“La giudicessa” di Rita Coruzzi: la storia di Eleonora d’Arborea, una donna esemplare
Un concetto già espresso: l’autore di un romanzo storico indaga l’anima di chi visse il periodo che va descrivendo, amalgamandola con la propria e in tal modo proseguendo oltre quel punto in cui la ricerca oggettiva della verità pare arenarsi.

Ho conosciuto di persona l’autrice Rita Coruzzi qualche anno fa ed è il mio un azzardo fortemente voluto affermare che si tratti di una donna dal carattere solido, intellettualmente dotata e capace di esprimersi con chiarezza, che sono le qualità peculiari che le sue eroine (Matilde di Canossa, Giovanna d’Arco e ora Eleonora d’Arborea) manifestano con tale evidenza che già dalle prime righe pare al lettore di essere un loro familiare, avvezzo alle loro virtuose peculiarità, nonché ai loro incliti difetti, e di sicuro qualcuno ne hanno anche loro ché, se non li avessero, non meriterebbero di essere ritratte in un romanzo.
La vicenda si svolge in Sardegna, presso l’odierna Oristano, nel secolo quattordicesimo.
“I nemici si trovarono di fronte a una furia cieca, a una voglia di rivalsa e di riscatto che annullava qualunque loro vantaggio, anche la superiorità numerica, perché i sardi combattevano con il cuore in fiamme, davano sfogo a tutta la rabbia e frustrazione covate per generazioni” – non so quanto la battuta risulti politicamente corretta, ma se un giorno m’imbattessi in un sardo che non ha il cuore in fiamme, gli consiglierei una visita cardiologica.
Mariano, giudice di Arborea, ha un figlio maschio di nome Ugone, e due femmine, Beatrice ed Eleonora, che a differenza di entrambi i fratelli, pur amando e ammirando entrambi i genitori, sente per il padre un’attrazione spirituale che la porta a emularne i comportamenti e a coltivarne gli interessi intellettuali.
Mariano sapeva farsi amare dal popolo: “decise di fondare una nuova colonia che avrebbe accolto servi sbandati, famiglie bisognose, contadini senza terra, ex militari che ricevano in proprietà i campi da lavorare e godevano di ampia libertà personale, garantita dalla legge.” – il suo spirito gli suggeriva di condividere i problemi della gente, in un modo che gli permetteva di risolverli, aumentando in tal modo la sua popolarità.
Timbors, la moglie catalana, non gli era da meno e un giorno disse ai propri figli di imitare il padre, assecondando nondimeno la loro propria natura: “… ognuno di voi ha tanti talenti, diverse capacità e avete il dovere di farli fruttare al meglio, in primo luogo per il popolo e poi anche per voi stessi.”
Quando si dice che un leader è carismatico, questo si deve intendere: che è in grado di donare se stesso, anziché depredare il popolo, concependo il potere come un mezzo per rendere sempre più florido il proprio Io truffaldino.
“Lo zio Pietro iniziò con dei semplici starnuti” e cominciava a temere di avere contratto la peste: “sapeva di certe suore che curavano gli appestati e avevano formulato la teoria che la malattia si diffondesse proprio per contagio, stando a contatto con una persona malata.” – il che pare oggi un’ovvietà, ma allora era ritenuta dai medici un’eresia, per cui “visitavano gli infermi solo per pochi minuti, proponevano salassi e pezzuole fredde sulla fronte”: l’unica cura proposta. Le suore erano donne, nonché religiose, cosa ne potevano sapere? In realtà la loro intuizione era basata sull’esperienza operativa, che allora mancava alla medicina ufficiale.
Il giudice parla spesso con la figlia che più pare assomigliargli, e le dice: “L’intelligenza, Eleonora, l’intelligenza è l’arma più potente che l’uomo possiede e che gli impedisce di lasciarsi andare a eccessi e passioni che gli costerebbero un caro prezzo. Usando l’intelligenza si trovano le soluzioni ai problemi e con il tempo si può anche scoprire che sono più numerose dei problemi stessi.” – la quale opportunità diventa a sua volta un problema, la cui soluzione consiste nel sapere scegliere fra due o più eventualità.

Eleonora dice al padre che, pur soffrendo per le vittime della guerra, è “affascinata dalle tattiche militari, dai combattimenti, dalle mosse strategiche e politiche che si celano dietro a ogni battaglia.”
Il padre mostra di apprezzare la sua precoce intelligenza e sente la sua anima sempre più simile alla propria.
Eleonora ha ancora varie incertezze, ma “su una cosa non era disposta a transigere, suo marito avrebbe dovuto portarle rispetto, non chiedeva altro, rispetto e lealtà.” – ch’era quel che sentiva provenire da entrambi i genitori.
La madre purtroppo presto muore a causa della malattia che tanti lutti avrebbe recato alla sua famiglia: la peste.
