“American Gods” di Neil Gaiman: il neologismo che ricrea il cosmo
Un libro è un corpo che racchiude in sé la propria avventura, in cui si inserisce la particella-lettore che interagendo con esso, inevitabilmente lo trasforma. Leggere e Scrivere sono le due facce della medesima moneta: eventi spazio-temporali che conducono il cosmo a uno stato successivo che è formalmente diverso ma sostanzialmente identico al precedente.
Julian Barbour, il mai abbastanza citato fisico britannico, concepisce il tempo come un’illusione che vibra lungo un filo quasi interminabile, i cui stati sono concepiti come foglietti appesi a esso, esistenti ognuno in modo a sé stante e, al contempo (e qui sta l’inganno) collegati l’uno all’altro. Ogni lettura diventa il momento in cui occorre l’interazione, determinata da chissà cosa e foriera di chissà cos’altro. Tutte le interazioni sono identiche fra di loro, ma alcune lo sono più delle altre.
American Gods di Neil Gaiman è un’opera singolare, ma anch’essa, non appena ci si abitua alla lettura (nel mio caso sono occorse soltanto 177 pagine), diventa il luogo in cui la normalità è di casa e diventa consuetudine. O tempora o mores!
Un gigante di circa sette piedi, di nome Sweeney, solidale di un certo Wednesday, “prese un bicchiere vuoto dalla tavola. Poi allungò una mano e afferrò dall’aria una grossa e lucente moneta d’oro. La lasciò cadere nel bicchiere. Prese dal nulla un’altra moneta d’oro e la gettò nel bicchiere facendola tintinnare contro la prima.” Ne prese altre tre e “le lasciò cadere dentro il bicchiere”, poi altre ancora, provenienti da chissà dove, seguirono la loro sorte e, infine, tutte, indistintamente vennero infilate in una “tasca della giacca”, che poi risultò “inequivocabilmente vuota”.
Prima di chiedersi chi sia Sweeney, è giusto sapere che Wednesday era un passeggero piuttosto in là negli anni del medesimo aereo su cui Shadow, l’umbratile protagonista, s’era imbarcato subito dopo essere stato rilasciato dal carcere dov’aveva trascorso l’ultimo triennio della sua disgraziata vita. Wednesday, nel bel mezzo della discussione gli dice, a brót grògn, a brutto grugno: “Ho un lavoro per te, Shadow.” Come Wednesday conoscesse il suo nome è un mistero, per divinazione sembrerebbe. Dico questo per via del titolo del romanzo.
Sweeney dona una moneta d’oro a Shadow, ma solo a patto che faccia a botte con lui. Il che avviene. Non importa chi le ha date a chi: con questo non spontaneo atto di coraggio, Shadow si è guadagnato non solo quel soldo d’oro ma anche la stima del suo antagonista.
Il rilascio dal penitenziario era stato anticipato di qualche giorno per via della morte di Laura, la moglie di Shadow (incidente stradale occorso in seguito a un poco opportuno pompino da lei eseguito a beneficio di chi stava guidando il mezzo). Shadow, nonostante abbia saputo dell’intera dinamica dell’incidente, pare che non provi alcun cattivo sentimento nei riguardi dell’ex consorte, anzi, getta la moneta appena guadagnata sulla sua tomba: e poi “buttò dentro un altro po’ di terra, per nascondere il luccichio dell’oro agli occhi di eventuali becchini ladri” – un ex carcerato ben conosce la malizia umana.
“Il motel si trovava ad almeno tre chilometri di strada, ma dopo tre anni di prigione, Shadow era attratto dall’idea di poter camminare liberamente, anche per sempre, se avesse voluto. Avrebbe potuto continuare a camminare verso nord, fino in Alaska, oppure dirigersi verso sud, fino al Messico o ancora più in là. Volendo sarebbe potuto arrivare in Patagonia o nella Terra del Fuoco.” È come se a un guastallese, trattenuto per anni al proprio pianerottolo, si prospettasse l’insperata possibilità di recarsi alla Pieve di Pianzo a Casina: ci andrebbe saltellando su un piede.
Un veterano della prigione, “Low Key Lyesmith un giorno si era riferito al piccolo cimitero carcerario dietro l’infermeria come all’Orto delle Ossa, e le immagini avevano messo radici dentro Shadow. Quella notte aveva sognato un orto sotto la luna, scheletrici alberi bianchi, con i rami che terminavano in mani scarnificate, le radici affondate nelle tombe. Crescevano frutti su quegli alberi nell’Orto delle Ossa, nel sogno, e c’era qualcosa che lo inquietava in quei frutti onirici, ma al risveglio non era riuscito a ricordare di che cosa si trattasse esattamente, né del perché li avesse trovati tanto repellenti.”
Questo ragazzo mi ricorda Anna dai capelli rossi, di cui ho appena finito di leggere il primo romanzo. Gli basta sentire una parola o vedere un’immagine e già comincia a sognare, riuscendo a creare un cosmo nuovo, sempre per via di quel fatto descritto poc’anzi. È la coscienza che crea il mondo di ciascuno di noi. Tutto è vanità! E allora? Nulla di nuovo sotto il sole! Quindi?
Dopo aver letto il passo precedente, ricordo (sono già passati due giorni) che mi sono posto il problema di quelle uova che si schiudono all’interno dei cadaveri. Si tratta per lo più di numerosi ditteri e di alcuni coleotteri. Gli umani si preoccupano delle cosiddette morti apparenti, per cui non è escluso che qualcuno si svegli dopo essere stato sotterrato (per cui suggerirei d’inserire un microfono all’interno di ogni bara, nonché di assoldare non un assassino, ma un redentore di cadaveri che stesse per vari giorni collegato ai vari sepolcri, a mo’ di anziano che vigila sui cantieri edili). Nessuno si è mai dato pena per quegli insetti, che, una volta che si sono nutriti di tutta quella polpa gratuita, hanno dato la stura a una discendenza la quale, prima o poi, non troverà più cibo con cui sostenersi.
“Sdraiato a letto pensò: Questa è la mia prima giornata da uomo libero, e il pensiero gli procurò meno piacere di quanto avesse immaginato.” – lo capisco, una cosa simile capitò a me dopo la mia liberazione occorsa il primo di dicembre di un annetto fa. Il mio dubbio, che divorò gran parte della mia gioia, fu intorno al quesito se il primo giorno fosse da intendersi quando lasciai le spalle per l’ultima volta a quel penitenziario a pagamento (ero un detenuto lavoratore da quasi quarant’anni), oppure il giorno dopo, quando m’alzai e mi preparai il caffè senza pormi altri traguardi oltre che l’andare qualche ora dopo a pranzo e, a sera, a cena. Poi i giorni si susseguirono identici fino a oggi. Qualcuno (mi pare fosse uno dei fratelli Marx) disse che nel lavoro la pena non risiedeva tanto nella fatica fisica, quanto nell’alienazione mentale: un gran bel discorso, che si può estendere a qualsiasi evento esistenziale, compresa la scrittura. Quando mi capita (tutti i giorni) di leggere e poi di scrivere, io non desidero altro che di liberarmi di quel peso che si agita dentro di me. L’averne coscienza, il raggiungere quella che si definisce la giusta consapevolezza, è il primo passo che conduce alla liberazione. Se poi questa occorre qualche giorno prima del previsto, per una salvifica riduzione di pena, è meglio.
“… aveva sentito troppa gente esortarsi a vicenda a non reprimere i propri sentimenti, a lasciar fluire le emozioni, a sfogare il dolore. Secondo lui anche la rimozione aveva i suoi pregi. Se la si praticava per abbastanza tempo e abbastanza profondamente, sospettava, si finiva presto per non sentire più niente.” – ho un’idea, caro, e se quel sentimento lo bruciassimo consapevolmente, al fine di creare una nuova energia termica?
