“Auto da fé” di Elias Canetti: l’accecamento finale dell’anima

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L’autore Elias Canetti, ebreo la cui famiglia era di origine spagnola, nato in Bulgaria, naturalizzato britannico, scrisse sempre in tedesco, la lingua che gli insegnarono i genitori. Quando vinse il Nobel, nel 1981, mezza Europa festeggiò.

Auto da fé di Elias Canetti
Auto da fé di Elias Canetti

Tento, non troppo fiducioso, né troppo poco, una reazione a questo asfittico e misterico libro, che sento che mi darà tanto ma che al momento mi sta tediando. E che sta sviluppando in me quello sconforto leopardiano che vado covando da una vita e mezzo. Negli ultimi tempi ho assaporato un ciclo di romanzi (4 e mezzo) che potrebbero essere stati ispirati da quest’opera: la tetra/pentalogia del Cimitero dei libri dimenticati di Zafón.

“In quel mentre qualcuno chiese forte a un altro: ‘Mi sa dire dov’è la Mutstrasse?’ L’interrogato non replicò parola.” Ha udito il suono di quelle parole? Le ha interpretate? Ha sentito il dovere di rispondere? Le ha neglette apposta? Non si sa. La comunicazione in quel caso è una. Quando si legge un libro l’autore è lontano, a volte non rintracciabile, a volte trasvolato. Soprattutto ma non solo in questi casi, io sento il dovere di scuotermi, e di scuoterlo, il libro, l’autore, la storia, i dialoghi. Intervengo nel destino di ciascuno di loro. C’è anche chi legge senza reagire più di tanto, immedesimandosi nella storia, forse, un po’, senza darlo a vedere. Forse quel passante ha udito, vorrebbe rispondere che non conosce l’informazione richiesta, o che non riesce a svelarla. O forse egli è col corpo lì, e con l’anima da un’altra parte, ignota al resto del mondo. Per tutto ciò, l’altro si scalda, lo minaccia: “Gliela farò vedere! S’impicchi! Lo sa cos’è lei?!” Nulla, nessuna replica dell’Altro. Il protagonista, il bibliomane nonché sinologo universalmente acclamato, il gracile e spilungone, lo ammira incondizionatamente. Anche perché è se stesso, l’assolutamente autoreferenziale Peter Kien.

“L’altro, l’uomo taciturno e di carattere che sapeva tenere a freno la lingua anche nella collera era lui stesso, Kien” – che nella narrazione “crebbe nella considerazione di Kien, che stava in ascolto.”

Kien osserva se stesso come il personaggio. L’unico che, nel suo intimo, esiste sul serio. Kien “non era nato per fare l’oratore…” – nemmeno io. Ecco che una prima somiglianza me lo rende simpatico. Il mondo ammirava la sua scienza glottologica, ma egli evitava di essere presente, essendo sempre Altrove. Mancava di farsi vivo, se non con qualche suo scritto, che era subito percepito e religiosamente ammirato dai suoi pochi ma fedeli lettori. Valendo come il più eminente sinologo, egli non scriveva per le masse, ma per chi era già illuminato. Per se stesso.

“All’età di trent’anni, senza aver preso per il resto alcuna disposizione testamentaria, aveva lasciato il suo cranio e il relativo contenuto a un istituto di frenologia. Motivò tale passo facendo presente il vantaggio che sarebbe derivato alla scienza alla possibilità di trovare in una particolare struttura e fors’anche in un comune peso del suo cervello la spiegazione della sua memoria veramente prodigiosa.” – come nel caso di Rasputin, di cui a noi non rimane che l’enorme membro imbalsamato.

“Lui stesso era tutt’altro che un genio. Nondimeno, negare l’utilità che per il suo lavoro scientifico aveva a memoria quasi spaventosa di cui era dotato, sarebbe stato antiscientifico.” Egli “aveva, per così dire, in testa una seconda biblioteca, altrettanto vasta e attendibile di quella reale…”.     Ogni volta lui controlla la fonte cartacea, ma lo fa per scrupolo amministrativo, non perché abbia dubbi sui propri ricordi. Scrive di sé, per fissare gli avvenimenti (piccoli, medi, grandi): “23 settembre, ore sette e tre quarti. Nella Mutstrasse ho incontrato un tale che mi ha chiesto dove fosse la Mutstrasse. Per non umiliarlo io non gli ho risposto” un cervello che memorizza tutto ma non coglie l’essenza spicciola delle cose. Viene in mente l’idea di un computer che, secondo il filosofo Luciano Floridi, non è né intelligente né saggio, ma è un tipo che punta direttamente (e unicamente) al risultato.

“Kien giurò a se stesso di togliersi la vita non appena l’avesse minacciato la cecità.” – anch’io la temo, ma al momento pavento di più la morte. Per fortuna, al momento questi spettri villeggiano da tutt’altra parte. Per questo posso capire, senza però approvarlo, il gesto di “Eratostene, il grande bibliotecario di Alessandria”, che cessò di nutrirsi poiché stava diventando orbo. 

Kien è un maniaco, in senso né buono né cattivo: “Per un particolare da nulla, che conosceva oltre tutto a memoria e cercava soltanto per avere una conferma, perdette delle ore.” – quello che mi colpisce è la sua assurda ira: “gli capitarono tra le mani cose inutili e liquidate da tempo. Lui le maledisse: cosa ci facevano là?” – era un’inutile entropia, un caos futile, un disordine immotivato. È tipico dell’uomo definire in tal modo gli effetti dispersivi del secondo principio della termodinamica.

Assume una cinquantenne non troppo piacente, la quale è tanto brava (nel senso che funziona nelle faccende di casa) quanto sospettosa, e che si chiede: “Che se ne fa di tutti quei libri?” Kien esita a condividere con lei la sua passione. Frase tremenda perché in parte vera: “… darle in mano di libri sarebbe vile, in mano agli ignoranti i libri sono completamente indifesi…”e possono creare conflitti.

Sogno notturno, che descrivo superficialmente (è troppo profondo e nuotare a quest’ora è rischioso): dal petto di un uomo “salta fuori un libro”, poi “a dozzine, a centinaia, impossibile contarli; il fuoco lambisce la carta; ogni libro implora aiuto, grida stridule si levano da ogni parte.” – e mi ricorda il timore che mio padre aveva per tutta quella cellulosa (per o più vecchie riviste che covano nel solaio) che avrebbe potuto incendiarsi per combustione spontanea.

Arso un uomo se ne fa un altro. “Di sacrifici umani ha udito parlare, ma i libri, i libri!”

Che incubo!: “Un rossore acceso ne divora lentamente, quietamente i margini. Esso subisce il martirio in silenzio, con rassegnazione. Gli uomini urlano, il libro brucia senza un lamento. I martiri non gridano, i santi non gridano”come Tex Willer, il mio imperituro eroe, per quanto torturato non emette gemiti, aspettando soltanto d’essere liberato dallo sceneggiatore.

