinge Margaret Atwood, la quale nel romanzo Il canto di Penelope (Ponte alle Grazie, 2021, pp. 156, trad. di Margherita Crepax) tenta di proporre un’immagine inedita della consorte di Odisseo. Un’immagine che nasce dalla bocca della regina stessa quando ormai si sente libera di esprimere tutto ciò che ha sempre serbato dentro sé. Perché non ha più paura della vendetta degli dèi. Perché è un’ombra.

Da tempo nell’Ade, Penelope rompe il lungo silenzio opposto agli scherni e alle calunnie diffuse su di lei e dà sfogo alla sua verità. Figlia di Icario, re di Sparta, e di una naiade e cugina di Elena, a 15 anni ella viene data in sposa a Odisseo e si trasferisce a Itaca. Un anno dopo la nascita di Telemaco, il marito lascia la famiglia per partecipare alla guerra contro Ilio scoppiata in seguito all’adulterio commesso da Elena.

Dopo un decennio la città nemica cade ma Odisseo tarda a tornare. Penelope attende paziente, cresce Telemaco, presta ascolto alle notizie che giungono sul conto del marito. Voci sempre più flebili, fino a estinguersi; è opinione diffusa che il re sia morto. Più di cento pretendenti, i Proci, insidiano Penelope che li tiene a bada grazie all’espediente del sudario tessuto di giorno e disfatto di notte con l’aiuto di dodici ancelle. Scoperto l’inganno, i giovani esigono che ella scelga il nuovo marito. Il ritorno di Odisseo ripristina l’ordine ma porta con sé una scia di sangue: egli impicca le dodici ancelle accusate di essersi concesse ai pretendenti. Esse formano un Coro che, nell’Ade, fa da contrappunto al monologo di Penelope.

Πηνελόπη significa anatra’; altri fanno risalire il nome alla voce πήνη,‘tela’. Ma Penelope vuole che la sua opera sia chiamata sudario; non ama la parola tela perché, se così fosse, ella sarebbe un ragno ma il suo scopo non è quello di catturare uomini come mosche, anzi fa di tutto per metterli in fuga. È dunque lei stessa a indicare la corretta etimologia del suo nome, anche perché un ambiguo oracolo parlava proprio di un sudario che ella avrebbe tessuto.

Penelope “l’Anatroccola”, così veniva vezzeggiata dopo che uno stormo di anatre la salvò dall’annegamento ordinato da Icario, terrorizzato da un’erronea interpretazione del responso. Fin da piccola impara a contare solo su sé stessa: non si fida di quel padre diventato troppo affettuoso dopo il mancato infanticidio; non può godere dell’abbraccio della madre. Le naiadi sono creature sfuggenti, dal cuore gelido. Nata da una ninfa d’acqua, Penelope reca impresso il sigillo della sua origine, un’attitudine al pianto che la accompagna per un quarto della sua vita terrena. Da questa madre affatto incline alla tenerezza, ella riceve un unico consiglio di cui farà tesoro.

Ricordati che per metà tu sei acqua. Se non puoi superare un ostacolo, giragli intorno. Come fa l’acqua.

Il canto di Penelope di Margaret Atwood
Il canto di Penelope di Margaret Atwood

Le naiadi sono bellissime; Elena è bellissima. Penelope sa di non possedere il gene della divina bellezza ma è nota per la sua intelligenza. Autosufficienza, duttilità e astuzia: virtù che la renderanno una regina in grado di guidare da sola il regno di Itaca. E se Odisseo è πολύτροπος, Penelope è la sua sposa perfetta, l’alter ego femminile. Il loro matrimonio nasce come un accordo tra poteri. Le figlie femmine erano pedine nella scacchiera dominata dagli uomini; anch’essi tessevano tele, tele fatte di alleanze, unioni patrimoniali, trasmissioni di eredità grazie alla procreazione di discendenti. Ma tra Odisseo e Penelope si instaura a prima vista una φιλία che presto evolve in ἒρος.