“Gli dèi muoiono. E quando muoiono davvero nessuno li piange o li ricorda. È più difficile uccidere le idee, ma prima o poi si uccidono anche quelle.” Quando scoppiò la centrale di Chernobyl si liberarono nell’atmosfera numerosi gas nocivi. I primi a soccombere furono alcuni dèi, poi diverse idee. Si disse anche che c’era un elemento per cui occorrevano centinaia d’anni prima che svanissero i suoi nefasti effetti; e come si poteva chiamare, quel miserabile, se non stronzio? Le male erbe non muoiono mai, per forza… quelle buone ce le pappiamo quotidianamente!
Shadow, l’Uomo Ombra, incontra la moglie di cui è vedovo: è abbastanza in carne, nonostante l’incidente che l’aveva ammazzata. Lei, molto materna e protettiva, gli dice che, nella sua attuale condizione: “… non so molto più di quello che sapevo da viva. La maggior parte delle cose che so e che non sapevo da viva non riesco a tradurle in parole.” – che sono le parole se non dei pioli (e io ne so qualcosa anche per via del cognome), su cui ci si arrampica verso l’altro o verso il basso (si tratta di convenzioni), con la fantasia illusoria di giungere da qualche parte? Forse quando si sarà in quel luogo a cui si aspira di giungere, esse non serviranno più, perché ormai si svolazzerà come albatros.
“Generalmente i morti stanno nelle tombe.” – e questa è un’altra tua immaginazione, Shadow: in quel baracchino di legno sono posati dei succulenti corpi da divorare, non anime da ascoltare. Ed è per questo che Laura ti risponde con una domanda: “Lo credi? Lo credi davvero, cucciolo?” Uno degli “aspetti del nostro matrimonio su cui dobbiamo lavorare” è che tu, Laura “sei morta”. E la morte altrui è una delle poche certezze che si hanno, quando si è in vita.
“Lui si chinò goffamente per baciarla sulla guancia, ma lei spostò la testa in modo da incontrare le sue labbra. Il suo alito puzzava leggermente di naftalina.” Non voglio entrare in discussioni interessanti quanto oziose, alla John Gray, per intenderci. Ho l’impressione che noi uomini siamo parecchio soggettivi e imprevedibili, mentre le donne (dall’Arkansas a Gavâsa) siano fondamentalmente analoghe. Coerenti a se stessi, il che non vuole dire coerenti in senso assoluto.
Quando, più tardi, dà il benvenuto all’anziano, chiamandolo “Votan”, lui lo informa: “di questi tempi mi chiamano Wednesday”, che era il giorno del suo incontro con Shadow. Shadow si sente “come in un mondo con una logica tutta sua. Con regole proprie. Come quando sogni, e sai che ci sono regole che non puoi infrangere. Anche se non sai che cosa significhino. Seguo la corrente capisci?” Anche a me capita spesso. Le regole sono state fissate sempre da qualcun altro, per cui non riesci ad avere un buon rapporto con loro, ché la tua volontà ne soffre. Le seguo, sì, ma senza convinzione. C’è poi chi non vuole né problemi né incombenze ed è contento di trovare delle indicazioni già belle e pronte. Io no. Anch’io mi adeguo, quando non posso evitarlo. Ma se la corrente mi sta trascinando al mare, approdo a una riva e mi chiedo come potrò condurre la mia esistenza.
“… la storia americana è un frutto della fantasia, ingenuo schizzo a carboncino fatto per i bambini, o per chi si annoia facilmente. Per la massima parte non verificata, né immaginata o pensata, bensì pura rappresentazione della cosa, non la cosa in sé.” – toglierei quell’aggettivo (americana), per il resto concordo. Altra mistificazione: Shadow chiede a Wednesday se non è americano. “Nessuno lo è. Di origine americana, intendo” – idea balzana, anche se di origine divina (chi non ha avuto almeno una volta nella vita un quarto d’ora di sacralità?). Chi vive nella Pianura Padana, oppure nel Caucaso, ha visto scorrere come torrenti primaverili schiere di numerose etnie. Alcuni invasori si fermano, giusto il tempo di fecondare qualche contadina (pare che il mio naso sia unnesco), altri proseguirono, non senza aver dato fuoco a qualche villaggio, che forse aveva bisogno di una catartica ripulita. Il che non significa che noi si viva in una nazione storicamente stabilita, oppure sì, ma occorre allora aver fede in quella divinità che comincia con Sto e finisce con ria, nel senso di cattiva. Storia, anche etimologicamente, è ricerca, continua e sempre falsificabile, tutto tranne che una religione, bensì una vera e propria scienza. I luoghi non appartengono a nessuno. Questo è il motivo per cui gli yankee hanno occupato un continente (e in seguito vari altri siti). Il problema è che, quando si piglia una posizione, ci si attacca a tutto pur di definirla propria e si pronunciano con enfasi fesserie da difendere fino alla morte.
La neve non è qualcosa che cade perché fa freddo: ma è “zucchero filato per creare un mondo da favola, dove ogni cosa è possibile, irriconoscibile…”, che è “alta nell’atmosfera, perfetta, minuscoli cristalli che si formano intorno a un atomo di polvere, ognuno una trina. E scendendo i cristalli si uniscono tra loro e diventano fiocchi, ricoprono Chicago di una coltre spessa e bianca, centimetro dopo centimetro…” – Shadow, forse non l’hai scorta, ma la tredicenne Anna detta anche dai tetti verdi si è alzata e ti ha applaudito, commossa.
Wednesday sta per portare un Shadow alquanto distratto in “una meta turistica”, anzi, “una delle più belle. Il che significa che è un luogo di potere.”, dove c’è “una concentrazione di energia, un canale di comunicazione, una finestra aperta nell’Immanenza. E perciò vi costruivano templi e cattedrali, oppure erigevano cerchi di pietra…”
In America, si chiese “ce n’è una in ogni città. O addirittura in ogni quartiere. E nel contesto attuale non rivestono più significato di uno studio dentistico. No, negli Stati Uniti d’America capita ancora che la gente si senta chiamata, perlomeno qualcuno, attirata dal vuoto trascendente, una chiamata a cui rispondono costruendo qualcosa di ispirato alle bottiglie di birra di posti dove non sono mai visti, o erigendo una voliera gigantesca per pipistrelli in una zona del paese dove i pipistrelli non sono mai esistiti. Mete turistiche: la gente si sente attirata da luoghi dove in altre zone del mondo verrebbe in contatto con la parte autenticamente trascendente di sé, e invece va lì, si compera un panino di würstel e fa quattro passi sperimentando un senso di soddisfazione che non riesce a descrivere bene e, a un livello più profondo, un estremo senso di insoddisfazione.” In Europa siamo più seri, ma anche noi, ormai… Quando nel Salento andammo nella Grotta Zinzulusa non trovammo zinzuli, stracci. Tutto era stato accuratamente pulito da schiere di lavoratori socialmente utili, che avevano sgomberato tutta la merda e insieme a essa l’anima dei pipistrelli.
Un ragionamento di Chernobog (che prima o poi dovrà schiacciare la testa di Shadow, diritto acquisito dopo aver vinto una partita a dama con lui) m’inquieta: “Lui va da questa parte. Seguiamo una spirale. Qualche volta la strada più breve è la più lunga” – solo apparentemente, ché di sicuro è una geodetica curva.
Wednesday (che in realtà è Odino, ma cosa sono i nomi si chiese una volta un ragazzo delle Midlands occidentali), come tutti i cristiani, ogni tanto sorbisce un caffè e va in bagno. Questo capiterebbe anche a Cristo e a Buddha, se ritornassero com’hanno promesso.