Kien parla dei romanzi: “Non che dai romanzi la mente tragga molto nutrimento.” – che è la funzione che qualche cerebrale finisce per crearsi, quando l’anima è lesa in qualche suo ideale. Essi inducono a condividere, “a capire qualunque atteggiamento.”

Si mediti questo ragionamento:I romanzi sono dei cunei che un autore con la penna in mano insinua nella chiusa personalità dei suoi lettori.” – apre loro la testa, li lobotomizza. “Quanto più precisamente egli saprà calcolare la forza di penetrazione del cuneo e la resistenza che gli verrà opposta, tanto più ampia sarà la spaccatura che rimarrà nella personalità del lettore. I romanzi dovrebbero essere proibiti dalla legge.”

Therese, la donna, “con la massima cura scelse un foglio adatto e vi avvolse un libro come se si trattasse di vestire un bambino…” – e finì di compiere quel suo materno gesto.

Quando Kien aveva bisogno di socializzare con qualcuno, non scendeva in strada, ma cercava un personaggio, preferendo i cinesi: “Lui camminò su e giù per le alte stanze della sua biblioteca e chiamò a sé Confucio.” Desta ilarità pensare che, a una frase di Kien, “Confucio non si scompose. Non dimenticò neppure d’inchinarsi prima che gli venisse rivolta la parola.”

Kien decide di fare il grande passo quando vede che Therese, prima di decidersi ad aprire un libro, questo libro, è uscita e s’è comprata “un paio di guanti coi soldi che guadagna a prezzo di tante fatiche.” Le chiede pertanto di sposarlo e lei, “vinta dall’emozione girò dall’altra parte la testa e sforzandosi di non balbettare rispose inorgoglita: ‘Se lei permette!’”

Kien parla della poesia: “Con le parole di una poesia si può dire qualunque cosa nel modo migliore. Le poesie sono adatte ad ogni circostanza. Nominano la cosa ricorrendo ai più discreti eufemismi, e nondimeno si capisce bene di che si tratta” – io ho un’altra idea. C’è un termine del nostro Meridione che vale per celare: ammucciare. La poesia ammuccia di tutto, ri-velandolo, anche il crimine, se occorre. Ed entra dove vuole, senza dare nell’occhio.

“La migliore definizione di patria è: biblioteca. La cosa migliore è tenere lontana le donne dalla propria patria.” – che altrimenti si chiamerebbe matria. Ma che strano ragionamento! Kien ne ha sposata una ma prima ha tentato di assimilarla “alla sua patria” e “per otto lunghi, silenziosi, tenaci anni i libri hanno provveduto per lui a sottomettere questa donna. Lui personalmente non ha mosso un dito: i suoi amici hanno conquistato la donna in suo nome.” Therese comincia a fare la moglie e Kien, algido burocrate, le fa sottoscrivere un contratto: “Dichiaro che tutti i libri che si trovano nelle tre stanze di mia appartenenza sono legittima proprietà di mio marito, e che mai e in nessun caso verrà introdotto alcun mutamento per quanto concerne tale proprietà. In cambio della cessione delle tre stanze m’impegno a tacere durante i pasti in comune.”poche mogli avrebbero accettato, Therese sì. Anche se, per lei, “un vaso da notte valeva quanto un libro.” E se lei avanza qualche ulteriore pretesa, lui sancisce altri ordini, con “le parole giuste: chiare, precise, distaccate.” – un ministro degli interni, oltre che dell’istruzione.

Il sole splende? “… ma non su di me”; pioviggina: per chi vive all’esterno, non per lui, “come se si fosse costruito contro ogni rapporto puramente materiale, contro ogni realtà esclusivamente meteorologica, una cabina, un’enorme cabina, tanto grande da poter contenere quel poco che sulla terra è più che terra, più che la polvere in cui la vita alla fine si dissolve; e poi l’avesse serrata ermeticamente e riempita di quel poco.”

I libri sentono la nostra emozione, odono i nostri vani sospiri? C’è chi pensa di no. Kien e il sottoscritto ripongono nella sensibilità dei loro sensi le proprie speranze.

“I mobili suscitavano in lui una vera ripugnanza.”sono così grevi! E non è vero che si muovono! “Lo disturbavano perché se ne stavano eternamente là…” – a gestire il territorio, come se fossero i padroni. È per questo che solo le mogli li capiscono: e si alternano, donna e mobili, al comando, fraternamente, o meglio: sorellamente.

“Era immerso nel lavoro di ricostruzione di un testo; le parole crepitavano; avido come un cacciatore, lo sguardo teso, eccitato ma freddo, egli strisciava cauto di frase in frase.” C’era un modo per evitare d’incontrare quelle strutture lignee: “Kien prese gusto a tenere gli occhi chiusi.” – per cui, “avendo evitato di guardare ciò che stava dietro di lui, lo dimenticava, una volta al lavoro, tanto più facilmente.” – quei “tre malvagi – così gli chiamava il trio del mobili.” In fondo, “la cecità è un’arma contro il tempo e lo spazio; la nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità tranne quel poco che riusciamo a cogliere con i nostri miseri sensi.”non più miseri di noi.

“Questa pagina di stampa, chiara e artificiale come nessun’altra, in realtà è un ammasso infernale di elettroni impazziti. Se lui ne fosse cosciente in ogni momento, le lettere gli ballerebbero davanti agli occhi.” – è la luce, però, che dà consistenza al mondo.

Hilary Putnam
Hilary Putnam

“Esse percepì”: “essere equivale ad essere percepito: ciò che io non percepisco non esiste.” – e, se è vero, cade il timore del filosofo Hilary Putnam, per cui nessuno può garantire che non si è altro che dei piccoli cervelli immersi in una smisurata vasca, che, alla fine, non è se non la percepiamo, ma a essere, per noi, a esistere, è tutto il resto, il nostro cosmo. Nulla è vero, tutto non del tutto improbabile. Almeno questo, lo si consenta!

Therese (come risulta a pagina 24), all’atto dell’assunzione “non aveva compiuto quarantott’anni, e il suo maggior desiderio era di trovare un posto sicuro in casa di uno scapolo; là ci si può ripartire meglio il lavoro; con le donne è impossibile andare d’accordo.”. Cinquanta pagine dopo, sposata con quello scapolo con cui è, insieme, semplice e per nulla facile andare d’accordo, leggo che “lei aveva sempre pensato di dimostrarne quaranta”, ma poco prima un commesso furbetto e ruffiano gliene aveva dati una trentina (per finta). Ora ne ha cinquantasei, e poiché lavora lì da otto anni, i conti tornano. Il lettore abbia fiducia, che nel libro tutto quadra, alla fine, anche se il giro è vizioso.