Eleonora trascorre sempre più tempo col padre, parlando “dell’Arborea, della guerra di re Pietro, della politica e delle successive leggi che Mariano avrebbe dovuto scrivere e promulgare.”
Il figlio Ugone non mostra interesse per queste pratiche, e non capisce “che il popolo è il più prezioso alleato e nello stesso tempo il peggiore nemico del proprio signore”.
Mariano riceve la visita del mercenario Brancaleone Doria, che gli offre i suoi servigi, poiché è alla ricerca di “un’impresa praticamente impossibile per cui essere ricordato per sempre. È questo a ciò io anelo veramente, diventare immortale. Questo non me lo può garantire il re Pietro, anche se è favorito, sebbene lo abbiate battuto più volte. Al contrario, me lo assicurate voi. Re Pietro non ha potere sul popolo, invece i vostri sudditi vi ubbidiscono per amore.” – Mariano è ora popolare come nessun altro in Sardegna.
Durante l’ennesimo assedio, un’idea luminosissima sorge in Eleonora: “… avrebbero potuto rivolgersi a degli intermediari che avrebbero consegnato i viveri alle spie del giudicato che, proprio perché abituiate ad agire non viste, sapevano bene come entrare in città eludendo le porte principali.”
Mariano decide di affidare l’esecuzione del piano a chi l’ha concepito, cioè alla stessa Eleonora, che in tal modo ha il suo primo incarico ufficiale, e così le spiega i motivi della sua decisione: “Hai una capacità di persuasione innata, inoltre tutti ti stimano…”
Eleonora si rivolge ora alle donne, proponendole “di trasformarvi in qualcosa che non avreste mai pensato di essere, ma che potrete diventare: donne guerriere, non con la spada, ma con le parole e con il coraggio che a volte contano più della lama più affilata.”, e poi rincara la dose dell’entusiasmo, pronunciando altre magiche parole: “Io credo in voi, nel vostro valore, siete donne sarde, il sangue che vi scorre nelle vene è un misto di passione, vitalità, coraggio, ma anche di risolutezza. Grazie a voi resisteremo. Mio padre vi ha chiesto di fidarvi di lui. Io vi chiedo, fidatevi di lui e anche di me, sono una donna, vi capisco e non vi abbandonerò mai, siete con noi?”
La folla che può fare, se non esplodere “in un grido”, per cui “le donne si misero a scandire il nome di Eleonora.” – che in quel medesimo istante “era entrata nel cuore di tutte ed era diventata il loro punto di riferimento, il loro modello.”
Tanto giovane, bella e miracolosa donna non può lasciare indifferente un personaggio contraddittorio ma anche idealista, come il mercenario Brancaleone, che si reca da lei e le chiede, senza tanti preamboli, la mano, enumerandole le qualità che ha colto in lei (soprattutto l’intelligenza, la determinazione e la forza interiore) e solo quando lei accetta, sorpresa e ammirata da tanto coraggio, egli decide di passare alle vie ufficiali, rivolgendosi al padre, il quale nega per tre anni il permesso, ma poi capitola, convinto dalla stessa Eleonora, nonché dal figlio Ugone.
La novella sposa era “raggiante: ora la sua mente era libera, fantasticava bei progetti e dolci momenti insieme.”

Andando nello studio, “prese un voluminoso libro e cominciò a sfogliarlo, ora aveva ritrovato tutta l’energia e la voglia di dedicarsi ai suoi studi, anche se quel giorno, pur sforzandosi, riuscì a leggere ben poco…” – ed “era talmente felice che non poté impedirsi di sognare.”
Tanta felicità a volte si paga in modo tragico: Mariano si ammala di quel morbo che giù uccise la moglie, lasciando Eleonora disperata: “Come avrebbe voluto averlo lì, in quel momento in cui stava preparandosi a cambiare completamente vita, a fare un passo così importante. In quell’istante le parve che nello specchio si formasse l’immagine di Mariano, non che si sovrapponesse alla sua, ma che le fosse veramente accanto, dietro le spalle ed entrambi guardassero fissi nello specchio, esaminandosi a vicenda.”.
Ognuno era per sempre correlato all’altro, come due particelle quantistiche che, venendo a contatto, hanno mischiato per l’eternità i loro stati fisici.
“Il loro legame persisteva, erano sempre uniti, avevano la medesima intelligenza, perspicacia, lo sguardo arguto, gli stessi occhi pieni di energia che sembravano guizzare da una parte all’altra. Niente era stato infranto, come temeva Eleonora, suo padre sarebbe stato sempre l’altro lato della sua anima, l’altro lato dello specchio.”
L’informazione, spiega la fisica, pur senza individuarne la ragione, pare viaggiare a una velocità maggiore di quella della luce. Al mutare di una particella, quell’altra, ovunque essa sia, muta in maniera corrispondente. Non è magia, è natura. È mistero.