Chernobog dice un po’ tetro: “a quelli come noi piace fumare perché ci ricorda le offerte che una volta bruciavano in nostro onore, il fumo che saliva quando venivano a chiedere la nostra approvazione o il nostro favore.” – mio zio Dino era più prosaico. Lui non gettò la sigaretta (se non sotto forma di cicca), se non quando gli venne un cancro al polmone. A chi lo invitava a smettere finché era in tempo, lui diceva che se ti volti vedi che anche uno stronzo fuma un po’, specie quando è appena defecato.
Wednesday compila la lista dei suoi innumerevoli nomi, ognuno più caduco dell’altro e aggiunge: “Ho tanti nomi quanti sono i venti, tanti titoli quanti sono i modi per morire…” – bell’espressione, davvero. “Wednesday, un vecchio grande e grosso con un occhio di vetro in abito marrone sotto un vecchio cappotto di Armani, avanzò verso il fuoco. Rimase a guardare le persone sedute sulle panche di legno e, per molto più tempo di quello che secondo Shadow sarebbe stato lecito senza mettere nessuno a disagio, restò in silenzio. Infine parlò…” – non riporto quel che disse, non perché sia privo d’importanza ma m’interessa ora ricordare che quell’occhio lui non l’ha perduto, perché egli sa “esattamente dove si trova.” – se togli a un dio l’onniscienza ben poco gli rimane.
“Venendo in America la gente ci ha portato con sé. Hanno portato me, Loki e Thor, Anansi e il Dio-Leone, leprecauni, coboldi e banshee, Kubera e Frau Holle e Astaroth…” – tutti meritevoli di rispetto, per cui quando mi capiterà d’incocciare un addetto ai carrelli dalla pelle non troppo diafana, non mancherò d’inchinarmi davanti a tanta grazia divina. “… e hanno portato voi. Ben presto la nostra gente ci ha abbandonato, ricordandosi di noi soltanto come creature del paese d’origine, creature che credevano di non aver portato nel nuovo mondo. I nostri fedeli sono morti, o hanno smesso di credere in noi…” – non è la stessa cosa? “… e siamo stati lasciati soli, smarriti, spaventati e spodestati, a cavarcela con quel poco di fede o venerazione che riuscivamo a trovare. E a sopravvivere come meglio potevamo…” – non c’è più religione a questo mondo! Il che non è vero, in quanto le mediocrità sono stata e assunte a divinità (per questioni di rima), ma anch’esse cadranno per terra nel giro di alcune settimane.
“… Ammettiamo, esercitiamo una ben scarsa influenza. Li deprediamo, li derubiamo, e sopravviviamo; ci spogliamo, ci prostituiamo, li derubiamo e beviamo troppo; lavoriamo alle pompe di benzina e rubiamo e truffiamo e viviamo nelle crepe ai margini della società. Vecchi dèi, in questa nuova terra senza dèi.” Attualmente gli dèi più onorati sono quelli “delle carte di credito, delle autostrade, di Internet e del telefono, della radio e dell’ospedale e della televisione, dèi fatti di plastica, di suonerie e di neon. Dèi pieni di orgoglio, creature grasse e sciocche, tronfie perché si sentono nuove e importanti” – panta rei, tranquillo. Spariranno nel nulla, dopo essere state arse (termovalorizzate) al fine di produrne dèi nuovi di pacca, in garanzia 24 mesi.
Shadow viene malmenato da un paio di poliziotti. Appena escono, Laura li neutralizza per sempre (uno mentre sta facendosi una sega), insieme ad altri che si erano aggiunti alla banda. Si limita poi a commentare che “Da morti, uccidere diventa più facile” e che “non è poi tutta questa tragedia, voglio dire. Non si hanno più tanti pregiudizi.”
Il sogno di questa benedetta ragazza (tutte le benedette ragazze ne hanno almeno uno): “Non voglio questa mezza vita. Voglio essere viva per davvero. Voglio sentire il cuore che mi batte nel petto, il sangue che mi scorre nelle vene, caldo, salato e reale…” – credo che a me mancherebbero tutte queste cose, anche l’acufene, di cui al momento farei volentieri a meno. Come tutti, Shadow talvolta sogna: ora un “uccello nero” che gli dice: “Tu sei l’uomo ombra.”
Il caos che ne deriva cela il solito abisso, per cui “oscurità, la sensazione di cadere… sembrava che stesse capitombolando in un grande buco, come Alice. Cadde per cent’anni nell’oscurità. Tante facce gli passarono accanto, fluttuanti nel buio, ma furono strappate via prima che le potesse toccare…”
Un uomo-bufalo non risponde a una sua domanda, ma gli chiede: “Cosa sono gli dèi?”, quesito a cui nessuno può rispondere. Per capirli, occorre esserli. Per comprendere cos’è un uomo, basta esserlo, questo è lo scopo della vita: Conosci te stesso, concetto da far convivere non con un blando So di non sapere, ma con un più arrendevole Non so se so.
L’autore inserisce talvolta delle storie cronologicamente altre, molto belle, che non mi hanno causato una reazione. Ora Chissà dove, sempre in America, ne ha scritto una che è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, che ha inondato lo schermo, umiliandolo. È la storia di Salim, che “è a New York, in America, da una settimana”, che la sera, dopo una giornata di lavoro presso la “piccola fabbrica di cianfrusaglia” gestita dal cognato e dai di lui soci, legge “il Corano” e che sa “che tutto passa, e anche il suo soggiorno in questo nuovo mondo è limitato nel tempo.” Egli sale su un taxi guidato da un jinn, un rappresentante del “popolo di fuoco”. I due discorrono nel medesimo idioma. Lo jinn dice: “I vecchi credono. Non pisciano nei buchi perché il Profeta ha detto che lì vivono i jinn. Sanno che gli angeli ci tirano addosso le stelle infuocate, quando cerchiamo di ascoltare i loro discorsi. Ma anche per i vecchi, quando arrivano in questo paese, noi diventiamo molto, molto distanti. In patria non ero costretto a guidare un taxi.” Non so se li incontrerò di nuovo, ma nel caso Salim si chiamerà come lo jinn (“Ibrahim bin Irem”, nome che appartiene a un terzo, misterioso, individuo) e guiderà un taxi. Lo jinn si chiamerà “Salim” e sarà chissà dove. Gli immigrati, non solo negli States, ma dappertutto, sono uno, nessuno e centomila, e alcuni di loro sulla patente riportano il nome di Mattia Pascal. L’ex Salim “lancia per aria le chiavi e le riprende al volo. Poi si infila gli occhiali da sole di plastica che ha trovato in una tasca ed esce per andare a cercare il suo taxi.” – se lo trova sarà un casino.
Il signor Ibis dice a Shadow: “Il Signore ha concesso al mio socio il dominio sui morti, esattamente come a me ha dato l’abilità con le parole. Bella come le parole. Scrivo libri di storie, sai? Non grande letteratura. Per divertirmi. Resoconti di esistenze.” – niente male per un impresario di pompe funebri, che una volta era un semplice necroforo. Ibis narra (chissà se è vero) che gli antichi egizi erano arrivati in America “tremila e cinquecento anni fa. Uno più, uno meno” – tremila cinquecento anni dopo, uno più o meno, ci tornò Thor Heyerdahl, partito col suo Ra II dal Nord Africa e arrivato serenamente 57 giorni dopo alle Barbados. Non è facile vivere in un mondo che non ti appartiene, ma lo è esistere masticando una chewing-gum, senza porsi simili questioni.
“E poi, come se qualcuno gli guidasse la mano, alzò il rasoio e se l’appoggiò con la lama aperta sulla gola.” Poco più tardi “gli sembrava inconcepibile di aver potuto anche solo pensare di tagliarsi la gola, mentre sistemava la cravatta il suo riflesso continuava a sorridere.
‘Ehi’ gli disse ‘Forse tu sai qualcosa che io non so?’ e immediatamente si sentì sciocco.’”