Kien parla con gli oggetti come se fossero persone, alle persone come se fossero oggetti. Dice a un mobile: “Sii ragionevole…” e lo tranquillizza: “Lei non è in casa. Di che hai paura? Nessuno ti ruberà!” Dopo un discorso un po’ lungo, che non mi va di riportare né sintetizzare, gli promette “di farlo tornare al posto che s’era conquistato a suo tempo, se ne faceva garante, glielo giurava!”

E poi c’è lei, la patria a cui era tanto legato: “Quanto più s’allungava la fila dei libri passati in rassegna, quanto più intatta e completa si ricomponeva davanti ai suoi occhi la vecchia biblioteca, tanto più ridicoli gli apparivano i suoi nemici.”

Egli ama le sue cose, le sue cose non si sa quanto amino lui. Nessuno lo saprà mai che cosa covi nell’anima della materia: “Spostò la buona, vecchia scaletta…” – e poi comincia a parlare con l’amata madre, così ricca di cellulosa. Le rimembra, con parole accorate, l’incendio voluto fermamente nella Cina del 213 a.C. Da “Shi Hoang-ti – un brutale usurpatore che ebbe l’ardire di attribuire a se stesso il titolo di ‘Primo, Augusto, Divino’ – che è la maggiore prova che uno è un coglione (mi è scappato!). E che fece bruciare quasi tutti libri (centinaia di migliaia) del suo paese, suggerito dal “suo primo ministro Li-Si”, che alla fine fu segato per il lungo perché così avrebbe sofferto di più (da altri coglioni, e questa volta l’ho detto perché l’ho voluto fermamente). “Confesso che il puzzo di bruciato dei roghi di quei giorni giunge ancor oggi alle mie narici.” – anche alle mie.

“Non sopravvalutare la forza del nemico, popolo mio! Tu lo chiuderai fra le tue lettere in una stretta mortale, le tue righe saranno le clave che s’abbatteranno con violenza sul suo capo, i tuoi caratteri palle di piombo che s’attaccheranno ai suoi piedi, le tue copertine…” – eccetera eccetera. Sembra che questo orientalista stia giocando ai soldatini, tanto che “il successo della precedente orazione bellica aveva esaltato il suo senso di potenza.” Il nemico era l’Altra, “una donna, una governante incolta, vecchia, inservibile e assolutamente insipida.” Intanto quella strega si fa ammaliare dal vanesio commesso del negozio di mobili, che la istupidisce al punto da farle credere di essere un fiore di fanciulla. Egli mira al capitale di Kien, non certo al corpo sfatto di Therese, la quale, dileggiata da quello scimunito, disperata va a casa e trova l’ex marito come morto, tramortito, ai piedi della scala. Presto egli torna in vita e non più ex: nel frattempo lei ha cercato invano il testamento, che ormai non è più così cogente. La convalescenza del traumatizzato dura sei settimane, in cui lei comincia a gestire con una certa libertà il territorio, in cui può finalmente ricopiare tutti i titoli dei libri della casa, che un giorno potrebbero essere suoi.

Da una parte c’è il commesso, “uomo interessante” e fintamente interessato a lei, dall’altro c’è un ex coniuge morto ora fin troppo vitale, uno che “sarebbe stato più facile sedurre Gesù Cristo che non lui.”

Quando, tornato da una passeggiata, lui le dice che ha deciso di fare testamento, lei “fu sul punto di svenire. L’uomo interessante la sostenne tra le sue braccia e lei ritornò in sé.” – magia dell’illusione, ognuna ha la mitopoiesi (sia pure a scoppio ritardato) che si merita.

Una notte “le venne in mente che cosa rappresentasse per lei l’uomo interessante: un peccato”: quel che ti smuove, ti fa scendere, oppure salire, che ti smuove. In arşân, pèca è il gradino, pchèe è il peccato, se fossi inglese io mi chiamerei Stephen Pegs, Stefano Pioli. Uno teme l’immobilità indotta dagli Altri, dalla vita che scorre dappertutto, come un fiume in piena.

L’ennesimo non numerato capitolo, intitolato Un milione in eredità, dà l’idea di come si può fraintendere l’Altro, che si conosce a menadito da ormai nove anni, o forse dieci, ma di cui non si sa Nulla, perché si ascoltano le parole altrui, come a volte si fa con un libro, senza coglierne il senso. È il capitolo in cui l’egotismo dell’uomo e della donna si conciliano solo alla fine, per un miracolo inatteso: “Pochi attimi dopo e per la prima volta ognuno aveva veramente capito l’altro.”

Quando Therese discorre, quando sbraita oppure pensa rumorosamente, utilizza frequenti algoritmi, che servono a legittimare alle sue ragioni inesistenti. Ricordo questi: “di civettare son capaci tutte…”, oppure “d’esigere sono capaci tutti….”, e “io mi rivolgo al tribunale”, e anche “il tempo vien per chi lo sa aspettare”. La sua invasione della casa è irrefrenabile. Era partita come tetra governante, subentrando poi come timida sposina, con l’intenzione d’allargare sempre più la sua azione, come fece quel bulldog nella gola di Zanna Bianca. Ora si sente ed è un’autorità che può legittimamente gridare: “Io sono la padrona di casa!”. Se il povero (in tutti i sensi) Kien le sfiora inavvertitamente la sottana, lei sbotta: “Io non permetto che il marito mi tocchi la sottana! La sottana è mia! Me l’ha forse comprata il marito? Io, me la sono comprata! L’ha forse inamidata e stirata il marito? Io, me la sono inamidata e stirata…” – e via dicendo, anzi, strepitando come un’isterica chioccia.

“… e cominciò a schiaffeggiarlo a turno con la sinistra e con la destra. A poco a poco Kien perdette i sensi.” – che è sempre la ventura migliore che può capitare alle vittime di violenze. Lei: “Io mi rivolgo al tribunale. Queste cose non le tollero. Un marito non aggredisce la moglie. Io sono una persona per bene. Sono una donna. Il marito si piglierà dieci anni. Sui giornali questa si chiama violenza carnale. Ho le prove. Io leggo i processi. Non azzardarti a muoverti. Di mentire sono capaci tutti…”. Lei parla del tempo a modo suo, lui a modo proprio: “Il passato è buono, non fa male a nessuno, lui vi si è mosso liberamente per vent’anni ed è stato felice. Chi si sente felice nel presente? Certo se non avessimo i cinque sensi, anche il presente sarebbe sopportabile…” – il dolore fisico del passato si arriva a sopportarlo con un certo, pur disperato, eroismo.

La prima parte del romanzo (Una testa senza mondo) finisce con Kien cacciato dalla padrona, che gli urla: “Fuori di casa mia!”, dopo averlo colpito per l’ultima volta e di averlo minacciato di denuncia e di mandarlo in galera. La seconda parte è Un mondo senza testa.