Morto il savio Mariano, il nuovo giudice, tutt’altro che saggio, è il figlio Ugone, grande combattente, ma pessimo legislatore e oppressore della sua stessa gente.
Essendo le cose siffatte, Brancaleone sceglie di tornare a servire Pietro, il re d’Aragona e la cosa reca una grande sofferenza a Eleonora.
Lui cerca di spiegarle che “i legami tolgono lucidità e non fanno vedere la situazione nella prospettiva giusta, ecco perché ho pensato che in guerra, come nelle alleanze, non bisogna avere un cuore”, ma seguire quella che un paio di secoli dopo Machiavelli avrebbe chiamato la verità effettuale, la convenienza indicata dai fatti.
“Questo poteva generare in loro dei conflitti. Inoltre vivevano guidati dalla passione, cosa che poteva causare loro problemi e sofferenza.”
Le nuove “nozze del re” conducono i due sposi a Barcellona, dove Eleonora ha modo di conoscere Pietro e la sua nuova consorte, Sibilla, che ha parole di ammirazione verso suo padre Mariano, e dove una nuova prospettiva storica pare aprirsi alla sua vista. Tornata in patria, riceve una delegazione proveniente da Arborea.

Qualche tempo prima a Oristano si era svolta una riunione in cui fu stabilito che c’era “bisogno di qualcuno che ripristini l’ordine delle cose come durante il governo di Mariano. E c’è solo una persona che può farlo: ci serve, come lui amava chiamarla, il suo specchio”, essendovi necessità “di chi si occupi di legge agrarie e non solo di comprare i mercenari più abili e le spade più affilate. Ugone è bravo solo a combattere ma non sa governare. Si è incattivito nei nostri confronti, è diventato crudele e spietato con il popolo e soprattutto ha accentrato tutti i poteri, lasciando che la corona de Logu diventasse un inutile orpello.”
La delegazione chiede ora a Eleonora l’autorizzazione a togliere di mezzo per sempre quell’odiato e ingombrante consanguineo e lei capisce che, per quanto tragico, è l’unico modo per salvare la memoria del padre.
Dopo tale omicidio politico, in cui perde la vita anche la figlia di Ugone, la delegazione torna da Eleonora, mostrandole “il testamento di Mariano”, in cui viene stabilito che, una volta morto Ugone e la sua progenie, “il giudicato venga ereditato dai figli della mia amata figlia Eleonora…” – la quale accetta dicendo: “Sono solo la reggente, il signore di Arborea è mio figlio Federico: lo è stato mio padre e, anche se in modo sbagliato, lo è stato anche mio fratello. Io sono una donna di palazzo ma soprattutto di legge, per questo quando vi rivolgerete a me, vorrei che mi chiamaste giudicessa, perché il mio compito sarà studiare, interpretare e applicare la giustizia in favore di voi tutti ma anche verso me stessa, la mia famiglia e chi rappresento, come mi ha insegnato mio padre.”
In tal modo si ripristina l’ordine che era stato sconvolto dalla furia distruttiva di Ugone, il cui compito storico è stato di sconvolgere ogni cosa per permettere il suo conseguente ripristino, nel solito gioco cosmico svolto da Śiva e Visnù, che tutto muta, perché nulla cambi mai.
“Lei prese per mano Federico, in modo che il signore di Arborea, seppure donnicello, camminasse già in mezzo al suo popolo.” – donnicello, piccolo dominus, termine che indica chi era il parente stretto e probabile erede del reggente, durante il periodo giudicale sardo. Nel caso di Federico egli era già il signore, anche se le sue veci sarebbero state per il momento svolte dalla madre.
L’intenzione di Eleonora è forte e chiara: “… governerò il giudicato sulla scia di mio padre, ma desidero anche realizzare qualcosa di personale, che sia soltanto mio, di Eleonora di Arborea. Voglio riportare il giudicato agli antichi splendori e pensare al benessere dei sudditi, prima di tutto. Se trattati bene e con considerazione, diventano preziosissimi alleati, mio padre e mio nonno ne hanno avuto un’ampia dimostrazione e io voglio fare come loro” – e solo successivamente, promette, riprenderà “le battaglie per l’indipendenza.”
Eleonora e i suoi immediati progenitori sono dei monarchi illuminati, che decidono per il bene del popolo, sapendo che in tal caso esso diventerà anche il loro proprio. Ugone, grande combattente, ma odiato tiranno, non seppe fare del bene alla propria gente, né, infine, a se stesso. La condanna a morte voluta dai suoi concittadini, approvata dalla stessa Eleonora, era diventata un fatto inesorabile. Rimane insoluto il mistero per cui l’insegnamento del padre abbia tanto influito sulla sua sorella minore ma, inspiegabilmente, non su di lui, né sulla sorella maggiore.