Il suicidio è un evento quasi sempre rimandato a miglior occasione, nel frattempo l’immagine nostra ci mantiene in vita. È quel quasi che fa la differenza.
Gli chiedono se ha mai “guidato un carro funebre”. Poiché risponde di no, gli dicono che “c’è una prima volta per tutto. È parcheggiato qui davanti.” A una domanda che più precisa non si può (che “non era quella, la domanda che aveva pensato di fare”), se quel Jacquel credesse nell’anima, egli risponde come può: “Dipende, ai miei tempi era tutto organizzato, quando morivi ti mettevi in fila e rispondevi per le buone e le cattive azioni, e se il peso delle cattive azioni superava di una piuma il peso di quelle buone gettavamo la tua anima e il tuo cuore da Ammet, il mangiatore di Anime.” – si stava meglio quando si stava peggio, anche perché allora si usava “una piuma molto pesante. Ce l’eravamo fatta apposta. Dovevi essere davvero malvagio per far smuovere quella bilancia…”
Gesù?: “… quel ragazzo era un fortunato figlio di vergine”, un tipo “capace di cadere in un pozzo nero e uscirne fortunato come una rosa.” – probabilmente un raccomandato divino.
Mitra? Sì, quello “con il berretto rosso”, un tipo “simpatico”. Mai visto né conosciuto, almeno dalle mie parti.
“Sei morto Sweeney” gli dici ,“I morti si devono accontentare”, mentre lui aspirava alle prefiche che strillano come matte e tutta l’ambaradan, compresi “gli uomini coraggiosi che mi ricordano narrando le mie gesta dei bei tempi.” – tremila anni di eroismi ormai sopiti per sempre. Non ci sarà nulla di tutto questo e sa che dovrà “per forza” accontentarsi di quel che passa l’impresa (di pompe funebri). Prima di tacere per sempre, Sweeney spiega a Shadow il trucco del gioco delle monete che appaiono e scompaiono. Non c’è trucco e non c’è inganno, nessun “attrezzo”, semplicemente “bisogna prenderle dalla riserva” – lo si fa con tutti i tipi di soldi, basta andarli a prelevare in banca. Prima di volare chissà dove, “mostrò a Shadow come si faceva. Questa volta Shadow capì” – io no, ma il mio caso, per quanto penoso, non fa (ancora) testo.
Wednesday è venuto a prendere Shadow. Lui vorrebbe salutare gli amici, ma non c’è tempo, anche perché, come gli dice Wednesday “i saluti sono un genere sopravvalutato.”
Quando ci si lascia, o ci s’incontra ci si augura la salute, che è la prima cosa che viene in mente a un vivente. È una speranza di salvezza momentanea e nulla più.
“Shadow si rendeva conto che quel periodo nella dimora dei morti era stato solo una sospensione momentanea; cominciava già a sembrargli un evento accaduto a qualcun altro, tanto tempo prima.” – e, nel frattempo si è conclusa la Parte prima, che era intitolata Le ombre. Già incombe la seconda, che è dedicata a Il mio Ainsel.
Un non propriamente olimpico giudizio di Wednesday: “Spioni. Membri dell’opposizione. I cattivi.” Più umana la replica di Shadow: “Ho l’impressione che loro credano di essere i buoni.”
Probabilmente anche il sommo sacerdote Anania e il suo degno successore Caifa lo pensavano. Anche Diocleziano, Tomás de Torquemada e i mediocri tirannelli che hanno allietato il cosiddetto secolo terribile (che non lo fu più di altri): al pêş an gh ē mai fîn, al peggio non v’è mai fine. Prova a raccontare dei partiti moderni a quegli idealisti che nel Triangolo Rosso si presero a schioppettate tra il ‘43 e il ‘49…
Shadow, il cui nome ora è Ainsel “Mike Ainsel” per l’esattezza, “in tasca aveva il dollaro con la testa della Statua della Libertà. Lo prese tra le dita della mano destra alzandolo in modo che il bambino lo vedesse bene. Lo fece scomparire nella sinistra, mostrò entrambe le mani vuote, portò la sinistra alla bocca e tossì facendo cadere la moneta dalla sinistra alla destra” – magica eredità del gigantesco Sweeney.
Da anni trascorro una buona parte del mio tempo ad Amalfi, dove alcune volte all’anno succede il Miracolo della Manna (detto anche Miracolo del Sudore di Sant’Andrea). Quando, in una cripta della cattedrale zeppa di fedeli, mi capitò di assistere alla verifica del Miracolo (che non sempre avviene nella medesima misura), mi parve un evento pagano che m’indusse a pensare che fosse costruito ad hoc per permettere al vescovo di dare maggior risalto alla predica del giorno dopo, che era il 30 novembre, giorno in cui il Santo Apostolo è venerato. Di questa mia incredulità non ho ancor cessato di pentirmi. Da allora tale evento è accaduto troppe volte perché non ci sia sotto qualcosa di (estremamente) reale. I concetti di Realtà e di Verità sono troppo arcani per essere discussi a parole. Verità deriva dal sanscrito vrtta, che indica un fatto che è successivo. In sanscrito varami vuol dire scelgo, voglio. Verità è quel che scelgo di credere. Enten-Eller, direbbe Søren, e io credo che il Danese sia uno dei più grandi scrittori della pur breve esistenza umana. La realtà è la cosa che esiste e nulla più.
Marguerite Olsen consiglia a Shadow-Mike di “dare un’occhiata ai libri del piano di sotto.” – anzi, lo chiede soltanto, ma a volte una domanda, per quanto innocente, non prevede una risposta negativa. Shadow-Mike in un primo tempo dice che “non era nei miei programmi”, ma quando lei dice che è “per una buona causa”, Shadow-Mike accetta: “Allora ci andrò senz’altro.” Non so chi sia in realtà questo Shadow-Mike, di sicuro è una persona assai disponibile.
Una domanda, ormai diventata un leitmotiv, un po’ come il gioco delle monete che appaiono e spariscono quasi all’istante, è: “Come si fa a sapere che la CIA non era coinvolta nell’assassino di Kennedy?”, che è come chiedere come si possa comprovare con certezza fideistica che la CIA sia responsabile di tale omicidio (o di quello di Marilyn) o che il SID non sia lo sceneggiatore di quell’intrico oscuro di trame che portarono agli eccidi della fine anni ‘60 e dell’inizio anni ‘70?
A Lakeside, luogo ameno (a meno trenta gradi sotto zero, ora che è inverno) sparisce una ragazzina (evento che accade quasi annualmente) e varie squadre di cittadini (fra cui anche il profugo Shadow-Mike) partono alla sua ricerca, come se fossero in una gita scolastica: “All’ora di pranzo si unirono agli altri su un pulmino scolastico requisito per l’occasione e mangiarono hot dog e brodo caldo. Qualcuno indicò un buteo su un albero spoglio e qualcun altro disse che sembrava un flaco, ma siccome volò via la discussione non ebbe seguito.” – era un buteo perché così ha deciso Dio Neil, detto il Gaiman. Quella fu quel che il gruppo di Shadow-Mike rinvenì e che si fissò nella coscienza di ognuno.
Un altro miracolo (al mondo non esistono banalità e i miracoli sono così consueti che rasentano la noia): il nonno di Hinzlemann, “tornato a casa appoggiò lo strumento vicino alla stufa a legna. Ebbene, mentre tutta la famiglia dormiva, di colpo le note congelate cominciarono a uscire dalla tromba…” – erano state suonate “durante una gelata” ma “faceva così freddo che non uscì nemmeno una nota”, se non più tardi, al calduccio.
“Il pomeriggio trascorse interminabile, infruttuoso e deprimente. La luce sbiadì piano piano: le distanze si ridussero e il mondo diventò color indaco mentre il vento soffiava così freddo da bruciare la faccia.”