Questo romanzo (lo è, un romanzo, ma allora perché, mentre scrivevo questo romanzo, ho avuto un tentennamento?), almeno in questa mia edizione Garzanti del 1981, non ha un indice, ma è diviso in tre parti di analoga lunghezza, ognuna delle quali presenta ogni qualche decina di pagina un capitolo non numerato, che inizia in genere a metà pagina, e quello che inizia la seconda parte è Il paradiso ideale; il successivo, La gobba, comincia la pagina dopo (il precedente è finito una decina di righe dal termine della pagina). Un lettore rischia alla fine di smarrirsi.

I cento libri che rendono più ricca la nostra vita di Piero Dorfles
I cento libri che rendono più ricca la nostra vita di Piero Dorfles

Il libro me l’ha consigliato l’amico Silverio Scognamiglio, che sta raccogliendo tutte le opere descritte nel saggio I cento libri che rendono più ricca la nostra vita di Piero Dorfles, che io già ho, e quasi tutti letti. Ieri gli ho suggerito di terminare la sua impresa di leggerli tutti proprio con questo, per non correre il rischio di abbandonare precocemente l’impresa. Dà il medesimo effetto di un vaccino contro il virus. Uno sta male un paio di giorni e poi si riprende. Di rado muore. Al massimo reagisce scrivendo come faccio io, in modo un po’ confuso.

Il sinologo è uscito di casa, con gli abiti che indossa e con il libretto del conto bancario: tutto quello che gli serve, oltre alla sua memoria. Si reca in tutte le librerie della città in cerca di cibo, di libri. “‘Ho urgente bisogno, per un lavoro scientifico, delle seguenti opere,’ diceva, e leggeva da un foglietto che non c’era, un lungo elenco di opere.” – che era depositato nel suo cervello.

“… in quell’occasione si comprò la pianta della città con i cerchietti rossi di cui s’è detto sopra. Nel cerchietto delle librerie già visitate disegnava una piccola croce: per lui esse erano morte.” – e gli era capitato di essere buttato fuori (non l’avevo riportato) quando gli era capitato di entrare in una libreria già visitata.

Dimorava in alberghi vari (ove bastava pagare e non doveva mettere nessuna crocetta): “Dava ai portieri mance incredibili, circa il cinquanta per cento del prezzo della camera. Quando pagava si rallegrava ogni volta al pensiero che il suo libretto di banca fosse sfuggito alle mani di Therese.”

Chissà come se la passa quella povera vecchia?

“Ormai era fuori, libero. Lei pensava di essere la vincitrice: in realtà lui l’aveva chiusa in casa. È vero che aveva dovuto rinunciare alla propria abitazione, ma che cosa farebbe un uomo per salvare la propria vita quando questa appartiene alla scienza?” Egli rimira la sua faccia “allo specchio di un negozio di barbiere per esaminarvi i propri lineamenti.” – segue una quindicina di righe di descrizione che avrebbe fatto alzare dalla poltroncina un applaudente Balzac.

Incontra un nano: “Niente fronte, niente orecchio, niente collo, niente tronco: quell’individuo constava soltanto di una gobba, di un naso imponente e di due occhi neri, tristi e quieti.” quell’uomo è uno scacchista, come lui è un sinologo, maniacalmente, che crede religiosamente che “un uomo ha una testa per giocare a scacchi.” Kien lo assume: “Avrebbe potuto aiutarlo quando, alla sera, si trattava di scaricare e di riporre i libri.” Mi ricordo i flussi di coscienza in Joyce, nella Woolf e in Faulkner. I personaggi di questo romanzo (lo chiamo così per comodità) ne hanno di non meno complessi: assumono i contorni del sogno, per lo più a occhi aperti, poco importa però. Il nano, che di nome fa Fischerle (pescatorino), sogna di andare in America e di diventare un campione del mondo di scacchi. Il suo sogno, raccontato nelle sue più essenziali e inutili minuzie, pare vero. Il lettore, io almeno, un po’ ci crede. Alla fine del sogno, “Fischerle s’ingobbisce ancora di più per le risa. Ridendo si sveglia del tutto.” – similmente Kien aveva giocato a soldatini coi suoi libri.

Quattro e il loro futuro è il titolo del capitolo che inizia a pagina 234. Fra quei quattro non v’è Kien. È la banda dei tre più uno (Fischerle, il capo). C’è Fischerina, la nana gobba innamorata del suo simile, di cui dice: “Io non lo deruberò mai. È l’unico bene che ho al mondo.” – sentimento non ricambiato, però. C’è anche un improbabile cieco e un venditore. In quel Paradiso, presso il banco dei pegni che non distante dal Theresianum, accadono diverse cose che possono accadere soltanto lì e in luoghi simili a questi.

Pensieri sciolti: “Quando si è arrivato a farsi una posizione le donne vengono da sole, a dozzine, dopo un po’ non si sa dove metterle.” – anche per loro, in tempo di tempesta, ogni buco è un porto.

“Ne raccoglierà un centinaio, le tasterà una per una – non occorre che siano nude, si può fare anche così – e poi se ne prenderà tre o quattro.”sono i tentennamenti mentali di un cieco che la faccenda la vede così.

Fischerle impone il silenzio. Il cieco se la prende un po’. “Il venditore si portò un dito alle labbra e fece: ‘Io dico sempre: il silenzio è d’oro’ e ammutolì.”

Fischerina è la donna che tutti vorremmo avere, nessuno in questo romanzo l’accetterebbe, io forse sì. “Un signore la prendeva per la moglie di Fischerle e ei non doveva dire niente.” – questo fatto innocente la colmò di letizia: “In tutta la sua vita non s’era mai sentita così felice.” E ripete la frase: “È l’unico bene che ho al mondo.” – Fischerle non gradisce il fatto. Lui la maltratta, non sopporta di essere accomunato a lei per via dell’altezza e della gobba. Lei lo adora, e accetta ogni vessazione se proviene da lui. Ma cosa ci fai in questo mondo perduto, amica cara?

Torniamo, nel capitolo successivo, Rivelazioni, al nostro gracilone. “Egli deplorava la debolezza del Cristo, quel curioso dissipatore.” – di risorse, pani, pesci, ma non di libri.

“Davanti ai suoi occhi passava una distribuzione di cibo dopo l’altra, una guarigione dopo l’altra, una parola dopo l’altra, e lui pensava a tutti i libri che si sarebbero potuti…” – e sicuramente lui pensava: dovuti – “… salvare con tanti miracoli.” – un’illogicità! “Poteva darsi che in realtà a Cristo non interessassero affatto gli uomini, e che una barbara gerarchia avesse falsificato le parole originarie del suo fondatore.”

Riporto un dialogo fra il lungo e il nano (solo i discorsi diretti):

“Lei è un uomo”
“Uno storpio non è un uomo: ne ho forse colpa io?”
“L’unico storpio è l’uomo”
“L’uomo non è uno storpio, altrimenti io sarei un uomo!”
“Questo non lo permetto. L’uomo è l’unica bestia!”

Si tratta di un semplice stralcio che la dice lunga di come siano messi gli umanesimi di questi due.