L’assenza del marito precipita Penelope nella solitudine; non ha amici, Telemaco cresce e, con lui, cresce lo spirito di ribellione. In questi venti anni, le virtù attecchite nell’animo giovanile della donna si irrobustiscono e diventano solido tronco. È regina e re; gestisce gli affari e sovrintende a poderi e allevamenti. Perché vuole che Odisseo, al suo ritorno, sia orgoglioso di lei.

Perché sa che Odisseo tornerà.

Un dio, il cuore o un’irrazionale speranza le ispirano quella devozione per cui si nega strenuamente ai Proci. Un sodalizio tutto femminile, un patto segreto lega Penelope alle dodici ancelle, le sue “colombe”. Per la loro fedeltà saranno accusate di infedeltà. Sono state gli occhi e le orecchie di Penelope ma smetteranno per sempre di vedere e sentire per una colpa di cui non hanno colpa. Ed è proprio la regina ad avvertire il morso della colpa: quella di aver tenuto segreta la loro lealtà lasciando credere che l’avessero tradita.

Le ancelle scelte da Penelope come alleate contro i Proci sono le più seducenti; inevitabile che cadano preda degli istinti bestiali di quella folla sregolata. Stuprate, concupite con tale veemenza da indurle a cedere, esse sono uno dei tanti beni usurpati a Odisseo. I giovani affondano la propria carne nella loro carne così come affondano i denti in un arrosto di pecora. Corpi profanati curati con olio regale, anime sanguinanti risanate con la promessa della gratitudine che, di certo, il re mostrerà loro. Ma né di gratitudine né di pietà saranno ritenute meritevoli. Nemmeno la grazia di una morte veloce viene loro concessa; le infedeli vengono condannate a bere a piccoli sorsi il calice dell’ingiustizia consumata verso di loro. Prima di essere innalzate da terra, appese a una gomena, esse devono lavare quella terra dal sangue dei concubini.

Nella dimensione atemporale e onirica dell’Ade, le ancelle rivendicano una dignità sacrale sancita già dal loro stesso numero. Dodici. Non undici, non tredici. Dodici come i mesi dell’anno e ogni mese corrisponde a una lunazione. Nel segno della luna, la loro vicenda si impregna di un denso simbolismo. Esse potrebbero essere le compagne di Artemide, sacerdotesse che celebrano i sacrifici rituali: prima l’orgiastico rito della fertilità, quando si concedono ai Proci, poi la purificazione, quando si lavano nel sangue degli uomini uccisi che permette loro di rinnovare la verginità. Anche se i mesi lunari in realtà sono tredici, il numero è comunque perfetto in quanto completato dalla somma sacerdotessa, incarnazione di Artemide: la regina Penelope. Il simbolismo della luna si estende sino all’esito finale. Nel volgere delle fasi, l’astro assume la forma di un arco e di una barca. Vincitore della gara con l’arco, Odisseo impicca le fanciulle lunari alla gomena di una barca.

Perché ci hai uccise? Che cosa avevamo fatto che imponesse una condanna a morte?

Margaret Atwood
Margaret Atwood

Nell’Ade, le ancelle alitano sul collo di Odisseo; gli alitano addosso l’inestinguibile necessità di una risposta. Una risposta che egli non vuole o forse non sa dare. E allora fugge. Per poi tornare e fuggire di nuovo, sempre inseguito, sempre stanato dalle sue Erinni. Dodici implacabili accuse che spingono Odisseo ad affrontare cicli di rinascita e morte in un eterno rincorrersi di vite. E tutte, inesorabilmente, si concludono in modo violento.

Il canto di Penelope è strutturato sul modello della tragedia ma non possiede tragicità. L’intento della Atwood di penetrare nella psiche della regina, di sondarne i misteri, non va a segno. Penelope appare una asettica cronista della propria vita, una testimone poco empatica verso la sorte delle “colombe”. Quel senso di colpa che l’autrice le attribuisce suona più come una nota molesta che come tormento e il grido di verità e giustizia del Coro si riduce a un lamento ossessivo ma di debole pathos. Nel complesso Il canto di Penelope è una lettura godibile, un originale dialogo tra il mito e la contemporaneità.

 

Written by Tiziana Topa

 

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