Lakeside ha “meno di venti” disoccupati, “su più di cinquemila abitanti compresi i dintorni. Non saremo ricchi ma tutti hanno un impiego…” – a parte quei diciotto o diciannove miserabili. Ha fatto più danni la statistica di qualsiasi altra paranoia umana. Intanto, a pagina 288, Shadow-Mike compie l’ennesimo prodigio delle monete.
Dopo alcune peripezie (e viaggi nel passato che Neil condivide col sottoscritto), Shadow-Mike è al telefono con Wednesday, il quale non pare in giornata: “Io sono superato. A chi cazzo gliene frega qualcosa di me?”, al che Shadow-Mike gli ricorda: “Tu sei un dio.” – pronta e divina replica dell’ipostasi di Odino: “E allora?”. Secondo Shadow-Mike “è una bella cosa”. L’altro che può rispondere se non con un “Ah sì?”
Laura, che ora “non indossava più il tailleur blu con cui era stata seppellita. Adesso portava una gonna lunga e scura, uno strato di maglioni e un paio di stivali rosso borgogna”, dopo aver risposto all’ingenua domanda del suo “cucciolo” (così lo chiama dopo tant’anni), dice che era “diretta a sud perché il freddo non mi piace. Una volta mi piaceva, dirai, ma adesso no, deve dipendere dal fatto che sono morta. Più che freddo lo percepisci come una specie di nulla; e quando sei morto è proprio il nulla che ti fa paura…”
Una certezza avvolge il buon Shadow-Mike: “Io sono vivo. Non sono morto, non ti ricordi.”
La cucciola fonda il suo discorso su uno strano dilemma: “Non sei morto, però sono sicura che tu sia davvero vivo.” – e Shadow-Mike non può fare a meno di pensare: “Che brutta piega ha preso questa conversazione”, e poi specifica (a me, a se stesso): “Che brutta piega ha preso tutto quanto.”
Lei lo ama, ma gli fa notare che “da morti si vedono le cose con più chiarezza. È come se tu non ci fossi, capisci? Sei come un grosso, solido buco a forma di uomo.” – e questa strana sensazione lei ce l’aveva anche quando stavano insieme. Lei entrava in una stanza dov’era lui “credendo che fosse vuota” e “tu eri lì seduto; non leggevi, non guardavi la tv, non facevi niente.” – il dolce far niente è la mistica condizione dell’illuminato e di chi vive nel buio totale e non gliene frega nulla.
Robbie invece “era vero. Uno stronzo, a volte, oppure divertente, e quando facevamo l’amore gli piaceva avere gli specchi intorno perché così poteva vedersi mentre si scopava, ma era vivo, cucciolo. Voleva veramente le cose. Riempiva lo spazio.” – come se non fosse un’illusione, ma qualcosa di tangibile, un corpo fin troppo sodo. Uno di quelli che si schiantano mentre guidi e una ti fa un po’ di sesso orale. Lei, vedendo il cucciolo, allibito gli fa una domanda che più luminosa non può essere: “Ma sei sicuro di essere vivo?”
A pagina 332 (e seguenti) scopro che Bilqis, “la regina di Saba” è una zoccola di Los Angeles, che come batte lei, nessuno la batte (eh eh): “È in piedi, padrona del marciapiede e della notte che l’avvolge.” – in attesa, “spera che la fine delle piogge riporti i clienti.”
Shadow-Mike, chiunque egli sia, viva la sua età più ingenua. E lo dimostra quando dice a Wednesday che, se anche gli tagliasse la gola, “probabilmente non sentiresti neanche male.” Non è proprio così: “Farebbe male eccome. Il dolore è dolore anche per quelli come me. Se ti muovi e agisci nel mondo materiale agisce su di te. Il dolore ti fa soffrire, esattamente come l’avidità intossica e la lussuria brucia. Magari non moriamo facilmente ed è più che certo che moriamo male, comunque moriamo. Se siamo ancora amati e ricordati qualcosa che ci assomiglia parecchio prende il nostro posto e tutta la stramaledetta storia ricomincia daccapo. Se veniamo dimenticati siamo finiti.”
In Riscrivere l’umanità, Kevin Davies narra di quel bambino insensibile al dolore che, per gioco, si schiantò al suolo gettandosi dal punto più alto della sua dimora. Il dolore non serve più se non dopo morte, e forse fa parte dei rimpianti che colpiscono chi non c’è più e che è ormai sazio di quel nulla di cui parla Laura.
Nel frattempo, a pagina 348, Shadow-Mike strabilia per l’ennesima volta il piccolo Leon coi suoi giochetti da Mago Silvan. L’enigmatica Sammi si fa portare in giro in auto da Shadow-Mike ma viene colta da dubbi. Ha scoperto che lui è un ex carcerato, attualmente ricercato per quella faccenda dei poliziotti uccisi e viene colta da paura. Lui la rasserena e, al quesito di “chi ha ucciso quei due”, promette di rispondere. Però: “se te lo dicessi non mi crederesti”, al che lei replica: “Io posso credere a qualsiasi cosa. Non hai idea di quello che riesco a credere” e poi enuncia tutta una serie di credenze, in tutto 18, ma ogni credo ha delle sottocredenze che non finiscono più. L’ottavo è uno spoiler di un romanzo che ho adocchiato da tempo (del suo autore, H. G. Wells, ne ho letto da poco altri due). Il quindicesimo è: “Credo che chiunque sostenga di sapere come va il mondo sia capace di mentire anche sulle piccole cose”. Ho mantenuto il refuso perché è ormai parte della Verità, di una delle sue tante traduzioni. L’ultima è “Credo che la vita sia un gioco, uno scherzo crudele, e che sia quella cosa che ti capita quando sei vivo, quindi tanta vale godersela” – o quanto meno non farsene troppo un problema, dato che è il problema.
Una così fervida e variopinta fedele, alla domanda “Ci crederesti se ti dicessi che tutti gli dèi immaginati sono ancora con noi?”, ha un’unica risposta possibile: “… Può darsi”.
Esistono le bugie a fin di bene? Esistono bugie che non lo sono? Esistono Verità che nulla hanno a che fare col Bene? Esistono verità che coincidono col Bene?
Ennesima, noiosissima ripetizione della nozione dell’effetto tunnel quanto-meccanico, che consente una transizione a uno stato impedito dalla meccanica classica. Una particella non può superare una barriera, se è priva della necessaria energia. Poiché le funzioni esponenziali non sono mai riducibili a zero, deve pur esistere una pur minima possibilità che essa, prima o poi, riesca a passare. Spari un protone contro una barriera supermassiccia: il 99,99% delle volte essa sarà bloccata. L’ultimo 9 però non è infinitamente periodico, e la misura delle probabilità non sarà mai uguale a 100%: nulla lo è, ‘n coppa a ‘sta terra. Tutto prima o poi può necessariamente accadere.
Anche che la cuginetta che il poliziotto Chad stava aspettando e con cui forse presto si congiungerà, sia Robbie, moglie di quel tipo che guidava mentre Laura gli stava facendo l’ultimo servizietto. Robbie riconosce Shadow-Mike e costringe il suo spasimante (che è anche suo cugino di secondo o terzo grado) a chiuderlo in gabbia e poi, perché la cella puzza di merda, a tenerlo fuori ammanettato. Mentre è da quelle parti, come già un’altra volta (quando la donna sullo schermo le chiese se gli interessava dar un occhio alle sue tette), “i personaggi di Cheers avevano smesso di recitare le loro battute per mettersi a fissare Shadow.” – si tratta di divi a prezzi popolari, costosi quanto una confezione di prodotti per la casa.