In Morta di fame, m’avvedo di un altro elemento della banda dei quattro, ora cinque: il fognaiolo: “un vigliacco per via della moglie: non va con nessun’altra, ubriacarsi è l’unica cosa che fa oltre ad andare con la moglie.” – un vizioso.

Kien dice, pensando alla moglie: “La morte attendeva chiunque, tanto più quindi gli analfabeti!”

Dalle mie parti dicono e mōr sol i cajùon, o cujòun, o cojòun, o cujûn, a seconda da dove proviene il coglione. Ma si dice pure: e mōr anch i catîv, che non sono favoriti in tal senso dalla sorte, magari dopo ma, come l’erba di simil etica, anche loro, presto o tardi, muoiono. Si noti il fatto, che se il soggetto plurale viene prima, condiziona il modo del verbo: i cajòun, cujòun, cojòun, cuiûn e mōren. Diversamente il verbo è alla terza persona singolare. Singolare, no? Questo per dire che, se Kien è “probabilmente il più grande sinologo dell’epoca”, io sono il più immodesto (aspirante) arşanologo vivente.

Il mingherlino e il nano confrontano le proprie mogli: la prima, probabilmente deceduta, “se l’è meritata, quella morte. Ancor oggi non so di sicuro se fosse in grado di leggere e scrivere correntemente”; mentre l’altro, sconsolato, ammette: “E la mia non sa giocare a scacchi. Che ne dice? Un’indecenza, no?”

Parte un film mentale, in cui Kien ha ucciso la moglie ma viene assolto perché il fatto non sussiste praticamente reato: “In nessun caso era ammissibile che colui che era probabilmente il più grande sinologo dell’epoca venisse punito a causa di una donna di bassa estrazione, di una donna di cui non si poteva dire nemmeno con certezza se sapesse leggere e scrivere correntemente.” Per cui, “la difesa di Kien era divenuta una puntuale requisitoria contro Therese. Dopo la sua morte lui l’annientava una seconda volta…”. Si accendono le luci in sala (nella mente di Kien) quando… “ecco comparire una sottana blu e un pacco imponente. Dietro veniva Therese, che portava l’uno e l’altra. Al suo fianco camminava il portiere. Con la sinistra costui…”.

Che orrore! Non solo il capitolo seguente, che è L’adempimento. Dopo un vergognoso tentativo di Therese di rivedere il suo uomo interessante, che scopre serenamente ammogliato, scopre che l’ex poliziotto, ora portiere, Benedikt Pfaff (forse onomatopeico, come per gran parte dei nomi dei personaggi) non sta dalla parte di Kien ma, anzi, lo odia. Inoltre scopre che è anche un porco che si delizia a maltrattare il prossimo (“Quando c’è di mezzo il portiere le bastonate non mancavano mai”) ed è capace di questo: “le porse i libri con una mano e le cacciò l’altra sopra le gonne pizzicandole con forza la coscia. Lei si sentì l’acquolina in bocca…” – e dopo poche e analoghe schermaglie, lei “lanciò un grido e si gettò dalla scala nelle sue braccia. Lui la lasciò cadere tranquillamente per terra, le strappò di dosso la sottana e la prese.” – finalmente anche lei ebbe quel quarto d’ora di felicità animale. Dopo una frase che non riesce a non emettere (“Adesso io sono tua”), lui le replica “A cuccia!”. Entro “la sera stessa si trasferì da lei” – sancendo come primo atto maritale la necessità “d’impegnare i libri alla spicciolata prima che il marito tornasse.”

Elias Canetti
Elias Canetti

Secondo Borges, ogni grande autore ispira i suoi predecessori. La descrizione che Elias Canetti fa del suo passato di poliziotto ricorda quella di Francisco Javier Fumero, il poliziotto ignobile e letale della già citata serie di romanzi di Zafón: un energumeno che si fa fatica a ricondurre al genere umano. Invece lo è, umano, forse più di tutti, se Hobbes lo definiva come un lupo, l’uno contro l’altro armato del proprio folle egoismo.

Therese: personaggio particolare, combattuto più degli altri, e sconfitto dalla vita, sempre pronto però ad attaccarsi al prossimo, anziché a se stessa, e a rigirare ogni ragione pro domo sua. Kien non parla, è accasciato, ha gli occhi serrati e lei dice: “Mente!” A chi le fa notare che Kien non ha ancora detto nulla, lei ribadisce la sua accusa: “Di parlare sono capaci tutti!”

È un mondo che è stato privato della pietà, in cui chi non ha quasi nulla non è quasi nulla. L’avere ha soppiantato l’essere. Il portatore di handicap è da biasimare, perché il suo onere è distintivo della sua colpa. Colgo una frase significativa: “Un uomo deve avere un paio di polpacci, se non li ha si vergogni”. Il fisico di Kien è così misero che si può soltanto deplorare: è una prova assoluta del suo crimine.

Kien usa la sua mitopoiesi: inventa la realtà, ri-creando i particolari di un universo mai andato in onda, e per questo non falsificabile. Egli crede senz’ombra di dubbio che la qui presente moglie sia morta, e che questa gli assomiglia troppo ma non abbastanza: “Almeno cinquanta inquilini sfilarono davanti al cadavere. Nessuno manifestò dubbi di sorta, tutti assentirono e riconobbero ciò che non poteva più venire mutato.” – chi non crederebbe a una storia così minuziosamente descritta? Il lettore, forse. Ma anch’egli non conosce l’esatta natura del cosmo e i suoi attuali sconfinamenti.

Non è l’unico mitopoietico della compagnia. Il più simpatico, millantatore, simulator ac dissimulator di tutti è colui che negherebbe fino all’ultimo di essere un nano storpio, bensì il campione degli scacchi più alto e talentuoso del mondo. Ha un unico scopo nella vita: sentirsi vivo. Soltanto colà, oltre l’Oceano, c’è la terra promessa.

“Il nuovo giorno cominciò con vari acquisti. I dottori hanno un portafoglio, e chi acquista un abito nuovo deve tirarlo fuori, altrimenti tutti gli ridono dietro.” – chi non si adegua all’idea dominante non merita pietà, né eccessiva attenzione, semmai un’eliminazione definitiva. Fischerle sta fuggendo verso la sua sopravvivenza. Ce la farà? Mentre lo dice, forse sapendo di mentire, al contempo sa con certezza che entro sera sparirà la sua gobba. Egli sarà molto più dritto di chiunque. Non è mica uno storpio lui, né uno sgorbio. È un eroe degli scacchi, un americano, prossimo marito di una milionaria: “– lei, si figuri, porta in dote un castello pieno d’ogni ben di Dio – però non prima d’esser diventato campione del mondo. Lei sposa il mio nome, io i suoi quattrini. I quattrini da soli non li accetto. Bene, arrivederci alle otto!”