L’amore per la sua terra, porta Eleonora a far visitare a Federico “i vigneti, gli oliveti, come suo padre aveva fatto con lei, dicendogli: ‘Guarda, figlio mio, questa è la nostra terra. Guarda com’è bella. A volte è testarda come lo siamo noi sardi, ed è un nemico duro da sconfiggere nei periodi di peste, di carestia, ma se la guardi con occhi gentili e se la maneggi con amore, ti regalerà frutti inaspettati e soddisfazioni incredibili.’” – che è un discorso valido per ogni aspetto della vita: scorgere ogni forma di bellezza con occhi ugualmente belli e privi di malizia.
Quel che accade nei sette anni in cui Brancaleone rimane prigioniero degli Aragonesi è descritto con dovizia di particolari dall’autrice, che reinventa in modo mirabile quel che la Storia non può più raccontare, ma non è mia facoltà riportarne la successione dei fatti. L’unica scelta ammissibile è farsi trasportare da quest’opera di realtà mista a fantasia, condividendo l’emozione con cui è stata scritta.
Giusto è sottolineare la consapevolezza raggiunta da questa donna tanto ardita quanto illuminata: “sono una donna di legge, per tale motivo invece che signora di Arborea ho deciso di chiamarmi giudicessa, perché questo è il mio scopo, promulgare leggi per migliorare le vostre condizioni di vita, in modo da rendervela più facile e serena.”
Quando il figlio Federico segue la triste sorte degli avi, il fratello Mariano eredita il giudicato, per cui la madre le dice: “… vorrei che tu capissi quanto sia importante creare empatia con il popolo, immedesimarti nella sua condizione: se lo farai vedrai che il popolo comprenderà te e le tue scelte. Ma prima devi farti amare…”.
Questa è la strategia che sempre funziona, ma che di rado è applicata, perché a chi ha potere interessa soprattutto incrementare il profitto personale, lasciandosi guidare dalla più vile ingordigia, ieri come oggi e, temo, anche domani.
Esistono però persone eccezionali come l’industriale Adriano Olivetti, esempio umano che fu paradigmatico, per quanto mai imitato dai suoi successori: per lui l’anima e il corpo dei propri dipendenti erano dei valori da far crescere, la cui sublimazione avrebbe garantito l’interesse di ognuno, in primis suo ma anche di tutti, rimanendo lui il Capo, il primus inter pares. Chi gli successe, tornò presto ai metodi precedenti, come fece Ugone dopo la morte del padre.
Eleonora, degna figlia di tanto padre, “scelse per il suo codice la lingua sarda e non il latino medievale usato nei documenti ufficiali, seguendo l’esempio del padre, convinta come lui che la legge doveva essere ben compresa dai cittadini perché la osservassero, e non solo dalla stretta cerchia dei funzionari che conoscevano il latino. Perciò anche la nuova Carta de Logu venne redatta nel volgare arborese.”
Tutti “sentivano di appartenere a un’unica grande nazione sarda, o come usavano dire nella lingua volgare, la nacion sardesca. Il codice, che aveva valore per tutti loro, era anche il modo per unificare dal punto di vista giuridico tutta la popolazione e il giudicato stesso.”

Il male oscuro che aveva falciato le vite dei suoi genitori e del suo amato figlio Federico, attacca anche la nostra eroina, che lo affronta serenamente, dicendo al pur giovane Mariano: “Io non me ne andrò mai completamente”: in modo simile, lei sentiva, che “non si era mai sentita abbandonata né da Timbors né da Mariano che, sebbene in modo diverso, avevano continuato a vegliare su di lei; nei momenti più bui e difficili della sua vita li aveva sentiti vicino e sapeva che erano stati loro a sostenerla.” – e questo è il compito della famiglia, che è la prima culla della propria cultura, che per andare oltre, ha bisogno di mantenere ben saldo il legame col passato, per rendere più sicuro lo slancio verso il futuro.
Eleonora dona l’ultimo consiglio al figlio: “… non dimenticare che un buon giudice non deve accontentare tutti, deve fare del suo meglio secondo quello che ritiene giusto…”
Cara Rita, io apprezzo davvero il lavoro che da anni stai attuando col fine di salvare la memoria di queste figure luminose.
Questo è il compito della scrittura in generale, e di quella storica in particolare: rammentare che, pur rimanendo il senso della vita avvolto nella nebbia dell’inconoscibile, il tragitto da seguire durante la nostra esistenza risulta tanto più percorribile, quanto più si possa utilizzare, a mo’ di faro, il radioso esempio messo a disposizione, per l’eternità, da chi ci ha tanto brillantemente preceduto.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Rita Coruzzi, La giudicessa, Piemme, 2021