“Una sommessa voce femminile fuori quadro disse: ‘Non è ancora tardi per passare dalla parte dei vincitori, comunque sei libero di restare dove sei. Essere americano significa poter scegliere. Questo è il miracolo americano. Libertà di fede significa di essere liberi di credere nella cosa sbagliata, in fondo. Esattamente come la libertà di parola ti dà il diritto di tacere.” – la versione ufficiale è che Marilyn la sua ultima sera non riuscisse a pigliar sonno.
Un “uomo che guardava in macchina” all’improvviso “si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro come un orso in gabbia. Era Wednesday. In un certo senso sembrava che si stesse divertendo…”.
A un tale, che si chiama non a caso World, egli dice: “Io credo che le vostre promesse siano fatte per non essere mantenute e i vostri giuramenti per essere rinnegati. Io ho una parola sola.” – fai conto che alla trasmissione assista la mia mamma, che direbbe allora: O grósi o gnînto!, se devi dire una balla sparala grossa se vuoi che almeno un po’ ci credano! Al che quell’anziano dio viene tolto di mezzo “e ancora una volta metà della faccia di Wednesday si dissolse in una nuvola di sangue, ci fu un fermo immagine.” – un senso di statica immortalità.
“Sì, è ancora la Terra di Dio” – si chiede l’annunciatore – “ma la domanda è: di quale dio stiamo parlando?”
Due agenti vengono a prelevarlo per portarlo da un’altra parte. Si tratta del signor Nancy e di quell’altro, come si chiama? Ah, vero, Chernobog che gli dice “io sono ancora qui che aspetto di spaccarti la testa con la mia mazza…” Più tardi Shadow non più Mike chiede a Nancy se “è proprio morto, Wednesday? Non è uno scherzo, vero, o qualcosa del genere?”
Considerazione temporaneamente finale di Neil: “Si rese conto solo in quel momento di essersi aggrappato a una speranza, una folle speranza. Ma l’espressione di Nancy gli disse tutto quello che c’era da sapere e anche l’ultima speranza svanì.” – e poi si dovrà ricominciare dall’inizio. Ad esempio 14.000 a.C., che è il sottotitolo del sottocapitolo L’arrivo in America.
Il dio attualmente vigente è Nunyunnini, “un cranio di mammut, e la sua pelle, trasformata in un rozzo mantello”, il quale spinge il suo popolo eletto, uno dei tanti, a “viaggiare in direzione del sole.” – onde evitare la catastrofe che “arriverà dal cielo”, contro cui “né le tue lance né le tue pietre potranno niente.” – il dio parla con la voce di “Gugwey l’anziano”, a cui è toccato il turno “di nascondersi sotto il manto e infilare la testa dentro il teschio”. Una cosa mi fa sorridere (e gemere dalla rabbia): “durante il viaggio non persero nessun membro della tribù eccetto una donna che morì di parto, ma le partorienti appartengono alla luna, non a Nunyunnini.” – diffidate delle religioni che prevedono le corporazioni, sono le peggiori.
Durante il viaggio, Nunyunnini fu definito “il migliore degli dèi”, almeno secondo “Kalanu la guida”. Più realistica è “Atsula la sacerdotessa”: “Gli dèi sono grandi” anche se “il nostro cuore è più grande ancora. Poiché è dai nostri cuori che essi nascono, e ai nostri cuori faranno ritorno…”. Ti dirò poi la mia opinione, Atsula.
“Alcuni guerrieri avrebbero voluto prendere gli oggetti sacri, rubando gli dèi del Popolo Originario e assorbendone il potere, ma altri si opposero, dicendo che ciò avrebbe portato sfortuna, scatenando le ire dei loro dèi.” Conseguenze varie: “così gettarono tutto in un profondo dirupo e portarono con sé i sopravvissuti del Popolo Originario nel loro lungo viaggio verso sud. Le tribù dei corvi e le tribù delle volpin diventarono ancora più potenti in quella terra e ben presto Nunyunnini fu completamente dimenticato” – oh Signȏr!
La mia opinione è questa, signora Atsula: tutto è nato quando dall’oceano sono emerse le terre, che una volta era Unica e comoda (Pangea si chiamava). Poi i continenti cominciarono ad andare alla deriva, rendendo tutto più complicato ma niente affatto impossibile. Sull’acqua era problematico erigere templi o chiese varie, per cui i nostri sono dèi obbligatoriamente terrestri (terra-terra), anche quelli che ipocritamente definiamo marini (come Poseidone).
Caro Neil, ti sto leggendo perché me l’ha chiesto mia figlia Anna. È successo anche per il recente Anna dei capelli rossi. Mentre scrivo queste righe, lei sta ripassando Platone (domani avrà l’interrogazione in greco). Ecco alcuni dei concetti che ha appena espresso ad alta voce: non bisogna cercare un senso logico in certi miti: perché non c’è. Oppure c’è ma è nascosto nell’assurdità. Tipo quello dell’androgino che Aristofane narra nel Convivio. È Falso ergo è Vero. È Vero ergo è Falso. O la Morte è un Nulla, in cui si sogna l’Ineffabile o è una Transizione che non si capisce affatto.
Si prega ora di fare silenzio che sta iniziando la Parte terza: La tempesta.
Chernobog ha fatto un sogno, lui è “Bielebog, in realtà” – che parola assurda!“Da sempre il mondo immagina che siamo due, il chiaro e lo scuro, invece adesso che siamo entrambi vecchi scopro di esserci stato sempre e solo io, davo i doni alla gente e poi glieli portavo via.”
Quello sciocco di Shadow gli domanda acutamente se non ha paura del cancro, lui che fuma tanto. Risposta doverosa: “Io sono il cancro. Non ho paura di me stesso.” Quelli come lui, dice Nancy, “non si ammalano di cancro. Non ci viene l’arteriosclerosi né il morbo di Parkinson o la sifilide. Siamo duri da ammazzare.” Gli Altri “propongono una tregua per consegnarci il corpo” (di Wednesday, ovviamente).
Chernobog pensano che i nemici stiano mentendo: “Ci vogliono attirare in trappola e poi ucciderci. Come hanno fatto con Wednesday. È quello che facevo anch’io, una volta.”
Wednesday-Odino è effettivamente morto e se non l’ho evidenziato con chiarezza è che non ritenevo il fatto importante.
Quando Nancy spiega a Shadow che non deve avere paura del buio, lui pronuncia una verità non meno ipotetica di altre: “Non è il buio che mi fa pura, ma la gente che ci si nasconde.” – che è come dire che uno non ha paura della morte quanta ne ha che gli venga meno il fiato.
“… non è la morte, ciò che conta. Conta la possibilità di risorgere. E quando il sangue scorre…” – c’è chi dice zuppa e chi pan bagnato. Se non c’è morte, non c’è resurrezione. Risorgere è morire, è risorgere, è morire, è risorg…
“Brahma crea, Vishnu conserva, Shiva distrugge, e il terreno è sgombro perché Brahma possa ricominciare daccapo.” – la fola dell’oca è bella ed è corta, vuoi che te la conti?
I due gruppi nemici s’incontrano. Town dice a Shadow che dovrebbe andare in galera, e questi dice di quel tale a cui Gesù aveva promesso “un posto in Paradiso” – e che anche lui dovrebbe aver rispetto per chi… Insomma le chiacchiere si sprecano in questa riunione mal combinata. In quell’altra squadra brilla una tipetta che si chiama Media (forse Mass di cognome: mia illazione), la quale dice al Nostro che ormai “Wednesday è morto. Tu non devi niente a nessuno. Vieni con noi. Unisciti alla Squadra Vincente, è giunto il momento.”
Shadow sta pensando a Laura che fa un sacco di porcate, fra cui quella cosa “a Robbie mentre un camion li travolge consegnandoli all’oblio” – e io mica ho capito dove sia Robbie ora. Shadow incontra “un vecchio compagno di cella” – che è sempre una bella esperienza di cui pur se ne farebbe a meno, e che rivela d’essere “Loki Lie-Smith, fabbro di menzogne”.