Egli si sente vittima d’un empio raggiro: “Sono stato truffato. Sono stato trattato come uno storpio e non come un americano. Grazie alle mie profonde conoscenze linguistiche sono riuscito a sventare i piani dei miei nemici.”

Voglio bene a questo aspirante gigante? Non riesco a rispondere. Ci provo. Sì. Gliene voglio poiché leggo: “Si toglie le scarpe nuove e le mette sul primo gradino della scala, là sono più vicine all’America.”

Dove l’attende lei, la magnatessa: “È bella e americana, è bionda come nei film, è altissima e ha gli occhi azzurri, si sposta solo a bordo della sua automobile: dei tram ha paura, sui tram s’incontrano storpi e borsaioli che rubano i milioni…” – lui non è mai stato né storpio, né nano, né borsaiolo.

La yankee è molto diversa da sua moglie (che non la chiama mai per nome, ma solo “la pensionata” e che è per lui soltanto una puttana obesa), l’Altra è tutt’altra persona. Così fine, longilinea, ricca.

Entra in camera un sosia del cieco, un po’ come prima Therese era una sosia di Therese. La mano di quello lo afferra e “lo stringe di nuovo e lo strozza. Un pugno gli fracassa il cranio”and America finally goes back to her own home. Si potrebbe intonare questa trista canzone al funerale di quello gnomo.

Il ciecosquarcia vestito e cappotto e taglia la gobba a Fischerle. Geme per la fatica, il coltello non è abbastanza affilato e lui non vuole accendere la luce.” Dopo aver avvolta “la gobba nei brandelli del cappotto, ci sputa sopra un paio di volte e lascia l’involto sul pavimento. Il cadavere lo spinge sotto il letto. Poi si getta sulla donna” – la suddetta “pensionata”, e “fa l’amore con lei tutta la notte” – almeno fino alla fine di questa seconda parte. La terza è: Il mondo nella testa.

Antonio Moresco
Antonio Moresco

Prima di entrarvi, mi si è affacciato alla memoria un altro ricordo letterario, un altro autore che può aver creato, sempre borgesianamente, un suo precursore, che ha avuto soltanto il torto d’essere stato letto vari anni dopo. Mi domando se Antonio Moresco, nello scrivere i suoi Canti, avesse in mente questo romanzo assurdo. Io confido di sì.

Il buon padre di cui si parla nel primo capitolo è l’ex poliziotto e ora portiere di condominio Benedikt Pfaff, il quale seguiva gli ordinamenti dell’unica legge esistente, la propria. Un tipo preciso: “Lasciava in casa tutto il suo denaro e da esso, benché lui non controllasse, non mancava mai un centesimo: una volta che i conti non erano tornati, la moglie e la figlia avevano dovuto passare la notte sulla strada. Tutto sommato era un uomo felice.” – come un felix leo. Un tipo fecondo, che amava nutrirsi in modo corretto (che sarebbe sembrato eccessivo se a goderne fosse stato un altro). “Spesso lui doveva aspettare il pranzo per cinque buoni minuti. Allora perdeva la pazienza e la batteva prima ancora di avere mangiato a sazietà.” – prima il dovere e poi il piacere. La moglie “gli morì tra le mani. Comunque sarebbe morta lo stesso, e per conto suo, nei giorni seguenti.”

C’era Anna, la figlia adolescente. Elias riporta vari discorsi amorevoli fra padre e consanguinea, il primo inizia la frase e lei la deve finire questo è il gioco. Elias ne propone dodici. Io ne scelgo tre:

“Se la figlia non è brava prende…” “le botte.”
“Lui a sua figlia non fa per niente…” “male”
“E lei impara come deve…” “comportarsi col padre”.

Un giorno “lei aveva smarrito i soldi”. Lui “perplesso, la picchiò per farla tornare in sé.” Anna “visse ancora vari anni come domestica e come donna di suo padre. Lui scoppiava di salute; la forza dei suoi muscoli cresceva piuttosto che diminuire. Ma lui sentiva di non essere felice. Se lo ripeteva tutti i giorni. Vi pensava persino durante i pasti. Lei morì di tisi, con grande disperazione dei canarini che accettavano il mangime solo da lei…”quel non sentirsi felice da parte di tanto papà, che poi per tutta la vita coverà dentro di sé l’accusa della morte della figlia, a cui nessuno sta più pensando, quel non essere in pace con nessuno, men che meno con se stesso, è una speranza che anche nella più bieca carogna possa resistere una briciola d’umanità.

“Evitava di pensare alla stanza vuota là accanto. In essa, davanti ai fornelli, aveva perduto l’affetto di sua figlia e ancora non sapeva perché.”

Nel successivo capitolo Pantaloni, Kien torna a casa e, al momento, rimane a dormire in portineria. Benedikt dorme su con Therese, poi si vedrà.

“Un’allucinazione perdura finché non la si combatte. Si abbia la forza di vedere con chiarezza il pericolo cui si è esposti, si bombardi la propria coscienza con l’immagine temuta…” – così stai facendo tu, Elias – “… si compili un mandato di cattura nei confronti dell’allucinazione e lo si tenga costantemente a portata di mano; poi ci si costringa a guardare in faccia la realtà e la si esplori alla ricerca dell’allucinazione: se si ritroverà l’allucinazione in una qualche parte del mondo reale si riconosca pure la propria pazzia e ci si affidi alle cure di uno specialista.”che chissà quanto sano di mente è. Kien tanto sano non lo è, ma nessuno è in grado di fare una diagnosi che non sia immune da una pur differente pazzia. “Sta per essere emanato un decreto concernente l’abolizione del sesso femminile. La pubblica affissione è prevista per domani. Lo renderà noto il portiere…” un’idea sta scalciando nel suo limitato e prodigioso cervello: “Tutti i nomi di battesimo avranno desinenze maschili, la storia verrà riveduta per la gioventù. La commissione storica non dovrà faticare, suo presidente è il professor Kien. Che hanno fatto le donne nella storia? Figli e intrighi.”

Siamo nel 1935, dodici anni dopo il fallito putsch di Monaco. E in quell’anno le salme dei fedeli di Hitler, periti in quell’occasione, furono portate nei Templi degli eroi, a Monaco.

Una gonna di color blu lo sta ossessionando. “Il blu non esiste. Il blu è un’invenzione della fisica. Se esistesse il blu, una tipica figura di ladro assassino avrebbe i capelli di questo colore…” Forse (è una mia ipotesi) originariamente gli ebrei erano blu.

“Kien ride. A lui riesce sempre tutto, ciò che lui affronta cede alle sue dimostrazioni. Una scienza benigna gli concede questa facoltà, anche nel sonno.” – direi, anzi, soprattutto. Cosa diceva quel tale del sonno della ragione?  

Kien si amputa “il mignolo della mano sinistra”, per provare che esiste il suo sangue. Kien ha dei sovversivi in casa. “Ad un tratto i canarini cominciano a cantare. Lui li minaccia col pugno fasciato. Li guarda: gli uccelli sono azzurri. Lo stanno schernendo. Li toglie dalla gabbia no dopo l’altro e gli stringe la gola fino a strozzarli…” – dopo di cui “getta in strada i cadaveri tirandogli dietro anche il suo mignolo, un quinto cadavere.” – una quinta vittima del Male, la strada che porta verso di esso è sempre lastricata di ottime intenzioni.

Va in onda tutti i giorni il film: Questo pazzo pazzo mondo, e matto è anche il prossimo capitolo: Un manicomio, ove si narra la storia dell’egregio fratello di Peter, il dottor Gorges Kien, medico psichiatria, già ginecologo, che appare come la rarità umana che il lettore sta aspettando da tempo.

“Pazzi, – diceva con enfasi piantando addosso alla moglie due occhi scrutatori e penetranti che la facevano arrossire – pazzi diventano coloro che pensano sempre e soltanto a se stessi. La demenza è una punizione per eccessivo egoismo.” La follia era anche una miniera di talenti, per cui egli “viveva contemporaneamente in un’infinità di mondi. Grazie ai pazzi divenne uno degli spiriti più completi del suo tempo. Dai pazzi imparava più di quanto non desse loro. Essi l’arricchivano con le loro esperienze eccezionali, lui invece, guarendoli, non faceva che semplificarli. Quanto spirito, quanta perspicacia trovava in alcuni di essi!” – essi sanno giungere oltre, dove i cosiddetti sani non s’azzarderebbero. Per loro non ha alcun senso il condizionale, essi vivono esclusivamente nell’indicativo presente. Il suo metodo di cura consiste nell’acquisire i principi linguistici dei suoi pazienti, anche di questo che pare e forse è in parte un gorilla.

“Per mantenere di buon umore il gorilla Georges rinunciò al tramite di qualunque altra lingua. Si comportò come un bambino al quale, con le parole, s’insegnano anche le relazioni tra le cose. Là le relazioni costituivano l’elemento originario, le due stanze e tutto ciò che v’era contenuto si dissolvevano in un campo magnetico di passioni.” Georges diventava anche lui un gorilla, sempre meno straniero a quello, sempre più simile. L’Altro “perdonava le ricadute dell’ospite nel linguaggio di una stagione ormai sbiadita e sorpassata perché un tempo anche lui aveva fatto parte del genere umano.” – amare significa condividere e accettare l’altrui diversità. Tutti noi pazzi dobbiamo rendere all’Altro quel che gli spetta e che non per nulla si chiama ri-spetto. E proteggerlo, perdonarlo quanto si può. Se non si può, pazienza.

“Un tempo leggeva con passione, godendo al vedere espresse in forma nuova vecchie frasi che lui aveva giudicato immutabili, scialbe, logore e banali. Allora per lui, le parole contavano poco. Da esse esigeva esattezza accademica; i romanzi migliori erano quelli i cui personaggi parlavano più forbitamente. Chi era in grado di esprimersi come tutti gli altri scrittori che l’avevano preceduto poteva essere considerato loro legittimo successore…” – si scrive sempre il medesimo racconto, diceva il solito Borges: dell’unico autore che è esistito.

“… Il compito di costui consisteva nel trasportare la spinosa, dolorosa, pungente varietà della vita reale sulla liscia superficie di un foglio di carte dove l’occhio potesse scorrere rapidamente e piacevolmente.” – una letteratura terapeutica, “una continua carezza, un diversa forma d’amore, ottima per…” – per chi?

E questo romanzo di Elias? Non fa carezze, ma graffia di continuo il viso al lettore. C’è chi legge per distrarsi un po’, Elias attrae nella sua singolarità dove tutto sembra alla fine annullarsi, ma c’è una speranza, folle, ma c’è: in fondo al buco nero ce n’è uno bianco, una specie di orifizio anale o d’immensa vagina da cui qualcosa uscirà. Forse un bebè, forse un innocente, forse l’ennesimo stronzo.

“… perché nel nostro mondo essere significa esser diversi, ognuno un tipo a sé, un manichino con la carica, messo in moto o arrestato da un caso benigno ma, appunto, soltanto da un caso, senza il minimo influsso personale, senza una scintilla di potere, recitando meccanicamente sempre le stesse vuote frasi comprese sempre da un’uguale distanza.” – un’esistenza intesa come un unicum, la cui differenza è solo apparenza, che è la prova, pur illusoria, che in tal modo essa va intesa.

Gli altri, i normali, così pensano di lui: “come direttore di una clinica, morirà sano di mente e, si spera, fra non molto. Voglio essere pazzo! grida lui come un bambino. Naturalmente questo suo ridicolo desiderio è da ricondursi a un’esperienza infantile. Un giorno o l’altro bisognerebbe analizzarlo.”

Questo è Georges, fratello di Peter, che gli ha inviato un telegramma, con cui gli comunica queste poche parole. “Sono completamente suonato. Tuo fratello.”

In Vie traverse i due fratelli si ricongiungono. Prima però Georges bussa alla porta che otto anni prima apparteneva a Peter, e s’imbatte in Therese. Del dialogo, surreale come non può non essere, colgo questa battuta perché è significativa di quel “cretinismo” della donna, che Georges diagnostica soltanto in un secondo tempo: “Di parlare son capaci tutti.” Così Georges la definisce: “brutta, gretta, volgare, incapace di una parola umana…” – il tipo di persona che serve a chi governa la patria in quegli anni.

Georges confronta Peter a sé: “Lui viveva per gli ideogrammi, Georg per degli esseri umani.”

I due consanguinei si incontrano. Georges fa uscire dalla stanza Pfaff, che “sbattè la porta dietro di sé.” Peter racconta al fratello delle storie, inventandosele o rivivendole in modo diverso, non si può al momento capire. Georges sa che dovrà intervenire per ristabilire le cose.

Com’è arduo reagire a questi ultimi capitoli. Non vedo l’ora di uscirne. Questo libro (finalmente ho trovato la sua definizione più azzeccata, che era la più evidente!) ti salva dal suicidio. Se hai idee autodistruttive esso te le cancellerà, togliendoti ogni energia e, quando ti sentirai meglio, uscirai in strada più sereno, andrai al parco del Rodano e, con ‘na giarlèina in bóca, un dissetante sassolino sotto la lingua, camminerai per una dozzina di chilometri fra argini di canalazzi, pivieri, nutrie e alberi centenari. All’uscita del parco ti troverai poi al Mauriziano, la casa natale dell’Ariosto.

Georges esprime la sua riconoscenza al fratello maggiore, tale in tutti i sensi, nel bene e nel meno bene: “… non sospetti nemmeno quanto io debba a te: il mio carattere, nei limiti in cui ne ho uno, il mio amore per la scienza, la mia esistenza, la mia liberazione dalle donne, la serietà di fronte a ciò che è grande e la devozione di fronte a ciò che è piccolo, tutte le virtù che tu possiedi in misura maggiore dello…” – e forse a quel punto nemmeno lo psichiatra sa quanto egli stesso è sincero e quanto invece va cercando di non esserlo.