In un fumetto della Marvel rivedo l’immagine di un Loki che cammina insieme a Thor, ambedue giovinetti, il primo curvo e torvo, il secondo fiero e principesco. Dice Loki il mentitore: “Tu devi capire questa faccenda degli dèi. Non ha niente a che vedere con la magia. Riguarda te, ma nel senso di quello che la gente crede che tu sia. Riguarda il fatto di diventare l’essenza concentrata e ingigantita di te stesso. È come diventare tuono, o la potenza di un cavallo lanciato al galoppo, o la saggezza…” – e altre notevoli balle. E se poi ti dimenticano, amen.
“… gioia e dolore sono come il latte con i biscotti. Stanno bene insieme.” – de gustibus…
Già gli era capitato una volta che era in viaggio con Wednesday, anche stavolta Shadow “aveva perso la nozione del tempo. Avevano guidato per due giorni, o tre? Non lo sapeva.” Shadow viene impiccato a un albero (lasciandogli “l’ultima corda” attorno al collo “non stretta”). È “appeso all’albero”. E non sta affatto bene. Ha vissuto tempi migliori. “… non sentiva più freddo, o meglio sentiva soltanto freddo, però adesso il freddo era diventato parte di lui.” Un pensiero lo prende (prende Neil e ora me): “Forse l’albero a cui l’avevano appeso si estendeva dall’inferno al paradiso, e lui era legato lì dall’eternità.” Gli “sembrava di bruciare” e “moriva dal freddo.” Il dolore era “rosso”, “verde”, “azzurro”. Poi, “nella sua follia ora lui era molto più dell’uomo, era l’albero ed era il vento che soffiava tra i rami spogli dell’albero del mondo; era il cielo grigio e le nubi che si addensavano…” – e un sacco di altre cose.
Horus gli chiede, tra l’altro: “Stai morendo, vero?” e finalmente (è forse il caso di dirlo?) “la testa non pulsava più. Tutto rallentò. Non c’era più niente che lo potesse far respirare. Il cuore cessò di battere. L’oscurità nella quale piombò era profonda, illuminata da una sola stella, e conclusiva.”
Requiescat in pace! Ma non credo andrà a finire così, non andrà mai a finire, nemmeno dopo l’ultima pagina del presente volume, temo.
“Tre diramazioni” – gli dice una donna – “… se ne imbocchi una diventerai saggio. In fondo all’altra diventerai un uomo integro. Quell’altra ancora ti ucciderà.” – a lui poco importa e le dice: “Sono già morto, credo.”
Il cuore di Shadow è nella mano di un essere dotato di “una sornione voce femminile” che le dice che “non solo non esiste un lieto fine”, ma che “non c’è neanche una fine” – fra una novantina di pagine il romanzo, anzi, come si dice in gergo, il fantasy, non la storia, avrà la sua fine. Shadow ha le idee sufficientemente chiare: “Adesso voglio riposare. Riposare e basta. Nient’altro. Né paradiso, né Inferno, niente. Solo che abbia fine.”
Dietro l’ultima porta, “non c’era niente. Né tenebre. Né oblio. Soltanto il nulla.” – tra l’altro miserrimo e minuscolo.
“Shadow l’accettò senza riserve, e varcò la soglia entrando nel nulla con una gioia strana e violenta.” – bravo! Io invece ora me ne vado a dormire. “Morendo su quell’albero Shadow era stato straordinariamente vivo. Buonanotte! Lo aveva osservato bene, mentre la vita lo abbandonava era concentrato, reale. E le aveva chiesto di restare con lui, di passare la notte con lui. L’aveva perdonata… forse l’aveva perdonata. Non era importante. Shadow era cambiato, di questo poteva dirsi sicura.”
Quel Neil, quel Gaiman, ha soltanto tramandato quanto io, ipocrita esegeta, sto riportando. Chissà cosa realmente è successo, sempre che sia successo. Il soggetto della frase era Laura, la non del tutto morta, la cui vita non fu un esempio di virtù, la cui morte fu però portatrice di valori nuovi, anche se sbiaditi e infreddoliti.
“La morte le procurava una sofferenza che consisteva soprattutto di assenze: aveva sempre sete, un’arsura che le bruciava le cellule, nelle ossa un’assenza di calore assoluta. A volte si chiedeva se le fiamme scoppiettanti in una pira…” – eccetera eccetera (che sono le normali fantasie di una che non ci sta più né con la capa né col resto). Di quella pira, l’orrendo fuoco!
“Dal giorno della sua morte Laura aveva smesso di pensare per metafore: le cose erano o non erano. Ma adesso, guardando le tre sorelle che esaminavano…” – mi pare che costoro siano parche nel cibarsi di cadaveri.
Ulteriore questione: perché Laura e non Monica, oppure Giustina? Lo vorrei chiedere al professor Ugo Dotti, ma egli è momentaneamente fuori sede, in congedo non si sa se retribuito.
“L’acqua del tempo, che nasce dalla sorgente del destino, il fonte di Urdhr, non è l’acqua della vita. Non esattamente. Alimenta le radici dell’albero del mondo, però. E nessun’altra acqua le è pari…” – e io che credevo che fossero tutte uguali, almeno loro.
“Quando si risvegliò nella stanza vuota Laura tremava. Il suo respiro disegnava…”
L’acqua che le scorreva accanto era la celebre (e fino ad ora sconosciuta) “acqua del tempo, che sgorga dalla sorgente del destino: vedeva la montagna.”
Un’anima morta si scopre parzialmente viva quando le è dato di leccare “il sangue sul dorso della mano meravigliandosi della saliva” e così liquido può rimettersi “in marcia”. Ancora e per sempre: panta rei.
Ora penso a quei numi o aspiranti tali che se la sgodazzavano su quelle giostre (là dove era ben evidenziato “il divieto di salire”), a pagina 121. Non avevo colto l’importanza di quel momento. Ora credo di sì, ma non ne sono certo. Come potrei?
Town “ripose il coltello nel fodero e cominciò a scendere. Quando si trovò proprio all’altezza di Shadow si fermò. ‘Dio come ti odio’ disse.” – invoca Dio per dire che odia, come se quel Nume avesse una precisa contabilità a riguardo. Quando tornò all’auto, Town guarda l’orologio: “segnava le sei e trentasette.” – e qualcosa lo sbalordisce: “O sono stato su quell’albero per otto ore oppure ho fatto un viaggio di un minuto all’indietro nel tempo.” Vince il primo premio di una specie di lotteria esistenziale, quando incontra una donna che si chiama Laura, a cui dice, dopo aver preso una certa confidenza: “Vedi, l’esito della battaglia non conta. Ciò che importa è il caos, e il massacro.” – l’abisso è affascinante, almeno finché vedi precipitare gli Altri. Poi tocca il turno a ognuno. E come si dice dalle mie parti: e mōr ànch i catîv: crepano anche le male erbe. Basta saper aspettare.
Colui che si fa chiamare World “infilò la lama nella carne molle sotto il mento del ragazzo grasso spingendo verso l’alto, verso l’alto, verso il cervello. ‘Dedico questa morte a Odino’ disse, mentre la lama affondava.” Commento successivo: “Sembra che abbia appena visto una sequenza di zero e di uno trasformarsi in uno stormo di uccelli colorati che prende il volo!: 010110010101, ma anche 010010010001, una specie di lotteria squisitamente cosmica.”
“Le religioni sono punti di osservazione che condizionano le vostre azioni, posizioni di vantaggio da cui osservare il mondo” – i testi sacri sono una specie di trip advisor. A noi, clienti paganti, spetta la scelta del sito ultimo da visitare.