“Hai stimolato tu il mio interesse per il problema del linguaggio, e io ho fatto il salto proprio con uno studio sul linguaggio di un pazzo.” – quanto durerà questa sinceramente falsa finzione di schiettezza?

“… io non m’intendo di queste cose, non so nemmeno una parola di cinese, tuttavia le tue conclusioni non possono non interessare chiunque voglia conoscere le proprie radici, l’origine più profonda delle proprie concezioni, del meccanismo spirituale che è in lui.”

Peter è vigile: “… Tu mi stai scambiando per uno dei tuoi pazienti. Le mie opinioni scientifiche le capisci solo a metà perché sei troppo ignorante. Non parlare tanto!…”

Sa di avere di fronte uno specialista che sa variare le strategie dialettiche. “Per riuscire a farsi credere Georg non parlava con tutta l’energia di cui avrebbe potuto disporre…” – egli sentiva che “la diffidenza di Peter aumentava, e insieme con essa la curiosità: lo si vedeva chiaramente dalla…” L’Altro si chiude in difesa, attaccando: “I tuoi successi si fondano su un cumulo di sfacciate adulazioni. Ora capisco tutto il chiasso che si fa attorno a te. Tu sei un bugiardo matricolato. La prima parola che tu hai imparato a pronunciare è stata una menzogna…”.

Il suo pur benevolo antagonista lo stava studiando come un etologo fa con una belva selvaggia: “Georg aveva notato perfettamente quando la voce di Peter dava nel falsetto. Bastava che i suoi pensieri tornassero alla donna di sopra.” Ora Georg parla delle termiti che “sacrificano una piccola parte della loro popolazione per mantenere la maggioranza degli individui liberi dai turbamenti provocati dall’amore” – e poi dice tante cose, francamente troppo, tira in balla chiunque, anche questioni estremamente pericolose: “… tu riesci a mettere le mani sui libri rari ed antichi, acquisti splendidi manoscritti, nessuna donna varca la tua soglia, ti senti libero e protetto per merito del tuo lavoro, dei tuoi libri… ed ecco che senza alcun motivo , in questa condizione benedetta e inesauribile, tu appicchi il fuoco ai tuoi libri e ti lasci tranquillamente morire nell’incendio. Questo sarebbe un evento lontanamente paragonabile all’altro del termitaio, un analogo prorompere dell’assurdo, solo non in proporzioni altrettanto grandiose…”. Cerca di unirsi a lui, come se fossero un unicum che la natura ha malvagiamente separato: “Soltanto tutte e due assieme, la memoria sentimentale e quella intellettuale – perché di questo tipo è la tua – rendono possibile l’uomo universale. Forse ti ho sopravvalutato. Se noi, tu ed io potessimo fonderci in una sola persona, nascerebbe da noi un essere spiritualmente perfetto.”  

Risposta di Peter: “Tu vivi dei tuoi pazzi. Io dei miei libri.”

La morte è donna? Che cos’è? “Dovrei aspettare che venga da sola? Affidarmi al capriccio di un vecchio corpo duro a morire? Chi è disposto ad accettare quando c’è di mezzo il lavoro, la vita, i libri? Io l’ho odiata. L’odio anche adesso, l’odio al di là della morte! Ho tutto il diritto di odiarla; ti dimostrerò che tute le donne meritano d’essere odiate!” Non lo so Elias, perché dici, perché fai dire tutto ciò a costui. Chi sta rovinando la tua vita è un uomo, che non accetta di condividere con la sua donna il potere.

Georg spara le sue invettive antifemministe per ingraziarsi il fratello demente. Non serve riportarle, per chi le vuol leggere sono là, inerti ormai, avendo esaurito la loro funzione. Georg, uomo pratico e odisseo (il capitolo s’intitola L’astuto Ulisse) ristabilisce l’ordine e conduce il fratello alla pur sempre demenziale coabitazione con la moglie, cacciando il portiere nella sua tana immonda. Georg parte, beato lui. Io resto sulla nave, col capitano Peter.

Vorrei non commentare l’ultimo capitolo, Il gallo rosso. Non posso evitarlo, però. “A questo punto riudì le grida selvagge; erano grida di libri. In direzione del Theresianum scorse un bagliore rossastro che, superando la voragine del cielo nero, dilagava fino a lui. Al suo naso giunse odore di petrolio. Bagliori d’incendio, grida, puzzo: il Theresianum bruciava.”

Il male, al contrario del bene, s’infetta, s’attacca, si mischia da dio, o da Dio, il presunto (e mai assunto) colpevole dell’umana pazzia.

“Libri e libri si rovesciano dagli scaffali sul pavimento. Lui li trattiene con le sue lunghe braccia. In silenzio, perché non lo sentano da fuori, porta nell’atrio una pila dopo l’altra, e tutte insieme le accatasta contro la…”.

Il destino è fatto delle nostre scelte, alcune delle quali sono inconsce, e della somma di quelle altrui.

La pila dei libri “ben presto ha raggiunto il soffitto…”.

Peter è un uomo paziente. È un paziente senza più alcun dottore che gli stia addosso. È libero, ormai. “Davanti allo scrittoio il tappeto è in fiamme – per fortuna che ha in casa dei vecchi giornali: “Li apre e li gualcisce, li appallottola e li getta tutto intorno.”

Il momento è perfetto, quasi perfetto, perché ormai poco manca alla catarsi conclusiva.

“Quando finalmente le fiamme lo raggiungono ride forte, come non ha mai riso in tutta la sua vita.” 

Mia madre abitava in campagna. Si sa, i contadini hanno tutta la loro ricchezza all’aperto, in balia degli eventi atmosferici. Se viene una tempesta a secco tutto va in rovina. Il lavoro di un paio di stagioni va a farsi benedire. Che fare? Lacrimare, gioire? Due atti idioti. Ma c’è il detto che ti salva (il dono più grande che si possa ricevere da un genitore): piânşer fa trî e réder fa trî. A quel punto è meglio sghignazzare in faccia a chi ti ha sconvolto il destino. Lo ripeto: siamo nel 1935.

Il libro, bandito dal nazismo, fu tanto applaudito da Thomas Mann e da Robert Musil e poi scordato un po’ da tutti. In Italia venne pubblicato per la prima volta nel 1967. La mia edizione è del 1981.

Il titolo originale era Die Blendung, L’Accecamento. Pare che l’autore abbia fortemente voluto il titolo Auto da fé per le edizioni in lingua straniera.

Fu il suo primo e ultimo romanzo. Di lui ci restano altri capolavori, che andrò a cercare dappertutto, come fece Peter, rovistando la città ormai perduta. Con ‘na giarlèina in bóca.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Elias Canetti, Auto da fé, Garzanti, 1981

 

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