“Qualcosa che un tempo era stato un uomo di nome Shadow disse…” – qualcosa a qualcuno. Non esiste uomo che non sia stato nel recente passato qualcos’altro (recente è un aggettivo esornativo, non qualitativo).
“… È difficile rintracciarti, da morto. Non sei andato in nessuno dei posti che avevo pensato. Ti ho cercato dappertutto prima che mi venisse l’idea di guardare qui. Dimmi, l’hai trovata la tua tribù” – la mia risposta sarebbe stata: non è stata ancora attestata, come capita alla particella che, secondo Bohr, solo in quell’istante cessa di essere onda e diventa materia. È soltanto un’antifrasi, però.
Whiskhey Jack dice a Shadow: “Sono una leggenda. Facciamo quello che fanno gli dei, con qualche cazzata in più, e nessuno ci venera. Raccontano un po’ di storie sul nostro conto…” – e così da tali storielle si ri-crea la Storia.
Altra sua baggianata ricca di buon senso: “… gli dèi muoiono quando vengono dimenticati. Anche la gente. Però la terra rimane: i posti buoni e quelli cattivi. La terra non va da nessuna parte. Neanch’io.” – e questo resta vero fino all’ultimo, poi muta anch’essa la sua natura. Non ricordo a che proposito, ma qualcuno da anni insiste a dire che la memoria è fatta di oblio.
A uno Shadow che si sta incavolando per essere stato “riportato indietro”, Easter dice che l’ha fatto “perché dovevo”, e che ora “tocca a te.” – mai che qualcuno si faccia le morti sue.
“La gente continuava ad arrampicarsi sulla montagna a due zampe, a quattro zampe, senza zampe.” – ma qui giova ricordare il detto arşân: a’ndêr a bâs, tót i sânt a jóten; a gnîr a só, gnân mèş: ad andare in basso, tutti i santi aiutano; a venir su, neanche mezzo. È il motivo per cui io credo che il paradiso sia posto sotto i nostri piedi.
World: “In questo triste mondo, pensò, il simbolo è la cosa. Esatto.” – qualcuno l’ha chiamato idea, altri anima, ma non ricordo che vane parole.
Dedicando la morte al suo cucciolo, Laura “si conficcò il bastone nel petto, proprio sotto lo sterno: lo sentì fremere tra le dita mentre si trasformava in una lancia”, in modo tale che potesse, in un secondo momento, penetrare “anche il signor World”.
Shadow incontra “il borbottio familiare di Wednesday”, il quale è abbastanza morto, e una breve ma franca conversazione fa emergere la verità: egli non puntava alla vittoria, ma “un massacro. Un sacrificio di sangue. Un sacrificio di dèi.”
Shadow sa che Loki non si nutre di morte, poiché “il tuo nutrimento è il caos.”
Una banalità che richiederebbe un bardo che attualmente è in ferie perenni: Shadow è il figlio di Wednesday. Di tutte le verità è al contempo la più importante e quella che meno m’intriga. Non so perché. Si tratta di un fatto genetico, mi pare, e null’altro: “Sono stato con tante donne…” – per la legge dei grandi numeri a qualcuno doveva succedere di essere il figlio di un dio.
Shadow: “… La gente immagina e crede: ed è questa fede, questa fede solida come la roccia che fa accadere le cose – mi rammenta un pensiero di Don Giussani: la verità non è solo una luce ma una rupe a cui aggrapparsi.
Nell’Epilogo, che promette di rendere pubblico Quello che i morti ci tengono nascosto, io riporto, anziché la soluzione del giallo dei ragazzini scomparsi (che, per saperlo, occorre leggere il romanzo almeno almeno fino a pagina 498), una battuta di Shadow di poche pagine dopo. Lo sceriffo Mulligan gli ha appena detto che gli era giunta la comunicazione che era “morto in prigione per un attacco di cuore.” – e lui non può esimersi dal rispondere: “Non dirmi. Sembra che non faccia altro che morire dappertutto.” – mi ha fatto davvero ridere!
Shadow va a cercare Chernobog per un motivo molto serio e responsabile: farsi dare la mazzata in testa, com’era nei patti, poiché: “… l’unica cosa che ho capito veramente su come ci si deve comportare con gli dèi è che se stringi un patto poi lo mantieni. Loro contravvengono a tutte le regole che vogliono. Noi no. Anche se provassi a uscire di qui sono sicuro che i miei piedi mi riporterebbero indietro.” Non sono d’accordo, Shadow. Anche quando impreco il suo nome, dentro di me vado ripetendo le parole che m’aveva insegnato la mamma: Dio sia lodato! E questo non significa che io lo pensi veramente, ma che è giusto dirlo in quel momento.
“Doveva farlo, e se fosse stato l’ultimo gesto della sua vita, bene, era lì di sua spontanea volontà. Dopo di che basta obblighi, niente più misteri né fantasmi.” – ho i miei dubbi a proposito.
Capita poi che un turista per caso si rechi a Reykjavik, Iceland, ove incontra un tale che gli fa un ragionamento apparentemente assurdo, apparentemente gratuito. Non lo riporto, ma è come se Zeus dicesse che Giove era Lui, ma che Lui non era lui (un gioco di maiuscole). Lo stesso lo direbbe, altrove, il romanesco Pluvio. Odino è Wōdanas? Che domanda intelligente! Qual è la seguente?
Vorrei ora dire a un amico (che non c’entra con la storia) che la scrittura utilizza non possiede necessariamente un senso logico, né illogico. Se la scrittura fosse un’equazione matematica, non ci sarebbero stati né i poemi omerici, né la Commedia di Dante e nemmeno il romanzo storico per eccellenza, quello che narra le alterne vicende di una coppia di sposini lombardi, sopravvissuti a pesti, carestie, sommosse e vani arbitrii del Potere. La scrittura è neologistica, assurda, necessaria. Essa serve a manifestare realtà che non appaiono, ma che covano nell’anima dell’autore, che in questo caso risponde al nome di Neil Gaiman. Essa è sacra, nel senso che Mircea Eliade attribuiva a questo termine: dove il Divino si mischia con l’Umano, entrambi con la lettera maiuscola e paritetici, per quell’Attimo soltanto.
Dopo il non brevissimo Epilogo, e un più stringato Post-scriptum, con malcelato disinteresse leggo i Ringraziamenti (tre pagine fitte), dopo di cui mi sento legittimato a esprimere l’ultima sciocchezza.
Stamattina sono di partenza. Nessun pesante bagaglio m’opprime, solo due ampie borse della spesa di plastica dura, colme di libri, mascherine, due bottigliette d’acqua, tre paia d’occhiali, stoffe anti appannamento degli stessi, un cellulare, matite, biro, auto certificazioni (due), fumetti (tra cui il team-up di Flash e Zagor), mele, kiwi, clementine, panini, fette di salame, una busta intonsa con fettine di pollo, una pizzetta, una telecamera usb, merendine, questo computer, un mouse, un regalo per zia da parte di Anna, mistero!, tre aperitivi, quattro biglietti della SITA, eccetera eccetera.
Partire è un sopravvivere Altrove, vada come vada (una perigliosa traversata da Qui a Là). Quando si affronta un oceano, o anche un piccolo mare chiuso ma infido, per andare in un luogo che non si finisce mai di conoscere, si muore un po’, poi si risorge, poi un bel giorno si recede di nuovo, forse per sempre. Mi domando quante volte il profugo continui a ri-attraversarla di nuovo, nella sua fantasia, quella distesa d’acqua, e a chi si affidi ogni volta: non ai suoi vivi, ma a chi non c’è più e a chi forse mai ci fu e che è essenziale in quel momento. L’uomo ha bisogno delle sue amorose catene, da spezzare appena gli è possibile. Dio mio! Dio mio! Ogni tanto abbandonami, se puoi!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Neil Gaiman, American Gods, Mondadori, 2012